sabato 27 giugno 2009

"LA VIA CRUCIS DI FABIO GRIMALDI, TRA LE PAROLE DEL VANGELO E LO SMARRIMENTO DEL POETA", di Patrizia Garofalo

Il mistero (anche e proprio nel senso sacrale del rito iniziatico, e insieme in quello teatrale, drammaturgico, di sacra rappresentazione) del Dio che s'incarna, che soffre e si umilia (come diceva Eschilo di quella pagana, scandalosa figura Christi che è, forse, Prometeo) "per troppo amore dell'uomo" non ha cessato di ispirare i poeti, dal sontuoso e struggente Christus patiens attribuito a Gregorio di Nazianzo fino a Testori e a Turoldo, con la loro gridata, quasi scandalosa e oltraggiosa, e insieme colma d'amore e di charitas, invettiva scagliata contro il mysterium tremendum, il paradosso essenziale e bruciante racchiusi nello "scandalo della Croce" - nell'absurdum, nell'"ineptum, prorsus credibile" (impossibile e assurdo, quindi certo, al di là di ogni razionalistico ed esclusivo discrimine).

Ciò deve valere (a giudicare, di riflesso, dalla nota interpretativa e dai versi originali che esso ha suggerito a Patrizia Garofalo, e che qui riportiamo) per il libro (attraversato fin dal titolo dalla tensione spasmodica e dolente del paradosso e dell'antitesi) Via gloriosa, via dolorosa di Fabio Grimaldi, edito nell'elegantissima collana di poesia delle Edizioni del Leone.

La scrittrice, certo in sintonia con la poetica sottesa alla sua stessa scrittura originale, coglie nei versi del poeta lo sforzo originario, mitopoieico della parola che esce - "scavata come un abisso" diceva Ungaretti - dal silenzio che la contorna e la assedia e che, nel contempo, la fascia, la protegge, la fa esistere e consistere, librata nel vuoto, come le pause fra le note del canto, e gli spazi fra i respiri delle arcate.

"Sono stato troppo uomo tra gli uomini o troppo poco? / Il terrestre l’ho fatto troppo mio o l’ho rifuggito?", si chiede, nella Via Crucis di Luzi, Cristo incamminato sul Calvario. "Qui termina veramente il cammino. / Il debito dell’iniquità è pagato all’iniquità. / Ma tu sai questo mistero. Tu solo". Ci troviamo, qui, immersi nel gorgo buio e silenzioso del paradosso ultimo e primo, del "segno di contraddizione" che non ammette riconciliazioni. Analogamente, i versi della Garofalo si muovono, risuonano e respirano nella cava dilatazione, nella nullificante ferita, del vuoto e dell'assenza.


M. V


Assistiamo ad un parlato in versi dalla Via Crucis, riportata testualmente dai Vangeli, allo sbigottimento del poeta che in modalità spezzate da singhiozzi percepiti, vince il silenzio nel quale la parola resterebbe imprigionata, esterrefatta e vuota.

Al silenzio di chi non si difese, ancora più forte appare la forza brutale della crocifissione mista di carne e sangue, dolore e perdono, trascendente persino a se stessa. La grafia diversa segna una linea ideale di demarcazione tra la storia dell’Uomo dei Vangeli e la sensibile percezione della perdita del “sé”. Fabio Grimaldi apre il verso alla pietà, alla cosmicità del dolore, alla vita come attraversamento doloroso, necessario, inevitabile.

Alle quattordici stazioni della Via Crucis altrettanti nomi di vie altamente simboliche all’ultimo viaggio dell’Uomo, nominate come in una mappa colposa, dolorosa, pietosa, lacrimosa, ansiosa, luminosa, ripudiosa, premurosa, vittoriosa, decorosa, gloriosa. Gli aggettivi connotano le soste alla fatica dell’ascesa ed ad ognuna il poeta depone un breve voto d’amore:

“ lieve brezza, delicato fiore/ attimi/ sollievo ormai lontano/”;
“ incommensurabile misericordia/ azzera le colpe/ dona luce/”;
“ un’ombra/ pietosamente/ condivide la croce/”.

Nelle via scorrono ferite, sangue, vergogna, pietà, sbigottimento:

“incommensurabile misericordia/ azzera le colpe / dona luce/”,
“in verità ti dico, oggi sarai con me nel paradiso” (Luca 23, 39-43).

In silenzio il corpo scivola piano fra braccia materne e si aprono ai nostri occhi infinite immagini di “Pietà”, anche quella meno nominata dall’arte sublime dei creatori, quella più vicina a noi, quella del dolore di una fine che non ha riscatto nei dipinti, che si cela magari a due passi da noi in un mondo dove neanche la Crocifissione è riuscita a rassicurare l’uomo dell’eternità dopo la morte, né a porre “corone di rose”.


DI ROSE CORONATO

Solo, davanti alla morte
neanche l’angelo ti recò conforto…Uomo…
Un nodoso ulivo, curvato
raccolse le tua agonie di terra.
Il corteo che seguì
ti fissò nella metopa del tempio,
piansero per primi gli Dei
e
morirono nel tuo silenzio.

La rivelazione
è parola che denuda, strazia e lacera,
suprema vergogna
preda l’inerme
senza arrestarne il volo

Inginocchiarsi
è ludibrio
ma lo sputo e le percosse
come maschere di cera
si sciolsero.
Il sole non ne raccolse l’anima.
Il mondo conobbe lo smarrimento del “senza”
Simone di Cirene fu
ombra, della pietà dispersa
“non piangete per me, ma per voi”
troppo basso il tono della voce , dal dolore
di Uomo
dalla pelle sbranata, chiamasti donna
tua madre
cantasti per lei
l’amore del suo seno vuoto
il tuo andartene
il suo permanere donna madonna dolorosa e pregna.
La strada indicata per il Golgota
confonderà
polvere e sangue
dolori e disattese.

Ineludibile l’amaro retrogusto della viltà.
Nessun marchio impedì l’infinitezza
neanche a chi rimase senza fede
ma ancora ti cerca di carne, nell’amore.

La veste tirata in sorte
firmava, per chi si contava vivo,
la maschera della morte del tutto
Pietoso Uomo
copristi, le loro carni
in luoghi che solo Tu hai benedetto e pianto

“In verità ti dico, oggi sarai con me nel paradiso”

All’eclisse del vero
atterriscono gli umani

“padre nelle tua mani consegno il mio spirito”

Scompare il sole.
Il vuoto
aprirà un abisso di
cadute e, attraversamenti
sfoceranno a delta su tutti i fiumi
per riportare a mare
il viaggio verso Itaca.

Un lenzuolo pietoso
si farà silenzio.
Attende le nostre parole
coronate di rose.


Fabio Grimaldi è nato a Macerata nel 1968 ed è laureato in Lettere moderne.
Esordisce nel 1989 con la raccolta Il vero della vita, presentata da Mario Luzi e segnalata al premio Montale.
Ha pubblicato diverse plaquettes poetiche, ultima delle quali “Invisibili bambini”.
Ha curato l’antologia Con gioia e con tormento, che raccoglie poesie autografe dei più significativi autori italiani contemporanei.
Interessato all’opera di Mario Luzi, ha inoltre pubblicato La stella della semplicità. Conversazione con Mario Luzi e curato Vita fedele alla vita. Autobiografia per immagini di Mario Luzi.
Recentemente è uscita la raccolta di poesie per bambini Il gallo canta in rima.

venerdì 26 giugno 2009

UN PUNTO OLTRE L'ORRORE. LA POESIA DI DANIELE MENCARELLI

Questo è un poeta vero, limpido e forte - righe di cemento e di vetro, direbbe Fortini traduttore di Brecht, davvero poesia che è poesia, cioè ricerca stilistica, non semplice trascrizione diaristica - eppure anche, e non per riprendere una formula oggi abusata, testimonianza umana, intensa, senza lenocini, "vita fedele alla vita" - dolente umanità còlta con immediatezza rara e invidiabile, senza schermi né mistificazioni, nel momento dell'insensata ed umiliante sofferenza, quando, diceva Vittorini, "l'uomo è più uomo".

Si potrebbero fare vari nomi - Primo Levi, il Calvino della Giornata di uno scrutatore, il Solgenytsin di Padiglione cancro - anche se qui non c'è nessuna implicazione ideologica, solo un impegno etico teso fino allo spasmo doloroso.

Ma si erge, su tutto - al di là di ogni consonanza e di ogni parallelo, oltre i limiti della letterarietà -, quella che si potrebbe chiamare la nostalgia dell'umano - di un'umanità autentica proprio perché vilipesa, oscuramente redenta proprio quando appare, in tutta la sua evidenza, l'inesplicabilità, ma non necessariamente l'insensatezza, anzi forse il segreto, oltreumano significato, del suo sterile martirio che non salva nessuno, almeno qui e ora: tutte realtà che l'odierno patinato edonismo tende ad esorcizzare (un tabù, oggi, la sofferenza e la morte, mentre in passato lo era il sesso, oggi al contrario esibito e gridato), e che invece la poesia si assume qui la tragica e sacrale missione di riportare alla luce, di enunciare.

Si potrebbe citare, per un raffronto non privo di contrasti, certa letteratura della crudeltà, della sofferenza, del corpo lacerato, della carne piagata e scossa dagli spasmi (Sade, Lautréamont, Artaud, fino al Benn di Morgue – ma già l'Inferno dantesco rinserra l'eternità della pena senza redenzione né “speranza di morte” nella circolarità angosciosa, cupamente liturgica, oscenamente rituale, dei gironi).

Il dolore, l'orrore, la malattia, il disfacimento, la luce gelida ed impietosa del tavolo settorio sono qui mostrati, a tratti, con un'evidenza, un'immediatezza e una naturalezza che si vorrebbe definire quasi “pornografiche” - nel senso in cui Carmelo Bene definiva pornografica, alla fine del Processo, la sequenza in cui Josef K. è condotto a morte, ormai inerte, rassegnato, abbandonato all'impossibilità di capire il senso di un destino inflessibile ed impenetrabile.

A suo modo, per certi aspetti, una poesia “crudele”, che sa parlare senza timore (e con un grado ben più alto ed intenso di autenticità rispetto alla tanta letteratura minimalista, pulp e splatter che spaccia per realismo il fumettistico compiacimento dell'orrido) di volti divorati dal male, di corpi devastati dall'infezione, di membra sezionate; eppure, una poesia che riscatta il dolore, che lo redime alla luce di un'umanità assoluta, protesa, per così dire, al di là di ogni ideologia, di ogni religione, di ogni etica: uno sguardo levato al di là di tutto, a fissare "un punto oltre l'orrore" - e quel punto è alonato e racchiuso proprio dalla luce impalpabile - lo si può dire senza enfasi - del Verbo poetico.

Si potrebbe citare ancora Benn (anche se qui - in quest'aria resa più spirabile dal tenue bagliore di una speranza riposta nel qui ed ora come nell'oltre, in questo spazio esistenziale colmato di senso dalla muta testimonianza degli eroi senza nome che parlano proprio attraverso queste pagine come tanti ebrei attraverso quelle di Levi - non c'è ombra del suo nichilismo): “... nel verso / esorcizzare le cose con la parola. (...) Nel verso / il monologo delle ore e della notte”.

(M. V.)


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Ed è da quando ti ho incontrato,
“Bambino Gesù”, ospedale pediatrico,
che il pregarti quasi mi vergogna,
io come l’altra fortunosa umanità
ad invocarti per la più vana delle miserie,
ignari di quanti nel pieno del supplizio
cerchino tua voce col poco fiato rimasto
o i tuoi lineamenti nel buio della stanza.
Se valgono questi versi una preghiera
dai giorni, anni, a questi uomini futuri,
ora bambini che forse non vedranno
la fine di questa sera di settembre.


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I primi orrori le facce funestate
agli inizi mi lasciavano di pietra,
gli altri operai rassicuranti,
“pure te ci farai l’abitudine”.
Il tempo ha continuato il suo dovere
ora per i nuovi sono io l’esperto
ma non so bene come aiutarli,
forse dovrei semplicemente dirgli:
“pure voi ci farete l’abitudine”,
vi abituerete ai piccoli malati
al pianto dei padri e delle madri
alle teste dei nati prematuri
ai corpi ordinati dentro le casse bianche.

(Padiglione S. Onofrio)


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Passarci mi tocca ogni mattina
di fronte a quella porta verde,
quante volte è stata spalancata
piena di parenti a farsi forza,
e come non capire chi tra quelli
fossero padre e madre fino a poco prima,
lo si capisce dal vuoto degli sguardi
persi in un punto che gli altri non vedono.
Ogni mattina che mi tocca di passarci
vorrei esaudito l’impossibile desiderio,
di vederla sparita, anzi mai esistita,
un muro di cemento al posto della porta,
in nessuno al mondo l’ombra di un ricordo
che gliela faccia mai più rivivere.

(Camera Mortuaria)


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Una mattina come tutte le altre
sole e piccioni freschi in cielo,
“prima o poi doveva capitarti”,
così gli altri operai mi dissero.
Non ho ricordi ad aiutarmi
tranne il tavolo d’acciaio bucherellato,
gli arnesi riposti nelle vetrate
l’odore pungente della formalina.
Ancora pago quell’attimo
quell’unico attimo d’innata curiosità,
ricordo barattoli e niente altro,
più che altro niente voglio raccontarti,
se non lo specchio al lato della stanza
che rifletteva uno frenetico a spazzare
a finire il prima possibile il suo dovere,
sudato zuppo con gli occhi vitrei allucinati.

(Pio XII, sala autopsie)


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Lo attraversammo quasi di corsa
il reparto degli infetti
reietti perfino dalla vista,
dalla medicheria arrivarono grida
impossibile non alzare lo sguardo,
vedemmo solo un corpo scarnito
passato da mille tubi trasparenti
e ancora l’atroce dolore urlato.
Uscimmo all’aria aperta
come riemersi dall’abisso,
di noi il più anziano mi si girò contro:
“tu che tanto speri e tanto credi
spiegami una possibile giustizia
di quell’agonia morte futura”.
Non risposi ma una voce
si alzò alta dalle viscere
“per questo credo di più ancora”.

(Padiglione Spellman)


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Non lo finirai il tuo tatuaggio,
le rose bianche, verdi le foglie e gli steli,
t’avrebbe preso quasi metà braccio
dicevi fiero al primo abbozzo,
e noi draghi alle tue spalle
dicendo fosse più giusto un diavolo
o Lucifero in persona
inciso sulla tua pelle.
Solo i gambi e le prime foglie
verranno con te sotto la terra,
le rose bianche, insieme fiorirete altrove.

(Stefano Scalise, operaio)


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Avevo un pavimento da lavare
io che prendo tutto come una missione
anche questo lavoro da tanti disprezzato,
affrettai ancora di più la marcia
sul corridoio di marmo lucidato.
Andavo incontro a due ragazzi
il figlio in braccio mi dava le spalle
loro ci giocavano e lui rideva,
gli fui davanti proprio mentre si girava,
perdonami per la durezza delle parole,
di un bambino aveva il corpo
ma il viso quello di un mostro
sotto gli occhi niente naso niente bocca
solo buchi di carne viva.
Non so se fu più forte
la pietà o forse il disgusto,
quasi correndo abbassai la testa,
ma già avevo la certezza
che di lì a poco l’avrei rivisto
per quel passaggio a me obbligato.
Persi tanto tempo nelle mie faccende
prima di andare mi augurai la loro assenza
poi via sul corridoio di marmo lucidato;
il caso me lo presentò ancora di spalle
ancora preso dai suoi giochi divertiti,
a farlo ridere così di gusto
non erano stavolta i genitori
ma un’anziana suora
distante un palmo dall’orribile viso,
vidi il sorriso di lei e le sue parole:
“ma quanto sei bello, che bel bambino sei”.
Per giorni m’accompagnò il dubbio
non riuscivo a crederla bugiarda,
poi una chiarezza si fece strada,
quegli occhi opachi di vecchia devota
guardavano un punto oltre l’orrore,
lì c’era solo un bambino che giocava.

(Padiglione S. Onofrio)



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Fra gli scaloni eterno è l’andirivieni
padri intenti a far la guardia ai passeggini
accenti sconosciuti che salutano famiglie
raggiungibili solo per una linea di telefono,
tutta una normalità risaputa sembra,
invece poi vedi la signora altolocata
correre ad abbracciare la zingara di strada,
chiederle se la bambina è un po’ ingrassata
se quella medicina ancora la disturba,
poi è la rom ingioiellata e scura
a voler da lei notizie sul figlio malandato,
ed intanto l’abbraccio si ripete,
parlano i loro sguardi che si fanno
a vicenda sembrano dirsi:
“anche tu resisti ancora, anche tu
sopporti la disgrazia con coraggio”.
Mesto l’ultimo loro saluto si alza:
“ci rivedremo tanto, di sicuro”.

(Padiglione Pio XII)

giovedì 25 giugno 2009

MINIMI E INUTILI SGUARDI SUL MONDO

Un centro commerciale il sabato pomeriggio: è così che immagino l’inferno.

Eppure, resta una libera scelta quella di trascorrere un pomeriggio al centro commerciale anziché in pinacoteca (quelle di Imola e di Faenza, per inciso, sempre deserte, sono spendide).

Al centro commerciale (non solo lì invero) tutti o quasi biascicano il chewing-gum, sbattendo in faccia al prossimo il proprio disprezzo e la propria noncuranza.

Masticare per masticare, senza nutrirsi (con la fandonia di miracolose sostanze che preserverebbero i denti, la cui perdita inevitabile è simbolo dell'aborrita vecchiaia, dell'ignominioso declino fisico stigmatizzato e colpevolizzato dalla cultura del fitness).

L'esatto contrario della virtuosa e sapiente ruminatio delle Sacre Scritture praticata dai monaci medievali.

Masticare per masticare, così come si compra per comprare, si consuma per produrre - "si vive per vivere, senza sapere di vivere", come diceva Pirandello lettore di Schopenhauer.

Homo ruminans: l'ultima mutazione antropologica. E il chewing-gum fa americano, è parte integrante della american way of life.


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A me (e certo non a me solo) è accaduto spesso di pensare che la libertà d’espressione sia, per così dire, il prezzo che il sistema capitalistico paga in cambio della diffusione onnipervasiva della sua alienante e reificante logica.

L’aspetto negativo dell’ordine capitalistico è certo rappresentato, appunto, da quella che un tempo si chiamava alienazione (termine che oggi sa di intellettualismo, ideologizzazione, dottrinarismo, ma che designa purtroppo una realtà dolorsamente e angosciosamente esistente, tangibile, vissuta).

L’aspetto positivo, se c'è (accanto alle comodità e agli agi, fra cui lo stesso strumento che ora stiamo usando per comunicare e riflettere, e ai quali nessuno, indipendentemente dalle sue convinzioni, saprebbe o potrebbe più rinunciare, a meno che non si voglia ricadere nel mito, molto borghese, del primitivismo), consiste appunto nella libertà d’espressione, che consente di manifestare e di lamentare quello stesso stato di alienazione, cosa che in un regime totalitario porterebbe (e porta) alla messa al bando per disimpegno politico, sentimentalismo borghese, tendenze antisociali, se non alla prigionia.


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La Cina (stando almeno all’impressione, molto parziale, e forse deformata o amplificata dai media, che se ne può avere da qui) mostra un esempio di capitalismo con tutti gli aspetti negativi (materialismo, consumismo, inquinamento, degrado morale, accentuazione delle sperequazioni) senza il risvolto positivo (elezioni democratiche, libertà di espressione e di culto).

Forse i cinesi non cercano e non cercheranno mai la libertà, perché hanno ormai raggiunto, nelle città, un relativo benessere, e nelle campagne sono narcotizzati e paralizzati da una rassegnazione millenaria (né hanno mai attraversato, come l’Occidente, il tirocinio delle “rivoluzioni borghesi”, che se da un lato posero le basi dell’ordine capitalistico, dall’altro abbatterono definitivamente quello nobiliare e feudale, ancor più oppressivo).

Insomma la realtà capitalistica non è la panacea di tutti i mali, ma è forse, allo stato attuale delle conoscenze, il male minore (essendo la socialdemocrazia scandinava difficilmente applicabile altrove).

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L’idea dell’assoluta “disponibilità” della vita umana, del completo arbitrio bioetico riconosciuto al singolo, non rischia forse di rappresentare, per l’appunto, il trionfo ultimo dell’individualismo postmoderno, l’approdo estremo dell’egoismo e dell’individualismo borghesi?

E' solo un dubbio. Io non ho risposte. Da un lato la sacralità della vita, dall'altro la libertà del singolo e l'habeas corpus. Due istanze contrapposte e, su basi e per motivi differenti, entrambe irrinunciabili. Un'aporia che non trova soluzione, se non in una scelta ideologica o confessionale che costringe, per definizione, a "mettere fra parentesi", almeno in parte, il proprio senso critico - o nell'approdo, vincolante, cogente e insieme rassicurante, per certi aspetti rasserenante, ad una morale assoluta, trascendente, rivelata.

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E’ ovvio - contrariamente ad uo dei tanti slogan di moda già da anni, e non solo a destra - che la scuola non può essere un’azienda, se non altro (al di là di ogni sottile questione culturale e pedagogica) per il semplice motivo che non vende nulla, e che gli studenti non ricevono un salario.

Nè bisogna scaricare sulla scuola responsabilità eccessive. Le “agenzie formative” principali sono e restano la televisione (ahinoi), il gruppo di amici e la famiglia (”agenzie” che esercitano un potere persuasivo incomparabilmente maggiore).

Quanto all’”educazione estetica dell’uomo”, come la chiamavano i romantici, che viene ancora invocata con abbondante spreco di enfasi e d retorica…. Molto dipende dalla società in cui viviamo, nella quale non si viene certo apprezzati per la sensibilità e la cultura.

C'è da chiedersi, poi, quanto e fino a che punto la sensibilità estetica e culturale possa essere infusa dall’esterno, attraverso l’”inculturazione” esercitata dalle istituzioni. Credo che un ruolo decisivo sia giocato dalla predisposizione individuale, dall’ambiente familiare, dalle condizioni di vita e di lavoro (chi torna, stremato, da dodici ore di pronto soccorso o di fabbrica difficilmente si metterà a leggere Virgilio o Heidegger, ma sarà pronto ad ingoiare due ore di grande fratello).

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Paradosso delle democrazie capitalistiche, che da un lato (attraverso l’industria culturale, dunque sempre a fini di produzione e di consumo) mettono potenzialmente a libera disposizione di tutti un patrimonio sterminato e quanto mai variegato di espressioni, ideologie, visioni del mondo, dall’altro sottopongono l’individuo ad un processo di alienante massificazione, che rischia di porlo, di fatto, nell’incapacità di recepire, assimilare e far proprio quel patrimonio, o anche solo di trovare in sé la motivazione e la determinazione ad avvicinarvisi…

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Eppure, non si può che continuare, al di là delle ideologie, a credere - ostinatamente, assurdamente, disperatamente, contro tutto - nell’uomo, nella sua libertà e nella sua volontà.

Ma anche questa - direbbe l'amaro e disincantato Renato Serra - è letteratura.


M. V.

venerdì 19 giugno 2009

ALVARO VALENTINI, UN SEMINARIO SULLA METAFORA

Riemerge, grazie alla devozione e alla pazienza di Elisabetta Brizio, una dispensa (una pecia, una recollecta si sarebbe detto secoli fa) di Alvaro Valentini, poeta e critico letterario, allievo di Ungaretti e docente all'Università di Macerata.
Pagine, queste, che (testimonianza di una consuetudine antichissima e nobile, quella del confronto e del dialogo umanistici e critici possibili in quel quieto, riposato e pacato contesto seminariale che rischia di andare definitivamente travolto dall'odierno sistema, alienante e reificante, dei crediti formativi, che feticizza il sapere a moneta "spendibile", dispogliandolo di quel poco che ancora sopravviveva della sua purezza, della sua libertà e della sua aura) rivelano, sia pur nella schematicità e nella semplificazione inevitabili degli appunti e della raccolta di "materiali", la vastità di interessi e il grado di aggiornamento teorico e metodologico che contraddistinguevano il lavoro dell'autore; il quale aveva già alle spalle, a tacere del molto altro, l'importante volume Responsabilità semantiche, espressione ed esito del suo particolare approccio (originale, sciolto, fluido, appassionato, a tratti estroso, mai scientisticamente dogmatico o metodologicamente irrigidito) ai metodi e ai problemi, quanto mai sfaccettati e vivi, della semantica letteraria.
Nonostante il rigore dell'approccio e la nuda analiticità della disamina teorica, nelle pagine conclusive riaffiora, incoercibile, la passione riflessiva e insieme affabulatoria ed immaginosa del Valentini poeta-critico e traduttore-poeta (così come, alcune pagine prima, la sua competenza e la sua affascinata sottigliezza di indagatore ungarettiano del metaforismo e delle agudezas barocchi).
Alla fine, le tortuose e un po' capziose classificazioni dei semiologi cedono il passo (per fortuna, verrebbe da dire) alle intuizioni fascinose, estemporanee, asistematiche, ma proprio per questo illuminanti, dei poeti, a partire dai surrealisti e dagli ermetici (con, fra l'altro, la delicata e preziosa distinzione fra la semplice metafora e la più vasta, ardita, complessa, speculativamente ed esistenzialmente pregnante, analogia) per risalire a ritroso fino a Leopardi, agli occhi del quale il poeta è accomunato al filosofo (sotto la comune insegna del genio) dal saper cogliere le affinità più remote, afferrando l'essenza celata e ramificata del reale.
E non si può, allora, non evocare l'uso (parsimonioso, equilibrato, lucido, leopardianamente "classico", ma proprio per questo esistenzialmente connotato in maniera ancor più marcata) della metafora nel Valentini poeta.
(....) ritmi
che mi vuotano l'anima, mi fanno
arido e rassegnato. Questa sera
la nebbia preme ai vetri ed a me gonfia
di tristezza i polmoni. Non mi possono
parlare i cari libri.
Di metafora in metafora, seguendo (per ripendere una metafora fra le metafore che in questa stessa dispensa si insinua nella neutralità della scrittura informativa e didascalica) gli "anelli" della montaliana "catena" delle metafore, la parola perviene infine ad aprirsi e sciogliersi nel silenzio dell'anima, nel vuoto della vita, nel lago deserto ed opaco della solitudine, in cui anche i libri amati sembrano non aver più da proferire alcuna parola consolatrice. Ecco, forse, l'essenza di quella "melodiosa solitudine" (per citare l'ultimo D'Annunzio) in cui Valentini visse immerso.
(M. V.)
Materiali di studio per una
esercitazione sulla
M E T A F O R A
Letteratura Italiana Moderna e Contemporanea
(Prof. Alvaro Valentini)
Anno Accademico 1980-81
Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi
di Macerata




LA METAFORA secondo Aristotele

«La metafora consiste nel trasferire a un oggetto il nome proprio di un altro, e questo trasferimento avviene o dal genere alla specie, o dalla specie al genere, o da specie a specie, o per analogia.
Secondo me, un traslato dal genere alla specie si ha in questo esempio: “Ecco, la mia nave è ferma”, perché “essere ancorato” è una specie del generico “essere fermo”. Esempio di traslato dalla specie al genere: “Migliaia di gloriose imprese ha Ulisse compiute”, dove “migliaia” sta per “molte”, in luogo di cui è stato usato. Esempio di traslato da specie a specie: “avendogli attinta la vita col bronzo” e “coll’imperituro bronzo avendo l’acqua tagliato”, dove “attingere” sta per “tagliare” e “tagliare” per “attingere”; e ambedue i vocaboli sono specie del generico “portar via”».
Per rapporto di analogia intendo quando di quattro termini, il secondo sta al primo come il quarto sta al terzo; e infatti si potrà usare il quarto per il secondo e il secondo per il quarto, e qualche volta anche aggiungere il termine in rapporto col quale sta la parola sostituita dalla metafora. Esempio: il termine “coppa” sta a Dioniso come quello di “scudo” sta ad Ares; il poeta dirà che la coppa è lo “scudo di Dioniso” e lo scudo “la coppa di Ares”. Oppure: la vecchiaia sta alla vita come la sera al giorno. Il poeta chiamerà la sera “vecchiaia del giorno” o, come Empedocle, la vecchiaia “sera” o “tramonto della vita”».

Aristotele, La poetica, Milano 1956, cap. XXI, pp. 98-99.

Sul modello di Aristotele, Quintiliano dirà (Inst. Or., 8, 6, 9): «In totum autem metaphora brevior est similitudo, eoque distat quod illa comparatur rei quam volumus exprimere, haec pro ipsa re dicitur»

(Aristotele aveva recato, infatti, l’esempio: Achille balzò come un leone (similitudine); (con il balzo di Achille, si può dire che) balzò un leone (metafora).

LA METAFORA nel trattato Del Sublime

«Ad ogni modo, pur nello svolgimento dei luoghi comuni e nelle descrizioni, nulla reca tanto significato quanto un continuo succedersi di tropi. Per tale mezzo (…) l’anatomia del corpo umano (è dipinta) divinamente da Platone. Rocca del corpo questi chiama il capo, e fra capo e petto dice costruito un istmo, cioè il collo, e sotto fissate come a piani le vertebre. Il piacere è per gli uomini l’esca del male e la lingua è pietra di paragone del gusto. Il cuore nodo delle vene e sorgente del sangue che circola impetuoso; collocato lì al posto di guardia. Le diramazioni dei canali le chiama sentieri (…). E la sede della cupidigia egli la chiama gineceo o appartamento delle donne, e quella dell’ira appartamento degli uomini; la milza asciugatoio degli organi interni, per cui, riempiendosi delle impurità, appare grossa e tumefatta (…). E quando sopravviene la morte, dice che dell’anima si sciolgono le gomene, come d’una nave, e ch’essa è lasciata libera (cfr. Platone, Timeo, 69 d sgg.).

Queste e altrettali espressioni sono lì di seguito infinite; ma bastano gli esempi citati a mostrare come sia grande per sua natura il linguaggio traslato, e come concorrano al sublime le metafore, e che di esse, per lo più, si compiacciono i luoghi patetici e descrittivi».

Del Sublime, a cura di Augusto Rostagni, Istituto Editoriale Italiano, Milano 1947, cap. XXXII, pp. 95-99 passim.

LA METAFORA BAROCCA

Sono presenti alla memoria di tutti due metafore celebri: “Ridono i prati” di Petrarca e “prata biberunt” di Virgilio. Questi, che per i due poeti rappresentavano due lampi, due illuminazioni, per i poeti barocchi, e per i trattatisti dell’età barocca, sono appena i primi anelli di una catena. Per Emanuele Tesauro (Il Cannocchiale aristotelico, Valvasente, 1688, pp. 71-73; le citazioni sono tratte da questa edizione) se i prati ridono possono anche piangere, in quanto le gocce di rugiada possono essere intese come “lacrimae” che “cadunt gaudio”. Attribuita ai prati una “facies” umana, che può anche essere “pulcherrima”, i prati conoscono la canizie delle nevi, salutano festosi la loro età novella, “pereunt hyeme”, e, sulla scia della loro umanizzazione, finiscono col mutare i loro fiori in “oculi micantes”.

Si potrà anche dire che “ridentibus pratis falx dira supervenit”. O anche che “prata lugent” nel caso che siano sterili. Dalla umanizzazione dei prati nasce la catena delle metafore. “Prata rident” poiché “laeta sunt”. E posso giocare, quindi, su una espressione siffatta: “Tam effuse rident prata ut roscidas exprimant lachrimas”, poiché quelle lacrime “cadunt gaudio”.
Stabilita la possibilità di vedere antropomorficamente i “prata”, niente vieta di dire che essi “Boream pavent”.

Le espressioni appassionate che possono essere dedotte, svolgendo l’argomento, sono infinite: Tellus benefica, Ingratum solum, prata nivibus canescunt, oppure, in primavera conoscono la loro “nova aetas”… Il Tesauro chiama tutte queste espressioni “simboli ingegnosi” e giunge ad immaginare una Terra che, per la sua amenità, possa essere vista come una “giovane ridente, vestita a verde e trapuntata di perle come rugiade, con le chiome di frondi…". E “per contrario simbolo” aggiunge che si può rappresentare la Terra sterile “in guisa di Vecchierella piangente, pallida, rugosa, scarna, con le chiome al modo di sfrondati rami”.

Come si vede la dialettica sillogizzante è messa al servizio della fantasia inventrice; e la poesia barocca vuole esprimere gli stati d’animo con mezzi razionali.

LA METAFORA E LA POESIA SECONDO VICO

«Partendo da quest’ultima ipotesi (le figure hanno un’origine “naturale”1), si possono distinguere ancora due tipi di spiegazioni. La prima è mitica, romantica, nel senso largo del termine: la lingua “propria” è povera, non basta a tutti i bisogni, ma vi supplisce l’irruzione d’un altro linguaggio, “quel divino sbocciare dello spirito che i greci chiamavano Tropi; oppure (Vico ripreso da Michelet), dato che la Poesia sarebbe il linguaggio originale, le quattro grandi figure archetipiche sono state inventate nell’ordine, non da scrittori, ma dalla umanità nella sua età poetica: Metafora, poi Metonimia, poi Sineddoche, poi Ironia: in origine esse erano impiegate naturalmente. Come son potute diventare delle “figure di retorica”? Vico dà una risposta assai strutturale: quando è nata l’astrazione, vale a dire quando la “figura” s’è trovata in una opposizione paradigmatica con un altro linguaggio.

La seconda spiegazione è psicologica: è quella di Lamy e dei classici: Le figure sono il linguaggio della passione. La passione deforma il punto di vista sulle cose e costringe a parole particolari: “Se gli uomini concepissero tutte le cose che si presentano al loro spirito, semplicemente, come sono in sé e per sé, ne parlerebbero alla stessa maniera: gli studiosi di geometria tengono quasi tutti lo stesso linguaggio” (Lamy). Questa prospettiva è interessante, perché se le figure sono i “morfemi” della passione, attraverso le figure possiamo conoscere la tassonomia classica delle passioni, e specialmente quella della passione amorosa, da Racine a Proust. Ad esempio: l’esclamazione corrisponde al brusco furto della parola, all’afasia emotiva; il dubbio, la dubitazione (nome d’una figura) alla tortura delle incertezze di comportamento (Che fare? questo? quello?), alla difficile lettura dei “segni” emessi dall’altro; l’ellissi, alla censura di tutto ciò che turba la passione (…).

Si comprende allora meglio come il figurato possa essere un tempo naturale e secondo: è naturale perché le passioni sono nella natura; è secondo perché la natura esige che queste stesse passioni, per quanto “naturali”, siano distanziate, poste nella regione della Colpa; ed è perché, per un classico, la natura è “cattiva”, che le figure di retorica sono ad un tempo fondate e sospette».

ROLAND BARTHES

(La Retorica Antica, Bompiani,
Milano 1979, pp. 106-107)

1) «A la ville, à la cour, dans les champs, à la Halle, l’éloquence du coeur par les tropes s’exhale» (F. Neufchateau)

«Basta ascoltare una lite tra le donne della condizione più vile: quale abbondanza nelle figure! Esse prodigano la metonimia, la catacresi, l’iperbole, ecc.» (J. Racine)

REALTA’ PSICOLOGICA DELLA METAFORA

«La metafora è per noi molto più di una semplice operazione di transfert di significato: essa è un modo di approccio e di conoscenza della realtà ed in quanto tale deve essere riscoperta e rivalutata. Se da un punto di vista operazionale la metafora consiste nella decontestualizzazione e ricontestualizzazione di un elemento (questo infatti viene dissociato da quello che è il suo contesto abituale per essere associato ad un nuovo contesto), da un punto di vista psicologico la metafora, che pur si avvale di tale operazione, consiste essenzialmente nella creazione di nuova realtà, di nuove esperienze che non sarebbero altrimenti designabili.

La metafora è contemporaneamente magica e logica, soggettiva e oggettiva, interiore e comunicativa, e la sua forza sta proprio nel fatto che in essa si conciliano poli differenziati. Se da un lato la metafora esprime ciò per cui il linguaggio denotativo è insufficiente, la sua funzione non si esaurisce in questo ma consiste essenzialmente nell’evocazione di una nuova realtà e nella reificazione dei suoi significati. In questo senso la metafora ha una forza magica, consistente nel suo potere di creare e di imporre nuove “presenze”.

I segni “cielo” e “fazzoletto” hanno un significato letterale nella lingua italiana, stabilito da una certa convenzione d’uso dei medesimi. Nel momento in cui vengono associati, per esempio nella frase “il turchino fazzoletto dei cieli”, si verificano due fenomeni semantici complementari che interessano non soltanto il linguista ma anche lo psicologo. Se da un lato infatti la parola “fazzoletto” non può essere interpretata nel suo significato convenzionale, dall’altro lato anche il significato della parola “cielo” viene ampliato oltre ciò che stabilisce la convenzione. Le due parole assumono significati diversi da quelli abituali per un fenomeno di reciproca induzione semantica…
…La metafora presenta una duplice realtà psicologica: in senso lato e in senso stretto. In quanto modo inconsapevole di approccio con il mondo, che non si avvale della riflessione ma che si fonda essenzialmente sulla sintonia dell’io con la realtà esterna, delle cose con le cose, su una fusione sincretica di polo soggettivo e oggettivo, la metafora presenta una realtà psicologica in senso lato: essa appartiene al mondo magico, le cui leggi sono quelle della partecipazione, del sincretismo e della diffusione, In quanto invece mezzo intenzionale e comunicativo di conciliazione dei due poli soggettivo e oggettivo, di superamento del già noto, essa presenta una realtà psicologica in senso stretto ed è demandabile alle capacità combinatorie del pensiero divergente (…). Ci sembra di poter individuare un “mondo metaforico”, diverso da mondo fisico obiettivo, che è compito della metafora fare emergere dalla coscienza (…). Il mondo metaforico è quindi essenzialmente un mondo di partecipazione in cui il soggettivo e l'oggettivo sono indifferenziati: esso sta alla base di quella conciliazione creativa e consapevole dei due poli che si verifica nella metafora».

Fonzi – E. Negro Sancipriano, La magia delle parole: alla riscoperta della metafora, Einaudi, Torino 1975, pp. 3-6 passim.

LA VERITA’ DELLA METAFORA

«… Le mie conclusioni sono che nel leggere metafore: 1) ci si presentano delle immagini; 2) tali immagini non sono libere; 3) tali immagini sono esperienze quasi sensuali; e 4) tali immagini sono contemplate secondo una loro propria finalità, sicché non corrispondono necessariamente o al mondo fisico o alla “realtà”.
(…) Ora si può distinguere la metafora da quegli elementi che nella poesia sfruttano il suono, quali la rima e il ritmo, per il fatto che la prima utilizza immagini “viste” e “sentite” mentre i secondi approfittano di impressioni sentite per davvero. Tuttavia non si è ancora distinta l’essenziale unicità della metafora dalle descrizioni che nella poesia funzionano ironicamente. Per esempio, in questa strofa da The Waste Land:

Dopo il lume delle torce rosse sui volti sudati
Dopo il gelato silenzio nei giardini
Dopo l’agonia in luoghi petrosi
Il clamore e il compianto.

(Th. S. Eliot, The waste land, vv. 322-25),

il primo verso è altamente immaginistico, seppure non è metaforico. Eliot ha uno speciale talento per far sì che il lettore “veda”, “senta”, “odori”, “gusti” e “tocchi” attraverso le sue descrizioni. La metafora, tuttavia, implica un ulteriore elemento essenziale.
La metafora non implica solo simili descrizioni iconiche, ma implica la relazione intuitiva di “vedere come” fra parti della descrizione. Nella metafora di Shakespeare: “Il Tempo porta, o mio signore, una bisaccia sul dorso/ Dove egli ripone elemosine per l’oblio,/ un gigantesco mostro di ingratitudine” (Troilo e Cressida, III, 3, vv. 145-147), non c’è solo una descrizione iconica del tempo e di un mendicante, ma del tempo visto come un mendicante. La metafora non implica solo un tenore e un veicolo, per usare la terminologia del Richards, messi insieme a una frase, ma la relazione positiva di “vedere come” fra tenore e veicolo"

N. Hester, The Meaning of Poetical Metaphor, The Hague-Paris, Mouton, 1967, pp. 146-150 e 169-70 passim, citato da E. Raimondi-L. Bottoni, Teoria della letteratura, Bologna 1975.

UNA PROSPETTIVA FREUDIANA PER LA METAFORA

Freud non si è occupato della metafora in senso stilistico e retorico, ma dalla sua Interpretazione dei sogni (nonché dalla Psicopatologia della vita quotidiana e dal Motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio) si possono ricavare utili proposte per leggere la metafora in chiave psicanalitica.

Scrive Freud (L’Interpretazione…, in Opera, III, Torino 1967, p. 257): «Pensieri onirici e contenuto onirico manifesto stanno davanti a noi come due esposizioni del medesimo contenuto in due lingue diverse, o meglio, il contenuto manifesto ci appare come una traduzione dei pensieri del sogno in un altro modo di espressione, di cui dobbiamo imparare a conoscere segni e regole sintattiche, confrontando l’originale con la traduzione».

L’interpretazione del sogno può ritenersi analoga, quindi, all'operazione di riduzione della metafora. Come il sogno si spiega in relazione a tutta la vita mentale del sognatore, così il funzionamento di una metafora esige un processo di astrazione paradigmatico che interessa tutto il sistema della lingua o di un testo particolare.

Può essere di qualche utilità il seguente schema per un parallelismo tra sogno e metafora, secondo Freud:


S O G N O M E T A F O R A

1) Contenuto latente termine di partenza
2) Contenuto manifesto termine di arrivo
3) Condensazione sovrapposizione o addizione
4) Spostamento doppia metonimia o doppia sineddoche
5) Immagini Parole

Per spostamento, in Freud, si deve intendere che la rappresentazione del sogno è spostata verso elementi periferici; nel processo retorico si ha una metonimia (ala per uccello): ma la metafora, secondo Henry, sarebbe una doppia metonimia e per gli autori della Rhétorique générale il prodotto di due sineddochi.
Per condensazione si deve intendere che, nel sogno c’è un processo di sovrapposizione di più immagini dietro una sola immagine; nella metafora si ha la sovrapposizione di due campi semantici.

(Riduzione da G. Sàvoca, Introduzione allo studio della metafora, Bonaccorso, Catania 1976, pp. 48-67).

M E T A F O R A

«Tradizionalmente la metafora è considerata una similitudine accorciata, similitudo brevior (Quint. VIII, 6, 8). Ad esempio, Achille è un leone deriva da Achille combatte come un leone; Tizio è una volpe è la condensazione di Tizio è furbo come una volpe.

La metafora designa un oggetto attraverso un altro che col primo ha un rapporto di similitudine. Quando diciamo “capelli d’oro” vogliamo intendere “capelli biondi come l’oro”.

I moderni studi di retorica hanno abbandonato la definizione della metafora come similitudine abbreviata e si sono proposti di approfondire la genesi linguistica del traslato.

In effetti, “si dice che una metafora è una parola usata al posto di un’altra per rendere un referente con un significato diverso (Berruto, La semantica, Bologna, 1975, p. 117). In "capelli d’oro" la metafora d’oro non indica come è ovvio un referente, ma un significato traslato, cioè diverso da quello letterale. La metafora, come la metonimia e la sineddoche, opera uno spostamento di significato: ma secondo quali regole?

“La spiegazione del meccanismo di trasferimento di significato, cioè delle regole secondo cui una parola sostituisce quella “propria” in un certo significato, è fondata su una parentela di somiglianza in base alla ‘catena’: la parola x, usata propriamente per designare il referente x, viene usata per designare il referente y (al quale può o non corrispondere una parola ‘propria’); che rapporto c’è fra parole, significati e referenti? La risposta è che si ha metonimia quando tra i significati c’è una relazione di contiguità logica e/o materiale: per es., causa ed effetto ("lavoro" per "opera compiuta" in "il quadro che hai terminato è proprio un bel lavoro"; materia ed oggetto ("ferro" per "spada" o "arma"); contenente e contenuto (bicchiere per "un po’ di vino" in "ho bevuto un bicchiere di Chianti"); astratto e concreto ("inseguimento" per "inseguitori" in "è sfuggito all’inseguimento"), ecc.

Si ha sineddoche quando tra i significati c’è una relazione di maggiore o minore estensione (in termini tecnici, diremmo di iponimia), o di parte e tutto: "macchina" per "automobile", "bocche" per "persone" in "tante bocche da sfamare", ecc.” (Berruto, op. cit., p. 116 sgg.).

Nella metafora il meccanismo di spostamento semantico può avvenire tramite un termine intermedio che accomuna proprietà inerenti ai due termini che sono il punto di partenza e il punto di arrivo della metafora (X e Y). Ad esempio, la metafora "il dente della montagna" verte sulla traslazione ‘cima’ - ‘dente’ (rispettivamente X e Y), resa possibile dal termine intermedio ‘aguzzo’, ‘appuntito’ che accompagna il cosiddetto ‘veicolo’ della metafora (X) al ‘tenore’ (Y).

1. Metafora e metonimia secondo Jacobson. Jacobson afferma che “Lo sviluppo di un discorso può aver luogo secondo due differenti direttrici semantiche: un tema conduce ad un altro sia per similarità sia per contiguità. La denominazione più appropriata per il primo caso sarebbe direttrice metaforica, per il secondo direttrice metonimica, poiché essi trovano la loro espressione più sintetica rispettivamente nella metafora e nella metonimia.” (Jacobson, Saggi di linguistica generale, Milano 1966, p. 40).

Si tenga presente che per Jacobson la metonimia comprende anche la sineddoche: nella metafora sono confrontati due termini che hanno fra loro un rapporto paradigmatico, di somiglianza: l’espressione capelli biondi può essere associata all’idea dell’oro, per cui si ha la metafora capelli d’oro (i due elementi sono esterni l’uno all’altro); nella metonimia il rapporto tra i due termini è sintagmatico, di contiguità (intrinseco): fra vela e nave (in ho visto una vela partire), sudore e lavoro (in si guadagna la vita col sudore della fronte), corona e re (in discorso della corona) c’è un rapporto interno perché la prima parola (metonimia-sineddoche) è una parte dell’altra, una sua causa o reificazione ecc.

Aristotele (Poetica, 1457 b, Retorica, 1407 a) dice che tra la vecchiaia e la vita c’è lo stesso rapporto che tra la sera e il giorno: “il poeta dirà dunque della sera, con Empedocle, che è la vecchiaia del giorno, o della vecchiaia che è la sera della vita o il tramonto della vita.
Qui la scelta paradigmatica vecchiaia-sera è sottesa da un rapporto analogico strutturabile in uno schema che spiega il “meccanismo sublinguistico” (Henry) operante a livello profondo:

vecchiaia = sera
vita = giorno

Dagli enunciati:

La vecchiaia è la fine della vita
La sera è la fine del giorno
derivano l’analogia distesa

3. La vecchiaia è la fine della vita come la sera è la fine del giorno

e la metafora

4. La vecchiaia è la sera della vita.

L’equiparazione vita-giorno comporta l’equiparazione vecchiaia-sera e la possibilità del transfert semantico con l’eliminazione del termine comune ai due enunciati profondi.

2.Morfologia della metafora secondo Henry.

“Nella metafora - sostiene Henry – l’intelletto sovrappone i campi semici di due termini appartenenti a campi associativi diversi (e talvolta assai lontani l’uno dall’altro), finge di ignorare che vi è un solo tratto comune (raramente ve ne sono di più) e opera la sostituzione dei termini (Henry, Metonimia e metafora, Torino, 1975, p. 88).

Così in capelli d’oro si hanno due campi semici - quelli relativi a capelli e oro – con tratti o componenti o semi assai diversi, salvo uno, il colore, che può permettere lo spostamento semantico:

oro: colore “giallo” (e non “bianco”)
capelli: colore “biondo” (e non “nero”, “rosso”, ecc.)

Il tratto comune giallo-biondo permette la formazione della metafora:

capelli - giallo -oro -biondo

La metafora può essere espressa in varie forme grammaticali (nomi, verbi, aggettivi prevalentemente). La metafora nominale ha diverse strutture:

la sostituzione di un solo nome: è nata una stella (=diva del cinema)
la copula: il mare in certi giorni / è un giardino fiorito (Cardarelli)
l’apposizione: e l’eco che non tace, amica dei deserti (Quasimodo)
la costruzione col genitivo: non c’erano trombe di mitraglia (De Libero)
la catena di due o più nomi: voci di tenebra azzurra (Pascoli)

La metafora verbale può riguardare il solo verbo ("Osservare tra frondi il palpitare / lontano di scaglie di mare", Montale) o il nesso sostantivo-verbo ("Trema un ricordo nel ricolmo secchio, / nel puro cerchio un’immagine ride", Montale). Gli aggettivi metaforici sono comunissimi anche nel linguaggio standard: barba d’argento (=argentea), mani bucate, sguardo angelico, attacco fulmineo.

Secondo Henry occorre distinguere le metafore non sulla base della loro forma grammaticale, ma in rapporto al numero dei termini espressi, cioè quattro, tre, due e uno. La metafora a quattro termini è costituita dal rapporto di equivalenza a/b = a1/b1 (si ricordi l’esempio aristotelico).

Una metafora a tre termini è rappresentata dal verso di Hugo: "La vita è lo spaventoso viale delle sfingi", in cui si ha l’analogia:

viale = vita

sfinge = problemi

con i termini espressi a, b, a1 (b1 è contestuale).

Molto comune la metafora a due termini (a, a1, oppure a, b1). Ad esempio il sintagma il fuoco dell’amore ha come schema sublinguistico l’equivalenza

fuoco = amore
ardore = passione

Così le nevi della testa si analizza nello schema

nevi = capelli bianchi
montagna = testa

(con termini espressi a e b1).

La metafora a un termine richiede l’aiuto esplicatore del contesto, come quando diciamo: Arriva la mummia! per riferirci a una persona piuttosto silenziosa e appartata. Per capire il valore di forbice=’tempo’ nel montaliano Non recidere, forbice, quel volto… è necessario ricorrere al contesto della poesia (e al sistema tempo-memoria che percorre tutta la produzione di Montale).

3. Altre interpretazioni della metafora. Gli autori della Retorica Generale (1970 c, tr. ital., 1977, p. 161 sgg) ritengono che la metafora risulti da due operazioni di base: addizione e soppressione di semi (v.) e come tale sia il prodotto di due sineddochi, una particolarizzante secondo il modulo Π e una generalizzante secondo il modulo Σ [v. Sineddoche: generalizzante (Σ, mortale per ‘uomo’; Π uomo per ‘mano'), particolarizzante (Σ, zulù per ‘nero’; Π vela per ‘battello’)]. Ad esempio, la metafora "La betulla è la fanciulla dei boschi" si realizzerebbe secondo lo schema X-P-Y riformulato con le etichette P-I-A (termine di partenza, termine intermedio, termine di arrivo):

p- I-A,

dove P sarebbe fanciulla, A betulla e I ‘flessibile’: il percorso P-I è una sineddoche generalizzante Σ e il percorso I-A è una sineddoche particolarizzante Π (il primo modulo è esemplificato da mortale per uomo, il secondo da vela per nave).

Anche Eco (Le forme del contenuto, Milano 1971, p 95 sgg) ritiene che la metafora sia una catena di metonimie. Così, nella metafora barocca di Artale: "il crin s’è un Tago, e son due Soli i lumi", la connessione fra fiumi e capelli sarebbe metonimica, perché il sema ‘fluenza’ unifica i due sememi.
Nella sua più recente opera, Eco sembra aver rettificato questa interpretazione. Accentuando l’impostazione di Jakobson, secondo cui la metafora è una sostituzione per similarità e la metonimia una sostituzione per contiguità, afferma giustamente che la «similarità non riguarda una relazione tra significante e cosa significata, ma si presenta come identità semica» (Eco, Trattato di semiotica generale, Milano, 1975, p. 348: l’esempio citato e domini canes = i domenicani, ‘cani del Signore’).

La metonimia, in cui è inglobata anche la sineddoche, rappresenta un caso di interdipendenza semica (e non di identità), che può essere di due tipi: a) una marca (cioè un sema) sta per il semema cui appartiene (vela per nave); b) un semema sta per una delle sue marche (uomo per mano; Eco cita l’esempio: Giovanni è proprio un pesce per ‘nuota molto bene’, ma sbaglia perché pesce è metafora). In conclusione «la connessione tra due semi uguali sussistenti all’interno di due diversi sememi (o di due sensi dello stesso semema) permette la sostituzione di un semema con un altro (metafora), mentre lo scambio del sema per il semema costituiscono metonimia» (Eco, op. cit. 1975, p. 352 sgg.).

L’assunto che la metafora sia il prodotto di due sineddochi (o di due metonimie) è criticato da Bertinetto (in Henry, op. cit. 1975, p. VII sgg.) che lo ritiene inadeguato a spiegare una locuzione metaforica del tipo Cassius Clay è una roccia sottesa da una duplice predicazione: Cassius Clay è forte, la roccia è dura. Lo schema sublinguistico di Henry mostra invece che la metafora è resa possibile dall’analogia fra i due termini ‘forte’ e ‘dura’.

La metafora è, sostanzialmente, un caso di anomalia semantica che, secondo la linguistica generativa, deriverebbe dalla violazione di determinate regole di selezione, e più esattamente le restrizioni di selezione che comandano la combinazione dei lessemi. Nella frase "Il sole ride" la metafora nasce dalla violazione del sema / + umano / che è una delle restrizioni di selezione del verbo ‘ridere’. Ancora meglio, si potrà dire che lo straniamento metaforico deriva dalla violazione delle presupposizioni referenziali. Ad esempio, in "Finalmente la mummia ride" (per indicare una ragazza chiusa, silenziosa) la normale presupposizione di ‘mummia’ = / cadavere imbalsamato / è violata dal riferimento a un tratto / + umano vivente /.

E' ciò che Weinrich (Metafora e menzogna, la serenità dell’arte, Bologna, 1976, p. 89) chiama “controdeterminazione”. Se il significato di una parola consiste essenzialmente in una certa aspettativa di determinazione (ad es. paesaggio), la metafora, trasferendo il senso del referente ad un altro (la vostra anima è un passaggio eletto), delude l’aspettativa e crea una sorpresa; il senso è provocato dal contesto. «Chiameremo questo processo “controdeterminazione” perché la determinazione effettiva del contesto avviene in direzione contraria all’attesa di determinazione della parola. Con questo concetto possiamo definire la metafora come una parola in un contesto ‘controdeterminante’» (Weinrich, op. cit. p. 89).

Etim.: dal greco metaphérein = portare oltre

ANGELO MARCHESE
(Dizionario di retorica e di stilistica. Arte e artificio
nell’uso delle parole
, Mondadori, Milano 1978, pp.
158-163)

METAFORA LINGUISTICA E METAFORA ESTETICA

«La metafora, che ha attirato l’attenzione dei teorici estetici e dei retori fin da Aristotele, è stata esaminata negli ultimi anni anche dai teorici della linguistica. Il Richards (Philosophy of Rhetoric, London 1936; trad. it. Milano 1967) ha protestato energicamente contro il modo di considerare la metafora come una deviazione dalla norma pratica linguistica invece di esaminarne le possibilità caratteristiche e indispensabili. La ‘gamba’ della sedia, il ‘piede’ della montagna e il ‘collo’ della bottiglia sono tutte forme che applicano, per analogia, nomi di parti del corpo umano a parti di oggetti inanimati. Queste estensioni di termini, tuttavia, sono state assimilate nella lingua e per solito non sono più avvertite come forme di metafora neppure da chi sia particolarmente sensibile alle cose letterarie e linguistiche, e divengono allora metafore sbiadite o logore e morte.

Dobbiamo distinguere la metafora come “onnipresente principio del linguaggio” (Richards) dalla metafora specificamente poetica. George Campbell affida la prima al grammatico e la seconda al retore. Il grammatico giudica le parole dalle etimologie e il retore dalla capacità o meno di produrre “un effetto di metafora sull’ascoltatore (…). H. Conrad contrappone la metafora “linguistica” alla metafora “estetica” e fa notare che la prima (ad esempio: la gamba del tavolo) sottolinea il tratto dominante dell’oggetto, mentre la seconda tende a dare una nuova impressione dell’oggetto, a “immergerlo in una nuova atmosfera”».

(R. Wellek A. Warren, Teoria della Letteratura, Il Mulino, Bologna 1973, pp. 267-268)

DALLA METAFORA ALL’ANALOGIA

L’analogia è “una sorta di estensione della metafora ai più diversi ordini sensibili” (S. F. Romano, La poetica dell’Ermetismo, Firenze 1942). Essa “consiste in una trasposizione di significato, risultante dalla comparazione di due diversi ordini di emozioni: è un metaforico avvicinamento di termini diversi per rappresentare nell’immagine che ne risulta, uno stato d’animo o un sentimento” (Idem).

“Mentre nella metafora, o passaggio di un termine ad altro ordine di sensazioni, si serba una qualche affinità, sia pure esteriore, con l’ordine originario, nell’analogia il legame di affinità è molto più lato ed è intuito come rapporto affatto nuovo dalla fantasia creatrice” (M. Petrucciani, La poetica dell’Ermetismo italiano, Torino 1955).

ESEMPI DI INDENTIFICAZIONE ANALOGICA IN UNGARETTI

Decrescente luna, / piuma di cielo.
Morte, arido fiume…
Fratelli / Parola tremante / Nella notte / Foglia appena nata
E’ il mio cuore / Il paese più straziato
Col mare / mi sono fatto / Una bara / Di freschezza
Morte, muta parola / Sabbia deposta come un letto / Dal sangue

ESEMPI DI IDENTIFICAZIONE ANALOGICA IN MONTALE

Scordato strumento / cuore
Mia vita è questo secco pendio, / mezzo non fine, strada aperta a sbocchi / di
rigagnoli, lento franamento
Ripenso il tuo sorriso, ed è per me un’acqua limpida / scorta per avventura tra
le pietraie di un greto
Felicità raggiunta… / agli occhi sei barlume che vacilla, / al piede teso ghiaccio
che s’incrina…
Il cavo cielo se ne illustra ed estua / vetro che non si scheggia…

ESEMPI DI IDENTIFICAZIONE ANALOGICA IN QUASIMODO

Ma il tuo viso è un’ombra che non muta…
Sui tuoi muri ch’erano a sera / un dondolio di lampade
In me si fa sera: / l’acqua tramonta / sulle mie mani erbose.
Spesso il processo analogico si realizza attraverso il come: ma esso non ha valore di comparazione, bensì di identificazione soggettiva:
Noi ti pensiamo come un’alga, un ciottolo (Montale)
Come questa pietra / del San Michele / … è il mio pianto (Ungaretti)
La neve, muta a guisa del pensiero / cade… (Pascoli)
Ma Pascoli, col suo linguaggio impressionistico ed analogico fa pensare a giochi più complessi nei quali ha tanta parte la sinestesia:
Lo strepere nero d’un treno
Passero azzurro
Un bianco sorriso di cieco
Voci di tenebra azzurra

Questo impressionismo visivo e fonico produce una profonda unità dei sensi. E benché la sinestesia che ne risulta non sia da confondere con la metafora o con l’analogia, è sempre una di quelle arditezze espressive che vengono catalogate, globalmente, nel parlar figurato o metaforico.
L’analogia (vera) è invece - come scrive il Flora – la sostituzione d’un rapporto d’identità a un rapporto di comparazione. Al riguardo, Mariani (Poeti della terza generazione del Novecento, Roma 1963) ci offre, traducendolo da Claudel, questo brano esplicativo: «La mia anima è come un uccello che… Poi è venuto il simbolo che, nel suo vero senso, è un trasferimento di un’immagine in un’altra: la mia anima è un uccello… Sopprimendo il “come” il poeta afferma più nettamente l’identità tra la sua anima e un uccello. Questa identità (…) gli è apparsa in un lampo di intuizione così vivo, così evidente che egli non ha temuto di affermare che esiste tra la sua anima e un uccello non soltanto un rapporto, ma una vera partecipazione». Il poeta in oggetto era Rimbaud, a proposito del quale Claudel scriveva: «Chez ce puissant imaginatif, le mot comme disparaissant, l’hallucination s’installe et les deux termes de la métaphore lui paraissant presque avoir le même degré de realité…”

Mediante la metafora il poeta rinnova e reinvergina il suo mondo, spezza vecchi schemi stilistici, sorpassate cristallizzazioni e apre nuove vie, impensati sbocchi al suo linguaggio. (G. Mariani)

…L’attività metaforica non fa che rispecchiare nel campo specifico del lessico il meccanismo tipico di tutto il linguaggio, inteso come attività simbolizzatrice dell’intelletto, che per esprimere le proprie intuizioni e percezioni e renderle comprensibili, le formalizza in immagini, nelle quali più o meno rinnova, con la propria impronta personale, la materia linguistica che la tradizione gli offre. (C. Schick)

"On crée, au contraire, une forte image, neuve pour l’esprit, en rapprochant sans comparaison deux réalités distantes dont l’esprit seul a saisi les rapports" (P. Reverdy).

Alla metafora, dunque, è necessariamente legato un inganno. Ma questo è un inganno del tipo della menzogna? Certamente no. Infatti, si tratta soltanto un inganno di una spettativa, quindi in realtà è piuttosto una delusione che un inganno. Avevamo ormai preso per sicurezza la verosimiglianza, e ora ci sentiamo scossi nella nostra tranquilla attesa. Ma una volta che la determinazione metaforica ha avuto luogo, in maniera diversa da ciò che ci saremmo attesi, in un primo tempo, tutto torna di nuovo alla normalità e l’intendimento della metafora è strettamente circoscritto, preciso, individuale e concreto come qualsiasi altro intendimento (H. Weinrich).

SULLA METAFORA

“La metafora è di regola chiamata a chiarire il pensiero, cioè a renderlo più perspicuo e prontamente comunicabile con il confronto e la similitudine. È un aiuto pedagogico alla logica del discorso”. (F. Ferrarotti)

“La metafora rende il pensiero innaturale, sterile (non cresce insieme) e alla fine vuoto di pensiero.” (F. Nietzsche)

“La metafora, a sua volta, … ha ormai rivelato appieno il suo valore conoscitivo. Perché, se l’universo dell’uomo è il linguaggio, l’esperienza e il linguaggio si confrontano, e una buona metafora è un’ipotesi, e un’ipotesi è una domanda che esige una risposta che vuole essere verificata… messa sotto stato d’assedio, espugnata, nella sua struttura, con il microscopio e il laser”. (G. Celli)

“Comparer deux objets aussi éloignés que possibile l’un de l’autre, au, par toute autre méthode, les mettre en présence d’un manière brusque et saisissante, demeure la tâche la plus haute à laquelle la poésie puisse prétendre… Plus l’élement de dissemblance immédiate paraît fort, plus il doit être surmonté et nié”. (A. Breton)

La metafora «è così piacevole perché rappresenta più idee in uno stesso tempo (…). E però ancora si raccomanda al poeta (ed è effetto e segno nobilissimo della sua vena ed entusiasmo e natura poetica e facoltà inventrice e creatrice) la novità delle metafore» (G. Leopardi).
Metafora nuova, ovviamente, vuol dire metafora ardita, cioè non «presa sì da vicino che le idee, benché diverse, pur quasi si confondano insieme» (G. Leopardi).

lunedì 8 giugno 2009

"In quel punto entra il vento: l’inattualità di Remo Pagnanelli", di Elisabetta Brizio

Le vent se lève!... Il faut tenter de vivre!

Paul Valéry


Compito primario della poesia è sempre stato quello di
provocare una interazione tra la storia e le invarianti
della specie umana, tra archetipi e contesto sociale, di
modo che ne nascessero ipotesi, almeno, nuove sul
mondo. Quello che scorgo è una volontà di resistenza
ammirevole nell’unica battaglia politica che valga la pena
di combattere: conservare e custodire il patrimonio dei
nostri socioletti. Se sapremo rivivificare il passato, il
futuro, che pare fosco, sarà un affare che ci competerà.
Remo Pagnanelli

Lo scorso ventuno maggio si è svolta a Macerata la presentazione del libro In quel punto entra il vento. La poesia di Remo Pagnanelli nell’ascolto di oggi (a cura di Filippo Davoli e Guido Garufi, Quodlibet 2009), che raccoglie gli atti del convegno nazionale tenutosi a vent’anni dalla scomparsa del poeta.

Vi sono contenuti venti pregevolissimi saggi che offrono al lettore interpretazioni diverse e multiformi, senza che per questo venga disperso il filo che le unisce, ribadito da Guido Garufi nell’introduzione, vale a dire il riconoscimento dell’operare umanistico di Pagnanelli poeta-critico, della priorità da lui ascritta alla prevalenza del senso, a una parola che sia argomentante, espressione del sentimento del tempo e della storia, che si erga sull’ostentazione del divertissement e sullo scadimento del “ruolo” della poesia, che non è una attività consolatoria o accessoria ma oggetto di assorta e assillante riflessione - una “morale della forma”, avrebbe detto Roland Barthes -, nonché visione eminentemente problematica. Ne deriva la stretta correlazione tra poesia ed etica: entrambe si misurano, contrastandola, con la troppo umana tendenza alla rimozione, allo spostamento.

Lontana dal defilarsi, dal mimetizzarsi, dal rifugiarsi ai margini, la poesia deve attraversare o stazionare - senza alcuna intenzione negativista o esito nichilista - sulla precarietà e sull’inconsistenza, aspetti ineludibili e inerenti all’uomo in quanto tale. Il nulla è un dolceamaro narcotico; bisogna progressivamente immunizzarsi all’idea del nulla e della mancanza, che è come dire della vita stessa. È da questa accettazione che forse traggono origine in Pagnanelli quelle soluzioni linguistiche dall’accento ironico, strategie espressive che tradiscono la lucidità disperata di continuare a scrivere, a elaborare verbalmente e meditatamente la propria esperienza nel momento stesso in cui veniva visitato dal pensiero della perdita e della dissoluzione.

Come accade in questi versi appartenenti a Preparativi per la villeggiatura, con i loro giochi d’eco e le loro riprese vagamente ecolaliche, una versificazione quasi scandita per sintagmi:

tra un tentativo e l’altro (suicidario), scrivo un saggio
di sudario su Viaggio d’inverno, preparo un libro dal
titolo Atelier d’inverno (sussidiario). L’inverno è in me,
certamente. Parcamente mi consolo in tombeaux di
autori celebri. Anche qui, vedete, conati (clonazioni),
disperazioni disperanti, dispersioni.

Nel saggio di apertura Amedeo Anelli sottolinea il valore da Pagnanelli accordato alla riflessione “su quello strano legame estetico, percettivo, noetico, che unisce parola a materialità diverse, che lega l’esperienza al giudizio, il senso al non senso, il senso al significato”. E al binomio visione-visionarietà, sottratta, quest’ultima, a ogni idealizzazione romantica e restituita al suo significato di ipotesi disincantata e comunque percorribile in vista della riempitura del “vuoto dei simulacri”, attraverso immagini seppure visionarie ma autentiche.

Danni Antonello parla di una postumità di Pagnanelli, poeta inattuale del dopo, che affida alla memoria una poesia che è lotta contro la transitorietà. Poesia è martyrion e sacrificio, testimonianza e luogo testamentario; deposto l’uomo, il poeta intrattiene una contesa contro l’evanescenza e per la persistenza della memoria. Venuto meno il “tu”, attraverso i suoi eteronimi, liberandosi da quella “iterazione possessiva” e ossessiva (“canticchiando la solita solfa ne varietur”, scrive Remo in Continuum, appartenente a Epigrammi dell’inconsistenza), Pagnanelli esce da una configurazione monologante, e resta solo il poeta “che ha saputo farsi polifonia di voci”, la cui sconfitta esistenziale è a un tempo compimento della vita, autorealizzazione e liberazione. E la poesia è annunciazione - pur in una dimensione tutta immanente – di qualcosa che si ritiene già postumo. Come avviene in Michelstaedter, dice Antonello.

Scrive Pagnanelli, in Tentativo (fallito) di aggirare con te il monologo (in Dopo):

finché si torna
malgrado tutto e la stanza e il posto non possono
essere aggirati ancora. In quel punto
entra il vento

Quanto alla metafora del vento che entra, forse Remo aveva in mente, oltre il Cimetière marin di Valéry, il suo caro Caproni di Dopo la notizia, dove il vento è appunto quello mobile-immobile della “morte che vive”, dell’istante eterno che fonde in sé tutti i momenti e li azzera; e, ancora, il Montale di Vento e bandiere, dove il ritorno del vento, assente la donna, testimonia di una sconnessione, una fenditura, una sfasatura del tempo che “non mai due volte configura / in egual modo i grani”, gettando l’uomo nello smarrimento eppure salvaguardando, parimenti, il suo forse illusorio, e comunque precario ed esile, margine di scelta e di autodeterminazione.

“In quale punto entra il vento?”, si interroga Filippo Davoli: entra nell’istante in cui si tenta di sottrarsi al chiacchiericcio - al mormorio come vuoto di senso - e al chiasso interiore, il vento entra nella sostanzialità e non marginalità di una parola che non sia indifferenziata o segno di indifferenza, nel “recupero di un’idea esteticamente forte e strutturata”, nel rinvenimento di una parola “usata” che nondimeno sia in grado di resistere all’usura. Il vento entra nel punto in cui una parola altra riesce a fondersi con la tradizione sottraendosi alla dispersione semantica e ricollegandosi alle ragioni esterne alla scrittura.

Guido Garufi intravede in Pagnanelli una stretta contiguità tra poesia e testo, in una superiore visione olistica, non come discordanza. Ribadisce l’idea pagnanelliana della poesia come “conservazione attiva”, il cui ruolo fondamentale è di “conservare la tradizione e renderla dinamica e attiva, mobile e memorabile”. E ricorda una delle costanti della poetica pagnanelliana, quella del prevalere dell’”asse del senso e della leggibilità” sull’enfatizzazione retorica, sull’accostamento gratuito, cerebrale e trasgressivo, sulla finzione, sull’infrazione eletta a regola, opachi e fuorvianti mascheramenti. “Il vento e l’aria - scrive Garufi nell’introduzione - sono in qualche modo la metafora della poesia. Altezza e cielo, invisibilità e presenza, aspirazione e vita, sguardo che la traversa grazie alla sua trasparenza”. Quello pagnanelliano è un linguaggio classico, non classicistico, che procede segnicamente verso la memorabilità del dettato poetico. In Pagnanelli mai è venuto meno quell’indispensabile e imprescindibile legame tra categorie etiche ed estetiche.

Anche Massimo Gezzi parla della poesia di Pagnanelli nei termini di “uno scavo in direzione del significato”, di un’operazione archeologica, come lo stesso Remo ebbe a dire, sia come “discorso del Principio”, sia come “conservazione e custodia di ciò che è andato perduto o si sta perdendo”. Poesia per Pagnanelli non è né infingimento né menzogna, dice Gezzi, ma perpetua lotta con l’indicibile e con il “nontempo”. Poesia è un’attività semantica, uno strenuo tentativo di attribuzione di senso al di là della tentazione di affidarsi all’autonomia del significante. Non alla maniera dei postmoderni, ci dice Andrea Ponso, i quali postulano l’irresponsabilità della parola alla volta di uno spazio infinitamente percorribile di ipotesi di senso che alla fine coincidono con l’assenza di un referente e di un senso, percorso dunque rassicurante e al contempo nichilista, nella misura in cui ridefinisce la propria incapacità di significare. Pagnanelli oppone la tradizione come luogo di resistenza, di consistenza, ma anche causa di una resistenza con cui ogni poeta autentico dovrebbe misurarsi.

Poesia come tensione verso l’autentico, ribadisce Daniela Marcheschi, poesia sorretta da un “umanesimo antropologico” che fa del poeta un poeta-critico all’interno di una visione unitaria della cultura. Non trascurabile è il rimando in nota della Marcheschi a “Presupposti per un’estetica pedagogica” (in Remo Pagnanelli, Scritti sull’Arte, Vicolo del Pavone, Piacenza 2007), in cui l’autore, nel culmine dell’euforia postmodernista, pare quasi stigmatizzare gli eccessi dell’infinità e dell’illimitatezza delle interpretazioni in vista della permanenza di una qualche “funzione di realtà”. Altro segno essenziale dell’inattualità di Pagnanelli, una tra le rare voci discordanti nell’euforico dilagare del postmoderno di quegli anni, atteggiamento che al contrario da qualche anno è oggetto di ripensamenti e ritrattazioni.

Il tema di un Dio alluso, del riferimento agli dèi è svolto da Umberto Piersanti: dèi delineati quali apparenze enigmatiche e distanti, amalgamate quasi con la condizione umana, e un Dio vagamente inquietante, figura quasi irrisolta essa stessa, una delle varie pagnanelliane “figure di pensiero”. Analogamente, Andrea Di Consoli pone la questione di un poeta che rientra nel “culto tutto novecentesco dell’assenza di Dio”.

Poesia di “’sosta’, che guarda all’oltre, al luogo della sua sparizione”, scrive Francesco Scarabicchi, come se la morte fosse un privilegio che fa dire parole assimilabili a sottoscrizioni di un’ultima volontà. Poesia “da ‘soglia’ di ingresso”, nella consapevolezza del transito e dell’impermanenza.

Più particolare l’interessantissimo saggio di Roberto Galaverni, che mostra e “rettifica” Pagnanelli attraverso tre testi rispettivamente di Milo De Angelis, Gianni D’Elia e Andrea Gibellini, laddove Remo “reagisce” o al contrario si svela in versi altrui, nei quali Galaverni interseca riflessioni proprie e legittimazioni puntuali e circostanziate.

Andrea Gibellini si sofferma, ripercorrendolo per illuminazioni, sull’itinerario di Pagnanelli poeta, una “voce così implacabile nel rappresentare se stesso”, esito della “totalità di un io-poeta in permanente allerta e perpetuo abbandono oltre il visibile e dentro la storia”.

Tra gli innumerevoli saggi, che, pur ricollegandosi a distanza, svolgono ognuno una prospettiva particolare (qui ne sono stati sfiorati solo alcuni, e di passaggio), si distingue per la diversa impostazione quello di Piero Feliciotti (“Presente indicativo: funzione poetica e funzione politica dell’inconscio”), nella misura in cui la sua ricerca risale all’origine di quella parola come territorio in cui non è concesso bluffare, che ha costituito l’aspetto centrale della poetica pagnanelliana.

Scrive Lucia Tancredi quanto Remo sentisse il “valore assoluto, quasi liturgico della parola e del suono”, nonché della poeticità del silenzio inteso non come suo rovescio, ma come lo spazio del “non detto” e del “non dicibile”.

Esiste una omologia tra poesia e psicoanalisi, scrive Feliciotti, due maniere diverse, ma per certi aspetti similari, di cui l’uomo dispone per la cura di sé. Non è possibile ricordare Remo Pagnanelli se non in termini di presenza, la presenza di “una vita al presente indicativo”. E il titolo del convegno, “In quel punto entra il vento”, sintetizza la funzione della poesia, che è fatta di vita e tempo, alluse dall’irrompere del vento, come nella metafora pagnanelliana. Feliciotti delinea questo presente configurandolo esteticamente ed eticamente, nella sfera dell’inconscio e in una prospettiva politica. L’oggetto poetico è situato nello spaesamento per l’incorrispondenza tra le parole e le cose. In assenza del proprio rinvio referenziale il linguaggio poetico crea un vuoto di senso univoco nella parola poetica che ci induce a riempirlo con le nostre emozioni, creando nuove presenze e orizzonti imprevedibili. È questo, secondo Feliciotti, l’aspetto che accomuna la poesia “e ciò che nell’inconscio resiste all’interpretazione, il Reale”: “in quel punto entra il vento”, cioè la vita presente.

Feliciotti sottolinea l’insufficienza dell’approccio freudiano alla creazione artistica, e in particolare il limite di considerarla come qualcosa di riconducibile al solo inconscio, come l’esibizione di un nonsense che andrebbe tradotto, attraverso l’interpretazione, in enunciati comprensibili. Tale presupposto è limitante, perché leggere dei versi come se fossero enigmi inconsci non rende ragione del fatto che i poeti “arrivano sempre per primi nel luogo dove la psicoanalisi fa le sue ‘scoperte’. Che è luogo d’origine non già della significazione più o meno edipica, ma piuttosto del senso e cioè del tempo della creazione del soggetto”. Con l’opera d’arte si è situati in un altro tempo, in un tempo che “ricomincia” e il soggetto è chiamato nel punto d’origine dell’atto creativo, cioè dell’azione umana in quanto tale. Leggere dei versi o guardare un quadro è una attività che implica la ripetizione dell’azione dell’autore in una rappresentazione che è anche una ri-presentazione, vale a dire la trascrizione “nell’unità di tempo” del gesto creatore.
Se consideriamo l’opera d’arte come l’esito di una “proiezione fantasmatica inconscia” finiamo per fare astrazione dall’”atto creativo e dall’opera come oggetto concreto”. La psicoanalisi, scrive Feliciotti, “non è un’ermeneutica ma la logica stessa dell’azione”, il senso ne è il tempo: del soggetto che la compie, artista o fruitore. L’arte è il luogo d’elezione per la generazione di un senso inedito non per essere interpretato traducendolo in significazione cosciente; al contrario, per andare “dalla significazione all’atto che la sostiene”. La poesia è il rovescio del sogno, ma per comprenderlo bisognerebbe avere un concetto di inconscio che vada al di là della combinatoria significante. Esiste un punto di convergenza tra l’azione umana, il significato e l’atto di creazione inconscia.

Il sogno sottrae il soggetto e il sonno alla percezione di una realtà sgradevole e puramente percettiva. Si incarica di interporre la difesa della struttura simbolica, che è l’Altro, “cioè l’apparato del linguaggio”. Si situa tra dimensione percettiva e coscienziale, tale che “neppure nel sonno la dimensione significante viene meno”. L’indicibile, il territorio inaccessibile al linguaggio è la sfera del nostro essere e delle nostre pulsioni, esprimibili solo attraverso un atto. La vita è fatta di atti, non di parole, “l’atto è al di là del significante perché supera sempre tutte le ragioni, le valutazioni, i calcoli che lo preparano”.

Il linguaggio poetico è statutariamente trasgressivo. Nel sogno la potenza è codificata dall’Altro e non dal soggetto, e in una lingua estranea. Scrive Feliciotti che questa configurazione paradossale “indica la posizione del soggetto sul limite del significante, perché in fondo si parla sempre nella lingua dell’Altro”: precarietà ed estraneità si mescolano a una situazione che comunque ci appartiene.

Il “testimone non è tanto chi rivisita il passato”, perché la testimonianza include anche la componente del non detto. Il testimone istituisce il posto della verità e restituisce un senso alle azioni umane. E lo specifico dell’uomo “è in questo essere-tra-due, tra enunciato ed enunciazione, che è lo spazio precario e sempre presente della lettera”. La poesia non è traduzione del significato inconscio, ma è vero il contrario, “è l’inconscio che funziona come l’atto di creazione poetica”.

La psicoanalisi si occupa del soggetto sociale come anche del soggetto lirico, non del soggetto psicologico. Psicoanalisi e poesia si svolgono in una considerazione speciale di una parola non menzognera. La vita comporta qualcosa al di là della pura finzione, “un rapporto con la seconda morte”, di tutto ciò che siamo e che ci rappresenta, valori, credenze. E la parola ha più valore dell’esistenza stessa. In tal senso in relazione a Remo Pagnanelli si parla di presente indicativo.

Come diceva Heidegger, l’esistenza anonima che rinuncia a prendere la parola è inautentica. Tale presente, secondo Feliciotti, costituisce la valenza cronologica-logica del soggetto etico, il soggetto della parola. Rapportarsi alle forme letterarie è inoltrarsi verso le origini del senso, che muove il poeta dal “luogo originario del silenzio”, da cui poesia e psicoanalisi traggono origine. È origine il silenzio, “il tempo dell’evento che è tale proprio perché è atto e non linguaggio”, atto che origina il linguaggio e riflessione verso l’origine, verso la non-parola. Poesia e psicoanalisi dunque sottraggono la voce al silenzio, eludendo gli automatismi della rimozione. Il sogno, analogamente alla poesia, mette in scena metafore e metonimie, ma soprattutto chiama in causa il tempo del soggetto, “lo confronta con il Reale dove non c’è più parola”. Il poeta, diversamente che nel sogno, si scontra con la realtà attraverso una cancellazione di sé e travalica la sfera dell’inconscio per un itinerario inverso, “nel punto logico dell’origine del soggetto”: “in quel punto entra il vento”, scriveva Remo. Dallo sprofondamento nel proprio abisso alla vita, traendo dalla presunta mancanza di senso una parola nuova, una parola altra.

Nessuna ricaduta nell’idealismo, ma l’esibizione di un segno concreto che non si incarica di tradurre alcun contenuto inconscio: un segno che indica, suggerisce, allude, traumatizza, riannodando “il simbolico, l’immaginario e il reale”. Oltrepassata “la tirannia del significante” attraverso una parola nuova il poeta va oltre ogni mistificazione nella misura in cui codifica la propria opera poetica attraverso il proprio stile, un’opera che quanto meglio riesce tanto più disdice l’abbonamento all’inconscio, visto che c’è di sicuro più inconscio in una cattiva poesia che in una buona. Fare poesia non ha nulla a che vedere con l’interpretazione dell’inconscio, il quale, d’altro canto, “si crea e si riattualizza nell’atto di scrivere o di leggere”.

L’uomo deve riferirsi alla realtà con l’unico strumento che possiede e lo strumento linguistico essenzialmente diverge dalla realtà “quanto più pretende di aderirvi”, diceva pressappoco Proust. La parola non coincide con la cosa, la snatura, “ma nel suo compiersi l’atto di parola può (…) risarcire il soggetto di questa perdita, farlo essere grazie a ciò che non si può dire”. E ciò che non si può dire si può comunque elaborare, fino a farlo significare.

Pagnanelli è riuscito a presentificare il presente, il male di vivere. Tale presente non è il sintomo di Remo Pagnanelli, dice Feliciotti, quanto la maniera attraverso la quale “l’autore riscatta la precarietà del vivere e si sostiene al di là del sintomo psicopatologicamente inteso. Non lo risolve ma lo trasforma”. I versi di Remo Pagnanelli non necessitano di interpretazione analitica “perché il poeta è già interpretato” dai versi stessi. La ricorsività, nella poesia di Remo, del tempo presente è segno della manchevolezza del presente: è la presenza mancante, non l’assenza, che muove il poeta. La vita non trascorre alla ricerca di un senso, anzi le azioni quotidiane ci distraggono dalla ricerca di un senso nelle cose. “È un vivere nel presente”, dice Feliciotti, anche senza preoccuparsi “del Reale che il presente presentifica”, è anche alienarsi indugiando nella cura inautentica, prendersi cura dell’hic et nunc, intrattenersi con l’effimero.

Scrive infine Feliciotti che non è possibile all’individuo defilarsi “da questa sopportabilità del presente. Che è sempre senza speranza, proprio come deve essere il presente della vita”. E tale coscienza dell’impossibilità di una svolta spirituale pare legittimamente ricollegarsi a quanto Pagnanelli scriveva sulla poesia italiana dopo la neoavanguardia, una poesia, malgrado tutto, non rassegnata alla morte, che resiste all’idea dell’estinzione senza l’esibizione di soluzioni disperate, che si intrattiene in una condizione invernale, permane e dialoga, testimone non immemore, “con e sulla precarietà assoluta”. Come scrive Maria Lenti, “tutto affidato all’uomo, nonostante la sua orfanità, o forse proprio a causa di essa, nella sospensione di un senso del vivere affidati ad un rovello che chiede una voce di rimando.”

Scrivere, dunque, quel che c’è da scrivere, ogni parola scritta è una parola strappata alla morte, e nel contempo la esorcizza proprio perché la prefigura con la sua fissità, e la rende in qualche modo pensabile, concepibile, accetta nella sua possibilità essenziale e inesorabile.

Elisabetta Brizio

maggio 2009


Remo Pagnanelli, poeta e critico, è nato a Macerata nel 1955, dove è morto nel 1987.
In ambito critico ha pubblicato i volumi La ripetizione dell'esistere. Lettura dell'opera poetica di Vittorio Sereni (Scheiwiller, Milano 1980), Figure della metamorfosi in Fabio Doplicher (Di Mambro, Latina 1985), oltre a numerosi saggi apparsi su prestigiose riviste (“Alfabeta”, “Otto/Novecento”, “Letteratura Italiana Contemporanea”, e altre), per la maggior parte raccolti da Daniela Marcheschi in Studi Critici (Mursia, Milano 1991) e postumo Fortini (Transeuropa, Ancona 1988). Alcuni scritti sull’estetica e le poetiche sono stati raccolti nel volume a cura di Amedeo Anelli Scritti sull’Arte (Casa Editrice Vicolo del Pavone, Piacenza 2007).
Per quanto riguarda la poesia ha pubblicato due plaquettes (Dopo, Forum, Forlì 1981 e Musica da Viaggio, Olmi, Macerata 1984), due raccolte, Atelier d'inverno (Accademia Montelliana, Treviso 1985), e, postumi, Preparativi per la villeggiatura (Amadeus, Montebelluna 1988) ed Epigrammi dell'inconsistenza (Stamperia dell'Arancio, Grottammare 1992). Il tutto è confluito nella raccolta completa Le Poesie (il lavoro editoriale, Ancona 2000), a cura di Daniela Marcheschi. Tra i vari riconoscimenti attribuitigli ricordiamo: Premio Montale per la poesia inedita (1985), Premio Speciale Camaiore (1989), Premio Speciale “Poesia Aperta” Milano (1990).

Il suo epistolario e altri documenti editi ed inediti, manoscritti e dattiloscritti di poesie, articoli, recensioni, saggi sono confluiti presso l'Archivio contemporaneo Vieusseux di Firenze .
La sua poesia, fin dalle prime raccolte, è un percorso tutto teso alla lettura del tempo, a contrasto fra la vita effimera e il sogno di un oltre tempo, di rottura della frontiera, come avrebbe detto il suo amico Vittorio Sereni, che lo separava dalla utopia o mitologia di una zona edenica, di un paesaggio e di una natura capaci con la loro immagine di metabolizzare l'eternità.
La natura, il mare Adriatico, il bosco, le acque dei fiumi, e soprattutto l'estate, costituiscono le linee guida del suo discorso poetico. Fedele alla lingua classica, quella ereditata dalla lezione d'avanguardia che fu di Leopardi, Pagnanelli disdegna qualsiasi laboratorio sperimentale, qualsiasi testo che non avesse la dignità della memoria e della ricordanza. Era solito, ridendo, sostenere che si discostava dai "dilettanti allo sbaraglio ". E proprio in questa direzione, quella della fiducia nella poesia memorabile, se si vuole, " pedagogica", Remo Pagnanelli ha condotto la sua esistenza sulla linea della scrittura come impegno e della letteratura come rispecchiamento dell'anima e della società.



Opere di e su Remo Pagnanelli:


http://www.webster.it/c_power_search.php?shelf=ALL&q=remo+pagnanelli&submit=Invia?a=328366

mercoledì 3 giugno 2009

METAFORE DELL'AIDS NELLA CULTURA CONTEMPORANEA

La pubblicazione del bell'articolo riguardante il colloquio fra Patrizia Garofalo e Paolo Ruffilli mi induce a riproporre qui un mio scritto di qualche anno fa, che affrontava il problema delle rappresentazioni letterarie dell'Aids, tipiche del puntinistico e frantumato minimalismo postmoderno, ma alle quali la poesia di Ruffilli - cantabile e insieme drammatica, melodiosa e dolente, terrestre e celeste come nell'ultimo Luzi - aggiunge una nota più alta e pura, che va al di là di contingenze ed emergenze storiche e sociali destinate (si spera) a mutare, e investiga quasi metafisicamente il mistero della sofferenza e del male; mistero, mysterium tremendum oggi occultato, rimosso, marginalizzato, e dunque esso stesso confinato, si direbbe, nella "provincia dell'essere", quando non fiduciosamente e trionfalisticamente esorcizzato dalle certezze, talora arroganti, della scienza.

E colgo l'occasione, non pretestuosa, credo, né peregrina, per riprodurre, perché non si perdano nel nulla, alcuni appunti che presi a caldo, subito dopo la lettura delle Stanze del cielo, raccolta di Ruffilli edita nel 2008 da Marsilio, e quasi dimenticati, sepolti iin qualche foglio sgualcito del "libro della memoria".

E', nelle Stanze del cielo (sorta di fugato, dolorosamente melodioso, dialogo in absentia fra un carcerato e un drogato, entrambi prigionieri, l'uno delle mura, l'altro della chimica infernale in cui cerca l'oblio), davvero meraviglioso il conflitto, il discidium vitale e tragico fra la prigionia reale e l'illusoria evasione - fra la vita-morte, o morte-vita, dei segregati e la libertà, la trasgressione, l'"evasione" ingannevoli, e in realtà ugualmente vincolanti, della droga.

Eppure, c'è una sorta di duplice tensione mistica (lo sguardo levato verso le "dimore del cielo", gli ormai anch'essi aridi, sordi e desolati "templa serena" di una possibile ascesa metafisica, nella prima parte; e, nella seconda, l'autodissolvente, autodistruttiva immedesimazione, vagamente "beatnik", ma ben più consapevole, filtrata ed amara, con l'assoluto, l'essere, l'eterno, simulata dai paradisi artificiali delle droghe).

Ma è una tensione che infine sfocia e si disgrega (un po' come in quella mistica negativa, in quella sacralità del Nulla, del Vuoto, del Silenzio, che è del Buddismo come di certa teologia monastica) nel deserto dell'annientamento, nel naufragio della tenebra fonda.

E nel lettore (ma questa non è che una mia impressione del tutto soggettiva) può infine restare come il senso sospeso, limbico, di un'oscillazione quasi baudelairiana tra inferno e cielo, tra beatitudine e dannazione; e come la scia o l'eco di una tentazione, di una seduzione dell'annullamento, della nientificazione, della "morte del tempo", dell'eterno ossessivo ripetersi, che saranno comunque, paradossalmente, e forse fatalmente, purificatrici, con qualunque mezzo vengano colmate e placate; e che apriranno, forse, un insospettato sentiero verso un - direbbe Heidegger - "vivere autentico" conseguito proprio nella morte e nell'annientamento, che almeno liberano dalle catene del tempo e dalle maschere della socialità.

Sembra a volte che Ruffilli riscriva nichilisticamente (ma nel senso del Dio "nihil aeternum", o dello zanzottiano "ricchissimo nihil") Eliot - quello dei "Four Quartets", con il suo "tempo irredimibile", ma anche quello della "Rocca", che in Ruffilli diviene eterna ed immobile fortezza carceraria, più che strenuo baluardo di valori eterni.

Ci sarebbe molto altro da dire. Ma leggo in un mistico medievale che ogni conoscenza, ogni dire tendono di per sé all'infinito, e devono infine rassegnarsi alla loro limitatezza, alla loro gloriosa pochezza, al loro luminosissimo vuoto.

giugno 2009

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Le taglienti riflessioni sviluppate negli ultimi anni da Susan Sontag (da Malattia come metafora a L'Aids e le sue metafore, recentissimamente riuniti negli Oscar Mondadori sotto il titolo Malattia come metafora) hanno mostrato come i linguaggi della medicina, dei media e, in qualche caso, della stessa letteratura, adibiscano spesso la metafora a mezzo terroristico, a strumento di una specie di sortilegio che avvolge la malattia (il cancro come l'Aids) entro un alone di minaccia inesorabile, di fatale castigo, di degradante contaminazione.

A questo tipo di metafore della malattia gli scrittori possono però opporre una retorica di segno diverso, non necessariamente minacciosa e intimidatoria, che presenta la malattia non tanto o non solo come un'infermità fisica, un'alterazione organica, ma piuttosto come uno stato esistenziale, una chiave di lettura del reale, a volte addirittura come una paradossale scelta di vita, una forma di allontanamento dal mondo, una condizione sospesa ed estatica che prelude alla creazione: basti pensare a certe pagine decadenti (il Baudelaire degli scritti su Poe, il D'Annunzio del Piacere, il Mann della Montagna incantata), o al mito crepuscolare del “mal sottile”, o ancora alla malattia sveviana, intesa come “convinzione”, disagio psicologico, esasperata attitudine autoananalitica che paralizza l'azione.

Negli anni '80, l'irrompere dell'Aids ha suggerito agli scrittori un nuovo impiego della retorica della malattia.

Qualcuno ricorderà, in proposito, certi versi del Libro di poesia di Dario Bellezza, in cui l'Aids appariva personificato come un “nero angelo” che recava con sé un iniquo e paradossale castigo destinato ai “vecchi peccatori di un minuto”, e il poeta, quasi delineando una fosca profezia del proprio destino, chiedeva di essere “leccato” e “bevuto” dal morbo.

L'Aids è divenuto uno dei temi ricorrenti della narrativa d'ispirazione minimalista e pulp, che ha nella deriva e nella dispersione dei significati, nel frenetico spostamento dei centri e dei punti di riferimento, nella disgregazione delle strutture, uno dei suoi elementi essenziali; quasi che l'Aids, con le ferite e le deturpazioni che infligge alle carni, non potesse trovare una compiuta espressione letteraria se non attraverso una scrittura analogamente lacerata, dilaniata, decostruita.

Nondimeno, anche davanti alla sofferenza e all'orrore, la parola letteraria può conservare un suo spessore e una sua dignità.

Ne sono testimonianza due volumi usciti recentemente, il cui accostamento, dovuto al tema (l'Aids, appunto) è reso significativo anche e proprio dalla diversità di formazione, indole e vicende individuali che divide i due scrittori.

Il primo dei due libri in questione è Questo buio feroce (storia della mia morte) di Harold Brodkey, una sorta di allucinato diario d'infermità scritto nell'imminenza della morte ormai certa, dopo la diagnosi di malattia conclamata. In questo senso, Questo buio feroce rappresenta quasi un'estrema, cupa propaggine, tesa fino alla soglie del buio, dell'effuso discorso autobiografico già sviluppato nel romanzo fiume The runaway soul. E si ritrova qui - per quanto ormai impallidita, prossima alla definitiva disgregazione - la stessa immagine che Brodkey volle lasciare di sé in quell'opera più vasta: il ritratto di uno scrittore ribelle e maledetto, che aveva alle spalle una giovinezza segnata dall'inquietudine, dall'estraneità, dalla diversità sessuale e caratteriale, e che proprio della diversità faceva la propria bandiera, la propria maschera, il proprio difficile tramite per rapportarsi con il mondo della comunicazione.

La scrittura si snoda lungo l'esile lembo di luce che separa la vita dalla morte, la voce dalla quiete. La parola batte alle porte del silenzio, “un silenzio dolcemente indiscreto e irresistibile”, in cui l'autore intreccia con se stesso un “dialogo muto”, e che è poi anche il “silenzio di Dio”, che egli ha sempre avvertito, condizionato in questo anche dalle sue radici ebraiche.

E l'imminenza della morte segna anche la percezione del tempo, che diviene “durata reale”, tempo dell'anima, dello scavo interiore, della rievocazione autobiografica a volte impietosa, tutta giocata sul “tremolio di questo limite del tempo che ti rimane”; un tempo che a volte - segnato com'è dall'”andirivieni dei significati” - appare privo di ordine e di senso.

Ci si può chiedere che cosa resti, che cosa vada immune da questo ”andirivieni dei significati”. Ciò che permane, ciò in cui l'autore continua a nutrire un'incrollabile, quasi umanistica fiducia, è la scrittura, il linguaggio, con la sua “immediatezza ammiccante e debolmente radiosa”, il suo potere quasi narcotico. L'autore si definisce un “tossicodipendente del linguaggio”, pervaso da “un desiderio struggente delle parole degli altri, di amare gli altri per le loro parole”.

È proprio il tema della malattia e della morte ad accomunare l'opera di Brodkey a quella di uno scrittore da lui tanto diverso per indole, sensibilità e formazione, cioè Paolo Ruffilli, autore del poemetto La gioia e il lutto. Passione e morte per Aids.

In questa raccolta è possibile ritrovare, anche sulla scorta della prefazione di Pier Vincenzo Mengaldo, lo stesso respiro metrico che animava le prove precedenti, da Piccola colazione a Diario di Normandia a Camera oscura: un inconfondibile verso breve, che raramente eccede la misura dell'ottonario, e che può svariare, volta a volta, con grande versatilità, da un andamento melodico e cantabile, che si direbbe rievochi certe serene e limpide armonie settecentesche, ad un'essenzialità lirica e ad una concisione rastremata che ricordano Ungaretti, per arrivare a volte ad un gusto postmoderno per il frammento, l'aforisma, la scrittura segmentata e nervosa (era Roland Barthes a parlare, a proposito di un precedente lavoro dell'autore, di una scrittura intesa come “spazio di morte” e “lettera della trafittura”).

Il poeta coglie il tragico paradosso di un male - “delitto atroce” di una leopardiana “natura indifferente” - che costringe i genitori a piangere i figli: “i padri seppelliscono / i figli, si prendono cura / delle loro vite perdute, / li stringono feriti / fra le braccia, li / vegliano morenti”.

Sennonché, uno dei messaggi più forti e più limpidi che emergono da libro è proprio la compenetrazione di morte e vita, la percezione (presente anche nella Montagna incantata) che la vita trae alimento dalla morte, e che l'esperienza della morte può essere iniziazione alla vita: la morte non è se non “l'altra faccia / rimasta in ombra / della vita”; “il lutto / chiama la vita, non altra morte”.

Ruffilli, che tra le altre cose ha tradotto Il Profeta di Gibran e il Tao-teh-ching, sembra avere appreso dall'uno che il segreto della morte va cercato “nel cuore della vita”, “perché la vita e la morte sono una cosa sola, così come una cosa sola sono il fiume e il mare”, dall'altro che “Essere e non-essere si generano l'un l'altro”.

Né manca, in quest'idea dell'essere vivente che muore “per essere rinato” e si consuma “per essere risorto”, un possibile richiamo alla concezione paolina del Cristo primogenitus mortuorum, dell'uomo che “muore corpo mortale” e “rinasce corpo spirituale”.

E il discorso poetico di Ruffilli si risolve infine in un'apoteosi di luce e di silenziosa armonia cosmica, che può ricordare il “miro gurge” e il “lume in forma di rivera” del Paradiso dantesco, così come certe folgoranti epifanie dei Four Quartets di Eliot. Oltre la morte, dice il poeta, “nello splendore / cosciente della luce”, “fluisce un grande / fiume di energia / che spande e che riversa / oltre le porte / l'eterno nel presente”.
H. Brodkey, Questo buio feroce. Storia della mia morte, Rizzoli.
P. Ruffilli, La gioia e il lutto. Passione e morte per Aids, Marsilio.
S. Sontag, Malattia come metafora, Mondadori.

(2003)

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