lunedì 30 novembre 2009

Patrizia Garofalo, "Quando la maschera cede il passo al volto. Nota sulla poesia di Claudio Moica"

Titolo: Angoli nascosti
Autore:Claudio Moica
Edizioni: il filo

È da qui
che si respira
la ragione del cercare.
Alle estremità del pensiero
vive la verità nascosta….


L’incipit connota indubbiamente una poesia meditativa, del pensiero che nell’autore trova congiungimento nella relazione e contatto tra le cose circostanti che, risvegliate dalla pregnanza della parola poetica, animate popolano gli angoli del cuore.

Ad una prima lettura la frequenza delle ipallagi sembrerebbe enfatizzare la ricerca della conoscenza nell’attribuzione trasversale e multivoca di significati che si dissemina nei vari elementi del verso e del cuore, della ragione e delle emozioni se man mano non ci si addentrasse in un meandro di immagini surreali e metafisiche, ideali inerpicamenti d’abbraccio al mondo perché con calore esso si schiuda all’uomo e al poeta.

Consapevole della necessità di afferrare suoni, musiche e parole che li inveri di cui neanche il vento può riportare i significati, Claudio Moica confida nel silenzio “negli angoli del cuore” e percorre l’ipotesi tonale più alta di cogliere e afferrare il senso della la ricerca del sé.

Dall’ immagine dell’eremo delle carceri che apre suggestivamente la silloge, il poeta coglie la caducità dell’esistere tra un sospiro che appena trovata la verità può con un soffio essere condannato a perderla… e allora invita a salire e a trovare un varco, nell’accezione montaliana dell’impossibilità di rinvenire “la maglia rotta nella rete che ci stringe” che poi scompare nel testo fino a essere lui e lui solo abitante i luoghi del tempo, gli angoli temporali e ottici del cuore e della poesia.

Anche la finestra è un angolo, uno spazio al contempo aperto e defilato e condizione di tempo dal quale il poeta guarda scendere la neve e, in attesa di estati di sole, scrive: ”La neve dell’indifferenza / cala copiosa / ne sento il profumo;/ rimango immobile dalla mia finestra/ sperando / che tu non la sospinga/ alla porta del mio cuore.” E quindi tutto, anche l’amore, risuona nello scorrere del tempo e della ricerca di momenti di echi non raccolti, tensioni, attese, rimandi; e, analogamente, la parola poetica viene sempre più a connotare i tempi del cuore, e solo del cuore, e solo interiori.

E di commozione si parla quando si legge la silloge, un sentimento diverso dall’emozione di superficie e casuale ma un “avvertimento” di vitalità che esplode anche con “chiari presagi di porti mai raggiunti”, che si tinge di mare, di colori, di momenti, di tregue, di lontananze, di presagi: “Ho aspettato che la rabbia / fosse semplice passaggio / di nave senza rotta”.

È una poesia, quella di Moica, di umanesimo mai disgiunto dalla memoria della quale con sovraesposizione emotiva si inoltra nella delazione di “rottami di ipocrisie… ombre di inganni… urla strazianti… preghiere delle madri”; fino all’intensità di “stille di sangue/ come destini d’autunno/ vestirono il cielo/ e languide/ scesero nelle sue mani”.

In questi versi l’empatia del poeta disegna ipallagi disvelanti nel “destino d’autunno” che designano la morte, mentre un cielo partecipe al dolore piange sangue. Poesia quindi quella di Claudio Moica non solipsistica ma sommessa e insieme vitale adesione al mondo fino scrivere: “non possediamoci/ ma cerchiamoci al buio/ tra le pieghe dell’anima”.

“Trasformerò / l’eternità delle stagioni/ in piccoli riflessi/ giocando / al Dio dell’illusione/ pur convinto che“ al di là /di questo mare /baie / che il mio sguardo non scorge / …l’Anima adagiata / si conforta/ di pace presunta.” Le assenze vanno cercate nel rapimento di un volo “dove le nuvole vanno a dormire”, nelle rughe del viso negli “attimi fuggiti / per simulare un’altra volta/ il gioco della vita.”
Negli angoli nascosti dove il poeta custodisce il suo sentire per guardare persino oltre l’illusione: “tu, ladra d’emozioni, / hai carpito / il senso del mare / lasciando nelle mani / dei giovani ciechi/ solo acqua e sale.”

La valenza della silloge è anche nel possibile accoglimento del suo angolo nascosto al sentire del lettore, alle situazioni in cui ci si riflette specularmente leggendo i suoi versi, nelle possibili contingenze non scritte ma comuni, ce fanno sentire e riafferrare la suggestione della poesia quando essa si specchia in un'individualità emozionale e trova “tra le cavità del tramonto / la direzione del dolce sentire”, laddove “si scambiano emozioni/ quando la maschera/ cede il passo al volto.”

Patrizia Garofalo

lunedì 23 novembre 2009

PATRIZIA GAROFALO, "LA LUCE SEPOLTA DI REBORA"

"Come questa pietra / è il mio canto / che non si vede", dice Ungaretti in versi celeberrimi. E Serra, nell'"Esame di coscienza di un letterato", evoca, con timore e forse con oscura speranza, con una sorta di vago e sanguinante desiderio filiale, la terra "buona per i nostri corpi". Qualcosa di non troppo diverso - un consimile senso, quasi, di residuo inorganico, assenza di vita, regressione allo stadio impersonale e minerale proprio nel momento in cui, nel carnaio feroce della trincea, il corpo si fa più nudo e dolente, più atrocemente sentito nella sua fragile caducità - trasuda dai versi e dalle lettere di Rebora, che forse andrebbero ripensati e riletti con un più stretto riferimento al milieu vociano e al contesto storico della "Letteratura della Grande Guerra".
Il cielo, si leggeva nei Frammenti lirici, "Non muore e vorrebbe, e non vive e vorrebbe, / Mentre la terra gli chiede il suo verbo". Umano e divino, il soldato ferito e il cristo sofferente, e insieme la terra e il cielo, il temporale e l'eterno, accavallati e intrecciati come in un arco teso, si abbracciano nell'esperienza del dolore, della fragilità, della finitudine, nello spazio in cui si muove, con il suo incompiuto anelito, la coscienza infelice, che non sa rassegnarsi a non poter essere tutto, a non poter scandagliare fino in fondo l'abisso del significato, del pathei mathos (e qui affiora forse il Rebora lettore dei Tragici), della conoscenza che è dolore e del dolore che è fonte di conoscenza. (M. V.)



LA MIA LUCE SEPOLTA
LETTERE DI GUERRA
CLEMENTE REBORA

A CURA DI MARCO DALLA TORRE



Viatico

O ferito laggiù nel valloncello
tanto invocasti
se tre compagni interi
cadder per te che quasi più non eri.
Tra melma e sangue
tronco senza gambe
e il tuo lamento ancora,
pietà di noi rimasti
a rantolarci e non ha fine l’ora,
affretta l’agonia,
tu puoi finire,
e conforto ti sia
nella demenza che non sa impazzire,
mentre sosta il momento
il sonno sul cervello,
lasciaci in silenzio.
Grazie, fratello.

Clemente Rebora


Clemente rivela fin da giovanissimo una “ sensibilità intellettuale acutissima”: così Marco Dalla Torre presenta questo epistolario dal quale si evince come la tensione del percorso di Rebora si elabori e si coniughi lentamente nel suo essere dilaniato tra gli orrori della storia di inizio secolo, che investono e permeano l’animo in una devastante dolente tensione dello spirito che convergerà nella conversione.

Dalla partenza per il fronte appare evidente come il falso mito della guerra rivendicato dai “ vociani” lo veda distante ma anche vittima dell’ orrore più vasto dello sguardo pietrificante della Medusa. Indagare dentro questa tensione è stato attento compito di Dalla Torre, che si fa voce di orrori e riporta l’espressionismo semantico e la disgregazione della parola con la lucidità critica di una selezione che restituisce voce al silenzio che seguì, allora, la produzione di Rebora.

E’ desueto tentare la lettura di un critico che a sua volta riporta la voce di un grande nel suo travaglio. In realtà la mia non è la recensione di uno studio ma una forma di ringraziamento ad una lettura da reportage che Dalla Torre offre non alla sua breve lettura personale, ma, come dono, a chi si può avvicinare a Rebora senza impostazione autoferenziale.

A proprio modo ognuno può entrare nel testo, nell’epistolario poco noto e nel travaglio che lo anima tra la Medusa, più vicina al dipinto di Caravaggio che al mito greco, e un rapporto-dissidio sempre presente tra orrori di guerra e guerra dell’io.

Nella necessità di Rebora di essere parte delle sofferenze altrui, di una risorgenza comune e senza schieramenti , è sottolineata con significativi testi la progressiva disgregazione del linguaggio che esonda in urla disperate di pace. L’orrore e la deriva hanno gambe mozzate, teste dilaniate, sacrifici umani insieme alla puzza del sangue e della carne che marcisce, e reclama non solo sepoltura, ma risurrezione e trasfigurazione nella luce di Dio.



Patrizia Garofalo

venerdì 6 novembre 2009

NICOLA VACCA, UN POETA ALLA RICERCA DEL "DIO VERO"

Questi versi di Nicola Vacca mi ricordano (forse, anzi quasi certamente, per mera analogia, per semplice suggestione soggettiva di lettore, più che per riscontro filologico) il respiro, il passo, il ductus di certi grandi poeti mistici, da Angelus Silesius a Juan de la Cruz.

Dio, che visto da occhi e con occhi umani, è in se stesso purum nihil, antitesi del terrestre, opacità, eclisse, negazione, può forse, proprio dal silenzio, e con e nel silenzio, rivelarsi e parlare. Con il silenzio, meglio che con le parole, può essere umanamente invocato; e bisogna fare vuoto e silenzio nella propria anima perché nel profondo di essa possa risuonare - quale che sia, e qual che ne sia l'enigmatico, forse indecifrabile, messaggio - la sua voce.

Dice, con spirito modernissimo, un salmo: «Perché, signore, stai lontano, / nell'ora dell'angoscia ti nascondi?». Forse Dio è appunto concepibile proprio sotto la specie di quel «vuoto immenso» che le domande ultime e prime, destinate probabilmente a restare senza risposta, spalancano.
Da questo silenzio e da questo vuoto può derivare anche il respiro stilistico netto, secco, a volte in apparenza angoloso e contratto, della versificazione, che tende a procedere per versi raggrupati a due a due, o a volte isolati, ma sempre contrassegnati da una forte condensazione aforistica e da una acuminata pregnanza.

Viene in mente, per analogia come per contrasto, Il Dio dell'impossibile di Patrizia Garofalo, la cui vena è peraltro più sinuosa, più sensuale e fluente: «Il Dio dell'impossibile / Ti significa nell'anima / Mentre accolgo / La tua assenza / Nuda». L'assenza, la distanza, la lontananza (che non hanno misura né metro di comparazione, significando entrambe una stessa mancanza che è simile alla morte) possono accomunare amore umano e amore divino, sensualità e ansia di assoluto. Due tensioni che si fondono nella Sposa del Cantico dei Cantici, nella sua inesausta ed insoddisfatta ricerca: «Sul mio letto, lungo la notte, ho cercato / l'amato del mio cuore; / l'ho cercato, ma non l'ho trovato».

Per l'uno come per l'altra, le parole sono «Vestali di vita e morte» - simili all'oraziana tacita virgo, messaggera di sacro silenzio come di eternità.


(M. V.)



A UN DIO VERO

La comunicazione si è interrotta
perché arriva il nulla
dallo scavo della crudeltà
nelle ferite dell’amore.
A un Dio vero chiedo
della paura che invade le anime
dell’inquietitudine che turba i cuori.
Lo invito a darmi tutte le risposte
che dal suo silenzio dovrebbero giungere.
Davanti alle domande
si apre un vuoto immenso.


A QUATTRO MANI CON MIA MOGLIE

Amo la notte
con la passione per il giorno
invento momenti
per vivere e morire.
C’è sempre un’onda che attraversa tutto
in un mare che travolge.
Riempio lo spazio di silenzio
respiro
facendo i conti con secondi.
Bisogna cucirsi addosso un destino
quando tutto sembra perduto.
Si ha sempre bisogno di ali
perché la vita continua
fino ad interrompersi.


CECITÀ

In compagnia dell’oscurità
avanziamo passi incerti.
Disincantati guardiamo in alto

verso un cielo che minaccia pioggia.
Dietro le nuvole ci sarà un sole
che attende di essere liberato.
Intanto abbiamo smesso
di conversare con la luce.
La cecità è il terrore che uccide la gioia.
E’ condannato alla morte più buia
solo che non sa raccontare il male.