domenica 8 febbraio 2009

Adriano Padua, Poesie sparse

Di Adriano Padua, giovane poeta e massmediologo (già autore di raccolte come Frazioni, del 2007, e Le parole cadute, dell'anno successivo, e incluso da Erminia Passannanti nell'essenziale ed emblematica antologia Poesia del dissenso), ho il piacere di proporre qui alcuni testi in massima parte inediti (alcune extravaganti, si sarebbe detto un tempo, sebbene legate da una continuità e una coesione profonde), che mi sembra rappresentino un punto d'arrivo, il raggiungimento di un compiuto equilibrio espressivo e concettuale, pur senza nulla togliere alla magmatica fluidità, alla tumultuosa mutevolezza dell'esperienza esistenziale e della ricerca stilistica.
Come ha osservato, da lettore complice e compartecipe, Francesco Marotta (anch'egli, non a caso, al pari di Padua, “poeta del silenzio”, cantore effuso, fluente, paradossalmente eloquente, di un'afasia sospesa fra il vertice e l'abisso, fra il sublime e l'insensato, fra l'assoluto precluso alla “coscienza infelice” del pensiero e del linguaggio e il sospetto ossessivo e insistito che solo il bianco, il vuoto, il kafkiano “silenzio delle sirene” possano rispecchiare la verità inafferrabile, o forse rivelare l'inesistenza stessa di una verità, la latitanza o l'evanescenza ultime di ogni fondamento o di ogni significato), questa poesia “fa della necessità – che si esprime in una urgenza quasi fisica, archetipica della parola, nonostante le tematiche la precipitino in una contemporaneità dolente e notturna – e della consapevolezza critica” la sua “cifra più riconoscibile” (http://rebstein.wordpress.com/2007/09/27/risonanze-iv-adriano-padua/).
“Nei luoghi marginali all'universo”, si leggeva in uno dei testi raccolti in Poesia del dissenso, “teatri del silenzio della luce / che s'infinisce cieca ed imminente”: questo lo spazio in cui si muove e respira, tormentata, la parola dell'autore. Proprio nel theatron, nella spazialità e nella visibilità del testo e della pagina, ha luogo e si effonde una ossimorica “cieca luce”, che (un po' come l'oracolo in un frammento di Eraclito) allude e insieme nasconde, accenna e preclude, addita e sottrae.
Il margine estremo dell'universo, l'”orizzonte di eventi”, ricorsivo e ripiegato su se stesso, che cinge ed avvolge un cosmo contraddittoriamente finito eppure illimitato, è una “provincia dell'essere” (per usare un'espressione di Elio Franzini), un lembo defilato, distante, avulso e remoto dal centro, ma proprio per questo aperto ad ulteriori, virtualmente illimitate, risonanze ed espressioni. Proprio, direbbe Heidegger, la deiezione, la gettatezza, la differenza ontologica, la lontananza dall'origine, l'oblio e l'inautentico possono divenire ricettacolo e dimora di una preziosa semenza, giardino di nuove inattese fioriture – come la luce affiora dall'ombra, la forma dall'informe, e il canto emerge e lievita dalla bruma oscura e indistinta del silenzio, per poi in essa ancora ricadere.
La pagina del poeta viene allora a coincidere, precisamente (per citare la fenomenologia), con lo spesso conflittuale e contrastato “testo del nostro essere-al-mondo”. Pur nella sua chiusura, nella sua autoreferenzialità apparenti, tramate di clausole, giochi d'eco, corrispondenze, ricorsi fonici, ritmici, metrici, o forse proprio attraverso di esse, il dire poetico marca i confini, tortuosi, ricorrenti, ripiegati su se stessi, autocoscienti ed autorispecchiantisi, e per ciò stesso oppressivi e angoscianti, dell'esistenza e dell'esperienza.
“La rima”, si leggeva in Frazioni, “è donna a smascherare la tradizione”; “spesso non convivono / frammenti di isotopie semantiche / sulla soglia di liberarsi dal / preesistente linguaggio”. La lingua, la tradizione sono madre e nutrimento (in Lucrezio, “daedala tellus” e insieme “daedala lingua”), fondo originario che rende possibile ogni essere e ogni dire (che esso, ed esso soltanto, presuppongono), e, insieme, gorgo o abisso che tendono a risucchiare ogni esistenza e ogni espressione nelle proprie spire, a richiamare ogni forma e ogni ente all'informe e all'indistinto.
Padua recupera, nei testi qui presentati, l'endecasillabo e il settenario, cioè le unità essenziali, le ossature portanti di quello che Ungaretti chiamava il “canto italiano”. Ma, com'è evidente, non c'è in Padua nessun classicismo, nessun “ritorno all'ordine”. Semmai, egli si avvicina alla corrente neometrica degli ultimi anni, e nello stesso tempo si riallaccia a certe esperienze della poesia neo-sperimentale, “atonale” ed “informale”, degli anni Sessanta e Settanta, fra il Sanguineti di Alfabeto apocalittico e lo Zanzotto di Ipersonetto – come pure al vertiginoso citazionismo e al virtuosismo combinatorio di Lello Voce e della cerchia di “Baldus”.
Eppure, non c'è in Padua ombra alcuna di sterile, ostentatamente demistificante, sforzatamente parodico, funambolismo verbale. In lui, le unità metriche della tradizione sono una sorta di forma a priori, di platonico archetipo, di modello originario e naturale, eppure già di per sé storicamente definito, già consapevolmente e criticamente filtrato, del poetare.
E, pur nell'assidua e vitale fluidità del discorso, il tessuto metrico sembra evocare, quasi per una sorta di indiretta, implicita metafora strutturale e testuale, la condizione e l'idea del rigor mortis, l'immobilità estrema e irrevocabile del silenzio e della quiete ultimi, e inesorabili (allo stesso modo che il Sanguineti di Novissimum Testamentum, pur nella parodia, nella provocazione, nel palazzeschiano sberleffo, approda infine alla coscienza tragica del silenzio che attende ogni voce, come il nulla ogni essere, e il vuoto ogni sguardo: “in quel fiato che ancora può soffiare, / se un soffio soffia, è soffio di parole”, dunque insidiato dallo spettro della deformazione e della disgregazione, dalle grandi ombre dell'oblio e dell'evanescenza – e a maggior ragione oggi, in questa labile era virtuale). (M. V.)



il ritorno seguire del colpo
l’andamento deciso del taglio
l’incisione recente
la radice recisa del segno
oramai referente di x
consistente di una soltanto
superficie che cede
nel frangente preciso del dire
a prescindere da

tutto sta nel comprendere cosa
non coincide con cosa
né si deve risolvere in
ma lasciare così
di per sé discordante
quale parte del vuoto presente

nuovamente formata nel moto
che in sequenza rimuove a sua volta
quando sole si dicono
le parole che calcola il tempo
variazioni nel corpo rumore
proiettate nell’ aria

regolari compiute entro i limiti
prefissati di spazio
come se lo spezzarsi dei versi
non ci fosse non generi
del respiro l’agire e la pausa
la cesura lo scindersi
all’interno di sfere
che le mani disegnano
e la notte ripete reìtera

nelle onde sonore incrociate
a frequenze ossessive
invariate dei passi e nei fossi
dove l’acqua piovana ristagna
e la nostra città che non è
perde sonno per sempre

dentro sé si ritrae
riempie il buio di niente
lo frammenta interrompe
penetrando la strada e le stanze
nel silenzio captato dai radar
che si mescola alle interferenze


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unire lineari senza dirle
parole ad una sola dimensione
costrette nel dominio nominabile
da dove non provengono

nel buio come è fatto
passare la misura
d’un ordine precario

il peso del silenzio sistematico
si sente negli stenti della voce
nel tono non armonico all’ambiente

il sole è trattenuto nei metalli
placato questa notte
da un’altra gravità

con gli occhi contro i corpi
tu osserva il movimento che preannuncia
le collisioni interne del circuito
approssimarsi al termine

lo scarto che si situa nel momento
appena successivo


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A K.

(rovesci d’amore ai tempi della 4 G.M)

Il nostro più che amore è un suo rovescio
da trascinarsi insieme ai tempi della
quarta guerra mondiale per la quale
si legge l’escalation nucleare
nei volti dei potenti che contenti
frequentano gli altari e se ne vantano
bisbigliano sgranandoli i rosari
e intanto localizzano scenari
possibili di strage ed io vorrei
parlarti d’altro mentre tremi e pare
denaturalizzato e surreale
durare e non tradursi il tuo silenzio
che termina il suo senso e lo travalica
contratto ed insolubile nel proprio
esporsi a noi formandosi in perfetto
estetico rigore e l’esistenza
qui intorno delle cose e delle storie
rimane una questione di parole


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Amen

risulta constatabile che il corso
procede della storia non arreso

disposti i meccanismi negli appositi
vuoti che in negativo si denotano
i segni confluiscono nel tempo
cumulo di frangenti conseguenze
ogni respiro breve consumando
nell’aria che circonda e ci resiste
di questa quiete a sangue conquistata
luogo nostro comune e consapevole
motore di strutture distruttive

sistemi ne quantificano i morti
come la necessaria e marginale
perdita per il bene dei mercati


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Canto (febbrile)

la luna chiama e i fuochi si protendono
il vento li distrae in un moto obliquo
l’ossigeno s’intossica s’inquina
dei torbidi residui della notte
che storce nei suoi vicoli la terra
distesa a protezione dei potenti
violenti e come sempre intenti a fottersi
l’intero mondo con abnegazione

e viaggia l’eroina in processione
fa il giro del pianeta lo percorre
si penetra nei corpi assuefacendoli
in opera di evangelizzazione
spillando le pupille nella faccia
legata ai lacci stretti nelle braccia

le voci degli ubriachi che si spaccano
le ossa a calci e il fegato a bicchieri
risuonano nei cumuli di polvere
che navigano il sangue come sonde

da questo buio mosso che dirompe
si disfano le ombre e si dilaniano
nei giorni miei stroncati nelle mozze
parole che i poeti si dimenticano


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Roma- 15/08/2005

ci sono solo spot alla tv
un po’ di sport e tanta fantascienza
le strade sono in crisi d’astinenza
di polverine fine e di monossidi
un traffico qualunque che le stressi
di droga o d’automobili esso sia
che pure il papa se ne è andato via
a fare festa altrove e simonia

tra scuole chiuse e chiese aperte e vuote
i cellulari squillano e si scuotono
e i topi stando zitti negli squat
ascoltano piuttosto che squittire

scrostati i muri sembrano morire
sotto il cemento è armato e sopravvive
settembre come sempre incombe e scrive
verserà versi in piogge radioattive


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dispongo del mio tempo in modo effimero
lo perdo nelle azioni senza senso
di quelle che non hanno conseguenza
e escludono il concetto di realtà
svolgendosi nella maggiore parte
dei casi tra le mura della stanza

la stanza ha una finestra che fa si
che il mondo sia presente come idea
di ente che contiene

si sentono i motori e le sirene
le urla e la violenza
le lingue sconosciute e i colpi secchi
di tosse che dissestano il silenzio

qualcuno nella notte ride forte
per altri è già mattina
i baci sanno d'alcol e di morte
l'aria di cocaina

oggi mi è capitato di ascoltare
persone che parlavano frenetiche
soltanto di se stesse come fosse
possibile discuterne in eterno

ma anche che saverio si è impiccato
e io non lo vedevo da due anni


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nel paese dei troppi poeti
mi hanno detto di leggere e studiare
e di considerare
che mi hanno generato madre e padre
e io li devo uccidere e onorare
di non usare troppo l'infinito
di essere me stesso
ma un po' meno complesso

invece io mi punto nella testa
una pistola metrica
e penso al suicidio
a dare un contributo
anche non decisivo all'estinzione
totale della razza

martedì 3 febbraio 2009

Elisabetta Brizio, "I sensi segreti della nebbia. Analisi della poesia 'Nebbia' di Giovanni Pascoli"

Come già si è detto, la provincia è, etimologicamente, pro-victa eppure longinqua, conquistata eppure lontana, vicina e remota, peculiare e metafisica, apparentemente conosciuta e posseduta quanto, in realtà, inquietante e sfuggente. Lo stesso si può dire dell'emblematico nido pascoliano (tanto spesso semplicisticamente irrigidito da letture critiche di stampo vuoi semiologico, vuoi psicanalitico): luogo certo domestico, tiepido, riparato, posto al sicuro dalle incertezze, dai traumi dell'esistenza con le sue feroci iniziazioni e le sue transizioni drammatiche, eppure, nello stesso tempo, esso stesso ambiguo, straniante, perturbante, denso di ombre, di ambiguità, di oscure e ferali seduzioni. La nebbia è la morte (bruma, cioè atmosfera e dimensione dei brotoi, dei mortali, simbolo, come mostra una celebre sequenza felliniana, della condizione per eccellenza ignota, oscura, enigmatica – ovvero dell'Ade, di ciò che per definizione non si può vedere e non si può conoscere).
E morte, ricettacoli e teatri del disfacimento sono anche la patria, la madre terra, la provincia - nella tragedia greca, epichorioi, patrii o indigeni sono gli uccelli che divoreranno, placata ormai ogni angustia, le spoglie delle Supplici eschilee, come in Sofocle saranno gli epichorioi, i provinciales, ad eleggere re, dopo la morte di Polibo, Edipo, indirettamente orientandolo, proprio nella sua forzosamente dimenticata o rimossa, e vanamente rifuggita, terra d'origine, verso la rivelazione che lo porterà alla rovina e all'accecamento.
Il Pascoli di Nebbia (Pascoli travagliato egli stesso dal conflitto edipico, dall'ambivalenza di attrazione e repulsione, di preservazione e distruzione, nei riguardi dell'origine, della matrice, del grembo) sembra, in questo senso, più discepolo di Carducci (del quale si sta ora via via rivelando, sulla scia del centenario, la segreta, profonda e misconosciuta modernità) di quanto non paia (penso a Nevicata, in cui affiora quel motivo, unito e duplice, del ritorno dei morti e del ritorno ai morti, dell'allontanamento e del ricongiungimento, del disfacimento che è anche reintegrazione all'origine, tanto presente nella tradizione poetica italiana da Pascoli a Montale, da Luzi a Sereni ad Orelli). Un Pascoli carducciano e, nel contempo, simbolista, insomma classico e moderno (la sua nebbia andrà forse accostata alla brume di Mallarmé - “Brouillard, montez! Versez vos cendres monotones.....” -, vista come solo, per quanto opprimente, schermo dall'angoscia della vita, dall'appello insistito e spietato che all'io rivolgono la luce, l'aria, l'azzurro).
Anche in Italy (il poemetto caro a Contini, che vi vedeva l'archetipo di tanto espressionistico plurilinguismo novecentesco) la terra (la nazione così come la “piccola patria”, la patria interiore e sperduta, del paese d'origine) è sfera da cui si proviene, da cui si viene gettati e insieme a cui si torna, per morire o per vegliare la morte - mentre la patria degli emigranti è il cielo, la sterminata “patria degli orfani”.
Uniti nel segno della morte, i due abissi si chiamano – il cielo è eco e specchio della terra, e viceversa - e all'uno come all'altra fa da risonanza il mallarmeano “plafond silencieux”, la voce muta del vuoto e del deserto.
Non lontana da questa visione sembra la lettura della Brizio, che pare rivisitare il simbolo (o l'emblema, o forse il “mito personale”) pascoliano del nido alla luce dell'estrosa, vivace, mobile (e perciò irriducibile a schemi, scuole, protocolli, e di conseguenza sostanzialmente dimenticata), semantica letteraria di Alvaro Valentini. (M. V.)



Non recidere, forbice, quel volto,
solo nella memoria che si sfolla,
non far del grande suo viso in ascolto
la mia nebbia di sempre

Eugenio Montale




In uno dei suoi saggi leopardiani1 Pascoli parlava, a proposito del poeta recanatese, di una eccessiva indefinitezza, di un “errore di indeterminatezza”, quasi come un limite non solo estetico della sua poetica. Un eccesso che sconfina nel falso e che condurrà Leopardi, per fare l’esempio più clamoroso, ad accomunare “rose e viole”, peraltro dopo aver semplificato tutti i fiori a rose e viole, facendo così astrazione dal particolare a favore di segni convenzionali per esprimere - pur nella loro genericità - sinteticamente e incisivamente una intuizione originaria generatrice. “L’aurea mediocritas dello stile pascoliano - scrive Edoardo Sanguineti - esige infatti in primo luogo il rifiuto della tradizionale promozione indiscriminata di ogni realtà al livello del sublime superiore”.2
Nondimeno, se Pascoli muoveva a Leopardi l’”accusa” di una impoetica indeterminatezza, è anche vero che i suoi versi paiono costantemente attraversati da echi, risonanze nascoste e sconosciute, vibrazioni indefinibili, espressioni allusive volte non solo a risignificare l’altrimenti inesprimibile vertigine cosmica, quanto la stessa instabilità del vivere e a disvelare una tonalità emotiva trascorrente e sfumata. Attraverso parole esatte eppure stranianti, sospese e indugianti, veicolanti l’appena percepibile dell’infinito mistero che avvolge la dimensione dell’esistere, per scrivere il quale è necessaria una forma poetica nuova, intessuta di accostamenti analogici e arcani, inediti e inauditi. Come Pascoli nel proprio linguaggio poetico abbia soppresso il confine tra determinato e indeterminato, tra la grammaticalità della lingua e la sua evocatività, è stato dimostrato da Gianfranco Contini nel suo magistrale studio sul linguaggio poetico pascoliano3. Nel quale il critico indica come talora una eccessiva precisione nomenclatoria sia solo apparente e al contrario sottenda una intenzione sostanzialmente evocativa, insinuante e sfuggente. In Pascoli determinatezza e indeterminatezza costituiscono i due estremi di una perpetua oscillazione e procedono dunque dialetticamente.
L’immagine-figura della nebbia - tra le più iterate lungo i versi pascoliani - è per definizione qualcosa di indefinito che ottunde l’anima e le cose, è intrasparenza e opacità, metaforico nascondere, annullamento dei contrasti; abolizione, nella misura in cui cela la distanza, e insieme - per la pascoliana volontà di distanziarsi - accentuazione della incomunicabilità del poeta con il mondo esterno.
In Nebbia l’evento atmosferico diventa simbolo di un dettato poetico che vuole significare ulteriormente, in una alternanza o invisibile legame tra determinatezza e indeterminatezza. La nebbia separa il poeta dal mondo, difende il suo “nido”, il quale a sua volta preserva il poeta dalla minaccia dell’ignoto. Pone una barriera, un margine materiale a una visibilità diretta e senza interposizioni, permette al poeta di vedere solo il proprio chiuso e rassicurante ambito familiare. Ma la nebbia si situa anche in una prospettiva temporale, come elemento che potrebbe assecondare il disperdersi dei ricordi di morte che affliggono e insieme continuano a sedurre il poeta, la cui vocazione di morte rientra nello spirito della simbologia del nido, onnipervasiva della poesia pascoliana.
Se la predisposizione simbolista di Pascoli può apparire di carattere onirico e, come tale, esprimersi in un linguaggio essenzialmente antinaturalistico (anche se in apparenza ipernaturalistico), nondimeno, per il freno esercitato dalla tradizione, Pascoli mette in opera una sperimentazione sotterranea e - scrive Elio Gioanola - “seppellisce le pulsioni profonde sotto cumuli di letterarietà (…). Ma proprio per questo sforzo di continua rimozione il suo simbolismo risulta tanto più profondo e significativo”.4
In questa pascoliana aspirazione a sottrarsi sia all’incertezza del futuro sia alla vita da vivere nel presente, sia - ma con evidente intenzione antifrastica - a voler vedere annebbiato il tempo dell’abbandono, quello dei propri morti - che peraltro vanno ben oltre la loro condizione di esseri dell’altro mondo -, la nebbia svolge la duplice funzione di creare il silenzio intorno alla memoria, di interrompere quella incessante corrispondenza con le figure del passato defunto e irrevocabile. E di circoscrivere l’orizzonte del proprio mondo. La dimensione della siepe - che non apre, leopardianamente, ma al contrario chiude, delimita - e dell’orto domestico, emblemi anch’essi di morte e di separatezza, equivale al pascoliano rifiuto della coscienza storica e al suo sogno di annullamento nel regno delle ombre, in una dimenticanza piena di ricordi, in un assorto evitamento dei presupposti stessi del desiderare.
In Nebbia - e in Pascoli - questa volontà di distanziazione pare essere incoerente, o quantomeno ambivalente: all’invocazione alla nebbia perché nasconda “le cose lontane” per una possibile apertura verso la vita si affianca la volontà del poeta a non oltrepassare la siepe, a non amare, a non andare, “a respingere la tentazione di andarsene, di patire un sentimento come rapporto”, come nota Giorgio Bàrberi Squarotti5. E nella sua incapacità di vivere al poeta non resta che la frequentazione esclusiva della morte come portatrice di oblio: l’unico suo progetto è quello di un immemore abitare entrambi i regni.
In Nebbia la dimensione dello spazio oscilla tra lontananza e vicinanza. Il desiderio di lontananza sorge sullo sgomento di fronte all'ignoto e alle minacce del mondo esterno. Ma lontananza è soprattutto quella dei ricordi che la nebbia dovrebbe adombrare, delle cose che andrebbero dimenticate in quanto ancora traumatizzanti, e soprattutto nella misura in cui inducono il poeta a uscire dal nido, lo spingono ad amare e ad andare, vale a dire a vivere la propria vita. Ma i morti pascoliani trattengono in sé le peculiarità sia della vita che della morte, assicurano e tutelano la perpetuità del proprio legame con i vivi. E sebbene gli dicano di andare e di amare la loro imprescindibile presenzialità trattiene e trascina il poeta nel loro enigmatico oltremondo. E non a caso - scrive Giorgio Agamben - “nulla è più proprio della fanciullezza della nostra anima che la contemplazione dell’invisibile, la peregrinazione per il mistero, il conversare e piangere e sdegnarsi e godere coi morti”6.
La vicinanza spaziale è definita da esatti ed essenziali punti di riferimento: la siepe che circoscrive, il muro che delimita e rassicura (e non, montalianamente, quale tragico diaframma che separa il fenomeno dal noumeno), due peschi, due meli, una bianca strada e un cipresso, l’orto e il cane, figura estremamente ambigua, ma alla lettera rasserenante in quanto simbolo della fedeltà. Un mondo ristretto e protetto, quello vicino, isolato da quello lontano dal muro di una nebbia che in un altro senso opera metaforicamente come il muro montaliano, limite a una conoscenza essenziale delle cose e metafisico emblema dell’umano errare “seguitando una muraglia” - impedimento non oltrepassabile - aggirandosi intorno alle cose e non poter andare più in là. L’esistenza è mistero, l’uomo è incapace di accedere a una visione d’assoluto al di là della dimora dell’effimero, perché le cose sono circondate da una spessa nebbia - o separate da un invalicabile muro - che uno sguardo umano non è in grado di travalicare. Già l’aggettivo “impalpabile” ci suggerisce l’idea della impenetrabilità delle cose e della loro evanescenza e infigurabilità.
Ma rileggiamo il testo:


Nascondi le cose lontane
tu nebbia impalpabile e scialba,
tu fumo che ancora rampolli,
su l’alba,
da’ lampi notturni e da’ crolli
d’aeree frane!

Nascondi le cose lontane,
nascondimi quello ch’è morto!
ch’io veda soltanto la siepe
dell’orto,
la mura c’ha piene le crepe
di valeriane.

Nascondi le cose lontane:
le cose son ebbre di pianto!
Ch’io veda i due peschi, i due meli,
soltanto
che dànno i soavi lor mieli
pel nero mio pane.

Nascondi le cose lontane
che voglion ch’ami e che vada!
Ch’io veda là solo quel bianco
di strada che un giorno ho da fare tra stanco
don don di campane…

Nascondi le cose lontane,
nascondile, involale al volo
del cuore! Ch’io veda il cipresso
là, solo,
qui, solo quest’orto, cui presso
sonnecchia il mio cane.


Alla nebbia viene affidato il compito di adombrare le cose esteriori (nello spazio) e quelle interiori (nel tempo). Esterno (il mondo, ma anche i ricordi del poeta) e interno (l’orto, il nido, la sfera del ricordo) sono in antitesi, ma alla fine convergeranno in una visione unitaria. Il ritmo del testo viene scandito da novenari interrotti al quarto verso dal trisillabo e al sesto da un senario; il primo verso si ripete in ogni strofe, rimando con l’ultimo. Le scelte metriche contribuiscono alla definizione di un ritmo spezzato, rapsodico. Ma le ripetizioni, l’alternanza delle rime, le radici interne, le figure etimologiche (“involale al volo”, “cipresso-presso”) restituiscono al testo una maggiore fluidità. Il verbo “nascondere” - che variamente declinato (“nascondi”, “nascondimi”, “nascondile”) attraversa tutte le strofe - nel primo verso potrebbe essere inteso all’indicativo presente: come a descrivere un banale evento meteorologico. Ma già nella seconda strofe si precisa come imperativo. Analogamente, si ripete dalla seconda all’ultima strofe l’espressione “ch’io veda”, di senso contrario rispetto a “nascondi”.
Pascoli rivolge la propria invocazione-preghiera-imperativo (con leggerissima anafora: “tu nebbia”, “tu fumo”) alla nebbia perché spezzi il legame con il rifugio nel proprio lutto non ancora estinto. Con l’espressione “cose lontane”, si diceva, il senso di lontananza nel corso del testo verrà a configurarsi come lontananza nel tempo. La nebbia sembra succedere ad arcane tempeste nel cielo notturno, possibile allusione alla violenza del mondo esterno; ovvero, al proprio doloroso passato che ancora si riversa - alla maniera di un franare, di un rovinare - sulla attuale sfera emotiva del poeta. La nebbia dovrebbe estraniare la memoria, dissolverla in una condizione di indistinzione, allontanare quelle tracce incancellabili che i morti lasciano nei vivi. Dovrebbe nascondere l’assenza di speranza di uno sguardo disilluso sul mondo indifferente e crudele, affinché resti solo visibile “la siepe dell’orto”, altro limite fisico che circoscrive ulteriormente lo spazio - nonché il tempo - in un microcosmo familiare e rassicurante. La nebbia è chiamata a occultare le cose “ebbre di pianto”, laddove se “ebbro” designa lo stordimento del dolore, allude anche a una sorta di voluttà, a un indulgere alla propria desolazione - una voluptas dolendi - con la quale Pascoli ha per lunghi anni educato in sé quel dolore. Il poeta vuol vedere - in ossimoro con “nascondi” - solo il muro di cinta dell’orto pieno di “crepe“ (allusione alle insanabili lesioni della vita) e “i due peschi, i due meli” e quel mondo chiuso che è il proprio rifugio dall’esterno, oltre che immagine della continuità della vita familiare.
La referenzialità della rappresentazione dell’orto è indebolita dalle implicazioni allusive che tale descrizione contiene. Pascoli nomina con esattezza gli aspetti concreti quotidiani e della natura quasi per afferrarsi a essi; e la determinatezza pascoliana - quel suo misticismo oggettivistico - talora tradisce un bisogno di eludere l’ossessiva immagine del mistero delle cose, come se nominarle esattamente - e qui anche numerarle reiteratamente - equivalga a padroneggiarle.
La nebbia deve nascondere quelle cose lontane “che voglion ch’ami e che vada”: se da un lato Pascoli respinge il richiamo della vita e del desiderio, dall’altro sono le stesse “cose lontane”, vale a dire l’attrazione verso il passato, che lo trascinano a sé perché, come s’è accennato, i morti pascoliani continuano pur in absentia a partecipare ancora - in una sorta di dimensione orfica - al proseguire della vita dei vivi, a far sentire, in un “ossessivo e accanito sentimento di possesso ancora sulle cose e sulle persone, la loro angosciante vigilanza sui vivi”7,
L’universo del poeta si restringe ulteriormente e si avvia verso la propria estrema limitazione, introdotta dall’aspirazione a vedere - e a voler percorrere - “solo quel bianco di strada”, l’invocato itinerario dell’anima verso la sepoltura, vale a dire il ristabilirsi del nido. Dirà poi Montale, in quel memorabile ossimoro - peraltro riferendosi al senso del tempo storico: “e persistenza è solo l’estinzione”.
La nebbia deve nascondere, estromettere dal desiderio (nell’accostamento paronomastico “involale al volo del cuore”) che vorrebbe rivolgersi, voltarsi verso di esse, le angosce del passato lontano. Deve allontanare dal poeta ogni tentazione di vivere la vita. L’attesa della morte come occasione per ricongiungersi ai propri familiari e la vocazione di morte che ispira tutto il testo sono oggettivati nella descrizione di un paesaggio che - scrive Mario Tropea - “senza perdere l’aspetto concreto (…) assume il volto ambivalente di attrazione e annientamento in cui si iscrivono i particolari allusivi“.8 L’avverbio “qui” viene posto in relazione con l’immediatamente precedente “là”; il quale sembrerebbe contraddire l’iniziale aspirazione del poeta a vedere nella nebbia solo una occasione per un rasserenante nascondimento, ma che invece si configura come l’esito estremo del percorso testuale e spirituale pascoliano. La regressione pascoliana non è avvertita in maniera del tutto fallimentare: da un lato esiste una corrispondenza tra il suo io attuale e quello defunto insieme alle cose che furono, ma dall’altro si insinua in lui l’inquietante consapevolezza che in questa tendenza regressiva è insita la coscienza della propria incapacità di esistere individualmente. Tutto il componimento gravita intorno a questa opposizione irredimibile tra passato e presente, vista anche la ricorsività di parole che evocano il senso della separatezza (“siepe”, “mura”, “soltanto”, “solo”, parola chiave, quest’ultima, almeno nella quinta strofe), e, di conseguenza, un sentimento di esclusione.
“Nebbia”, dunque, idealmente situata tra lo spazio vicino e quello lontano nel tempo - in una lontananza che vuole essere prossimità -, nella duplice veste spaziale di confine naturale a una visibilità dispiegata, e temporale come reificazione di un tempo a cui è delegato il compito di ottundere la memoria di un passato che comunque ancora e imperiosamente attrae il poeta verso di sé. “Nebbia” come desiderio di ritrarsi in “una specie di opaca recinzione attorno all’hic et nunc del poeta”9. Un hic et nunc celato, segnato da un desiderio di dissolversi, di dileguare, di ricongiungersi al nido. L’idea della stanchezza, del sonno e della morte sono intimamente legate e variamente oggettivate: nell’onomatopeico “stanco don don di campane”, nell’immagine del cimitero e del cane funebre che esausto “sonnecchia” nell’orto. Quasi la dimensione della morte - consustanziale all’idea stessa del ritorno - fosse essa stessa una presenza rassicurante come quella dell’orto e del cane; o più verosimilmente, rappresenta l’eterno motivo del ritorno alla madre.
La morte in Pascoli non è antitetica alla vita ma il modo d’essere della vita, vale a dire, in una caratterizzazione orfica, dimora nella vita stessa. Vivere per Pascoli è ritornare e regredire, procedere verso un nulla che qui non ha la portata cosmica del foscoliano “nulla eterno” ma che - nel suo qualificarsi come anteriorità - contiene le immagini delle persone amate (altrove oggettivate nel simbolo della “culla” o nella rima tematica “culla-nulla”) e - temporaneamente - perdute. Come espresso nei Conviviali, in quel canto di morte dal titolo L’amore10, l’amore non si può rinnovare. Ed è il rimpianto che fa la poesia.




Elisabetta Brizio



1)Il sabato, in Prose, I, Pensieri di varia umanità, Mondadori, Milano 1946.
2)E. Sanguineti, Attraverso i Poemetti pascoliani, in Ideologia e linguaggio, Feltrinelli, Milano, 1978, p. 23.
3)G. Contini, Il linguaggio del Pascoli, in Varianti e altra linguistica, Einaudi, Torino 1970.
4)E. Gioanola, Regressione e simbolismo nella poesia di Pascoli, in Storia del Novecento in Italia, SEI, Torino 1975, p. 11.
5)G. Bàrberi Squarotti, Interpretazione della simbologia pascoliana, “Lettere italiane”, 3, 1963, p. 286 sgg.
6) G. Agamben, Pascoli e il pensiero della voce, introduzione a Il fanciullino, Feltrinelli, Milano 1982, p. 56, nota.
7)G. Bàrberi Squarotti, Interpretazione della simbologia pascoliana, cit.
8)M. Tropea, Giovanni Pascoli, in G. Savoca e M. Tropea, Pascoli, Gozzano e i crepuscolari, Laterza, Roma-Bari 1978, p 47, nota.
9) E. Gioanola, Regressione e simbolismo nella poesia di Pascoli, cit., p. 13.
10) L’ultimo viaggio, XVIII.