giovedì 15 gennaio 2009

La poesia nell'età dell'impero

(intervento apparso a stampa su “Il Domenicale”, 6 dicembre 2003, pag. 6, e ripreso qui con lievi varianti)


Il celebre sonetto di Verlaine sull'”Impero alla fine della decadenza” in cui, nel momento in cui si assiste alla fine di una civiltà e di un'epoca, non si sa fare altro che tracciare “acrostici indolenti” può sollecitare qualche considerazione sul ruolo e sulla posizione della poesia nel contesto storico e culturale odierno, contraddistinto dalla condizione del “tardo capitalismo”, dalla smaterializzazione e “deterritorializzazione” della politica e dei poteri, e dalla fase culminante, e forse in pari tempo declinante, del dominio neo-coloniale, se non imperialistico, che l'Occidente esercita sul mondo.

Forse è ancora attuale la nozione ermetica di “disubbidienza al tema”, la convinzione che ogni forma di letteratura ideologicamente engagée, condizionata da intenti di polemica o di propaganda contingenti, estranee alle intrinseche e pure ragioni dell'arte letteraria, sia destinata al fallimento sul piano sia estetico che sociale, essendo ormai irrevocabilmente venuta a mancare, nell'era dello spettacolo, dell'immagine, dell'apparenza, la possibilità, per la poesia, di ottenere una presenza e una risonanza mediatica tali da consentirle d'influenzare l'opinione delle masse - a meno di non degenerare in pura propaganda, di non essere feticizzata a mero strumento o cassa di risonanza (emblematico il rifiuto di Vittorini, in polemica con Togliatti, di fungere da “grancassa della rivoluzione”), o addirittura scivolare in forme degradanti di performance effimera, di superficiale happening, quando non di più o meno volontario e consapevole clownismo.

Non è escluso, peraltro, che proprio l'allontanamento della poesia dalle problematiche ideologiche e politiche – atteggiamento, del resto, coerente con la temperie culturale e spirituale di una società in cui la cesura fra pubblico e privato, fra l'oikos e l'agorà, fra la dimensione affettiva e psicologica del singolo individuo e quella pubblica e civile sembra essersi accentuata, salvo poi essere ridotta e ricomposta artificiosamente, in determinate circostanze, attraverso manifestazioni collettive dal carattere grottesco, paradossale, o addirittura violento, inconciliabili, dunque, con qualunque elaborata e matura forma di poesia – possa, sul piano estetico, produrre i presupposti per esiti letterari di rilievo, garantendo l'autonomia, la purezza, la vera libertà e la vera spregiudicatezza, del gesto poetico, non più turbato ed inquinato da intenti di propaganda ideologica, di polemica ostentata e sterile, di iconoclastia fine a se stessa, vacua, insensata.

C'è poi da chiedersi quale ruolo possa rivestire la poesia in una società multiculturale, che sembra indurre a relativizzare ogni valore e ogni canone anche sul piano letterario. Esempi fra i più disparati – da Seferis a Walcott ad autori giovani come quelli greci della “generazione dell'89”, “rapsodi di epici inverni” alla ricerca di una “voce umana” - si potrebbero addurre per dimostrare la necessità quasi ineludibile di un confronto con una tradizione che l'odierna “compressione spazio-temporale” non deve schiacciare, polverizzare, ridurre a nulla, poiché la lingua stessa, lo stesso strumento di cui la poesia si serve, ha una consistenza e un'esistenza storiche, che affondano nel tempo - nelle molteplici e sedimentate testimonianze e tracce di cui è punteggiato il suo lungo cammino - le proprie radici.

Paradossalmente, proprio il solitario e apparentemente ozioso ripiegamento sulle ragioni storiche e formali del fare letterario – proprio il meticoloso ed esperto lavorio condotto su quegli “acrostici” all'apparenza “indolenti” - può costituire la più autentica, onesta e rischiosa forma di “impegno” letterario: un impegno condotto sulla parola, sulla sua profondità semantica e sulla sua consistenza espressiva stratificatesi e costruitesi nel corso dei secoli – e, dunque, quasi sul corpo, sulla carne stessa della lingua e della scrittura, non su fattori esterni e transitori.


Matteo Veronesi

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