giovedì 16 luglio 2009

GIUSEPPE BAIOCCO, "DAL CERVELLO ALLA CREATIVITÀ POETICA"

Ripubblico in versione digitale, per gentile concessione, un articolo del neuropsichiatra Giuseppe Baiocco (apparso dapprima a stampa su «Atelier», 1997, n. 5), che illumina, con una chiarezza inusitata, le sottili e complesse dinamiche che legano, nella creazione poetica, la sfera verbale e quella visiva, emotiva, sensoriale, l'intuizione istintiva e la consapevole elaborazione formale: due versanti che, senza alcuna forma di riduzionismo o di monismo materialistici, vengono qui ricondotti ai due emisferi cerebrali - da un lato quello demandato al linguaggio, dall'altro quello che la fisiologia, con espressione insolitamente suggestiva, definisce “emisfero silente”. Ebbene queste due sfere, questi due lobi, per così dire, della facoltà percettiva ed espressiva appaiono, nella creazione poetica e artistica, meno nettamente distinti di quanto si pensi: attraverso la sinestesia (la “corrispondenza”, il “colore delle vocali”, l'”orchestrazione verbale” del simbolismo, ma anche il “girotondo delle arti”, l'associazione di colori e suoni di Schönberg e Kandinsky) le rappresentazioni verbali vengono strettamente associate ai suoni e alle immagini, normalmente “silenti”. E precisamente di immagini (cioè di analogie, di metafore, di epifanie, di allegorie) e di suoni (allitterazioni, assonanze, false etimologie, fonosimbolismi, accordi e corrispondenze vocalici) è materiato e tramato il discorso poetico. Ma sullo strato primigenio, archetipico, sulla paleo-logica che sembra accomunare, talvolta, a contatto con l'indicibile, con l'ineffabile, con il “fuori-idioma” di cui parla Zanzotto, anche il più dotto e il più elaborato dei discorsi poetici al balbettamento infantile (alla dantesca “lingua che dica mamma o babbo”, al “pappo” e al “dindi” dei primi conati espressivi), si innestano, in un secondo momento, l'elaborazione formale, il consapevole ed autocritico lavorio stilistico e retorico, che però, data la loro natura essa stessa verbale, fonica, musicale, serbano comunque, potendola tutt'al più limitare e filtrare, l'originaria matrice associativa, arazionale o prerazionale. E si può, su queste basi, ripensare anche il nesso (del resto ben più antico di Lombroso) fra genio e follia, creazione e alienazione (la alienatio mentis che è dei folli come dei mistici, così come di Dante di fronte alla visione del Divino), fra il dominio vitale e iniziatico della poiesis e quello, tumultuoso e abbagliato, della mania, dell'enthousiasmos, del furor. Sembra che la riflessione critica, pur legata e consustanziale all'atto poetico, specie da Baudelaire in poi (eppure anche, ad esempio, in una poetica di matrice per definizione extrarazionale e passionale come quella romantica), venga, in esso, in certa misura incorporata, metabolizzata, fusa con la cosiddetta ispirazione, con la motivazione originaria, e in larga parte oscura, al poetare, fin quasi a non poter essere più nettamente distinta come elemento autonomo, anzi fino a formare, con l'elemento extrarazionale, un tutto unico ed inscindibile, con tutte le inquietanti contaminazioni che questa simbiosi di luce e tenebra, di lucidità e accecamento, di fuoco vivo e traslucido, immoto ghiaccio riflettente, porta con sé. La metà oscura, il lato inintenzionale, non controllabile né razionalizzabile, non sembrano poter essere rimossi, e nemmeno del tutto controllati o esorcizzati, nella creazione artistica come nella vita dei sentimenti. (M. V.)


1. In questo articolo si cercheranno di descrivere i meccanismi cerebrali alla base dei processi creativi poetici e del rapporto tra questi e la loro comprensione psicologica.
Le attuali conoscenze scientifiche del problema ci consentono di affermare che uno dei due emisferi in cui il cervello è suddiviso (quello di destra) entra in azione quando un soggetto ascolta della musica, osserva il viso, la mimica, la gestualità di una persona; l'altro invece esamina la realtà secondo modalità logiche, deduttive ed analitiche. Ciò significa che è in grado di cogliere il significato dei segni semantici convenzionali (quali appunto sono le parole), di afferrare i nessi logici che legano più proposizioni, di recepire i singoli passaggi di un discorso (mentre la comprensione globale ed il senso è afferrato dall'altro emisfero, detto anche musicale, che è portato a fare le sintesi, a cogliere le analogie associando le idee in base a legami emotivi, a procedere per induzione).

Nel presente studio si cercherà di discutere se sia ipotizzabile che la poesia, pur essendo basata sulla forza espressiva della parola, utilizzi a livello cerebrale modalità operative e di linguaggio di quella parte di cervello che in teoria non avrebbe "competenza" su di essa. È probabile che in ciò consista la straordinaria esperienza soggettiva prodotta dall'ascolto di un brano poetico. Si cercherà ora di approfondire meglio il discorso.

E' possibile che nel cervello del poeta avvenga l'esatto opposto di quel che avviene nella materia grigia di un pianista professionista. Studi condotti con sofisticate metodiche elettroencefalografiche computerizzate hanno evidenziato che se un soggetto appassionato di musica ascolta un brano d'opera, è la parte destra del suo cervello ad essere stimolata, ma se è un pianista ad ascoltare la musica che egli stesso suona, accade l'opposto. Anche in questo caso entra in azione l'emisfero "sbagliato". Ciò avverrebbe perché il musicista professionista elabora l'esperienza interna della musicalità a partire dalla "lettura" delle note sul pentagramma e non dalle immagini mentali dei suoni. La sua prestazione artistica parte dall'analisi di segni convenzionali (le note) che "legge" sullo spartito; per questo motivo la parte del suo cervello attivata è la sinistra, come avviene in un qualunque individuo intento nella lettura delle parole sulle righe di un libro.

Si è ipotizzato che nel nostro cervello esista un centro di smistamento capace di discernere i segnali verbali da quelli non verbali: in condizioni di veglia vigile all'emisfero destro arrivano i suoni ed i rumori umani, le vocali, la musica ed i segni non verbali del linguaggio, mentre al sinistro arrivano le parole, le consonanti, le cifre. In particolari situazioni quali l'estasi, la meditazione trascendentale, l'ispirazione creativa, i due emisferi riceverebbero contemporaneamente entrambe le categorie di stimoli, realizzando quello stato fisiologico e mentale definito "pensiero divergente", che potrebbe corrispondere all'esperienza soggettiva dello stato creativo, mistico o immaginativo. Sappiamo che alcune droghe, come i derivati dell'acido lisergico, eccitano le capacità creative e mistiche di un individuo.

In questa particolare condizione, i messaggio smistati dalla parte destra verso quella di sinistra non sono analizzati e trasdotti in linguaggio digitale (basato cioè sulle parole):è come se la parte sinistra del cervello e la sua modalità operativa venissero eclissate da un'esuberanza funzionale della parte "musicale." Nell'emisfero destro, "domina l'immagine e dunque anche l'evocazione di immagini appartenenti al ricordo e le sensazioni che a ciò si ricollegano" (Watzlawick).
A differenza di quanto avviene nella percezione visiva del mondo nelle ordinarie condizioni mentali, le immagini interne si associano in base a quello che nel lessico psicanalitico viene definito "processo primario": ecco perché la poesia fa continuamente ricorso alla similitudine, che è una figura poetica prodotta da un pensiero strutturato per categorie primarie. Vale la pena di spiegare brevemente questo concetto. Il "processo primario" è un tipo di pensiero caratterizzato dal rapportarsi con la realtà in base a schemi affettivi primordiali ed arcaici basati sulla paleologica. Quello della paleologica è un mondo in cui, perché l'identità fra due soggetti sia soddisfatta, è sufficiente che essi abbiano un particolare affettivamente pregnante in comune (ad esempio il predicato) perché siano considerati uguali. Facciamo un esempio: "Il passero solitario" può essere il poeta stesso in quanto egli ha in comune con esso il predicato "solitudine". Infatti il Passero è solo - Leopardi è solo: Leopardi ed il Passero sono soggetti sovrapponibili eseguendo l'operazione logica di identità a livello del predicato "solitario". E' questo un modo di organizzare il pensiero basato sulle categorie primarie. Nel caso citato all'interno della categoria "solitudine" si possono ritrovare infatti sia i poeti che gli uccelli, purché "soli". Il processo primario sarebbe collegato con le modalità operative dell'emisfero destro (Arieti).

Per chiarire meglio i concetti espressi, ricordiamo che, in condizioni di veglia, una persona in uno stato fisiologico di coscienza svolge i normali processi del pensiero in base alla logica comune detta anche "aristotelica" (termine che corrisponde al concetto psicanalitico di "processo secondario"). Sappiamo dalla filosofia classica che le operazioni che un essere pensante fa per valutare la validità dei suoi enunciati sono basate sui principi di identità, non contraddizione e del "terzo escluso". Cioè un uomo sano nel pensare riconosce come valide solo le identità fondate sui soggetti(esempio: Io posso essere solo Io, Io non posso essere contemporaneamente Io ed un altro). Se invece un individuo esegue operazioni di identificazione a partire dalle qualità ("predicati") della sua persona, come precedentemente abbiamo fatto parlando del Leopardi e della sua qualità "solitudine", allora operiamo secondo meccanismi di logica arcaica (paleologica).
La differenza essenziale sta nel fatto che lavorando con le categorie (pensiero secondario), un gatto può essere identificato solo all'interno della classe dei "felini", mentre se utilizziamo le "qualità", esso può essere identificato con qualunque altra cosa, essendo teoricamente infiniti i "predicati" possibili a lui attribuibili (baffi, fiocco, occhi, ecc.).

Questo secondo tipo di logica è sostanzialmente differente da quella "aristotelica", anche perché le associazioni vengono fatte in base a caratteristiche emozionali che ognuno attribuisce alle qualità del soggetto a seconda delle sue condizioni psicologiche (quindi anche di salute psichica).
Per inciso, questo modo di operare è tipico di diverse malattie cerebrali caratterizzate dall'incapacità di organizzare il pensiero in forme di linguaggio coerente, sequenziale, logico (schizofrenia paranoidea, sindrome alogica di Reich, afasia di Wernicke, ecc.).

Anche nel sonno REM (cioè quando si sogna), la produzione onirica segue il processo primario, a differenza di quanto avviene nei sogni non-REM (che avvengono nel sonno cosiddetto "a onde lente"), in cui questi hanno caratteristiche logiche dette "pensiero-simile". E' esperienza di tutti noi l'assurdità dei sogni effettuati nella fase REM; in modo particolare spesso siamo colpiti dal fatto che una certa persona entrata nella trama della nostra attività onirica abbia contemporaneamente le caratteristiche di un altro individuo (manifestando così una rottura del principio di non contraddizione, del tutto "fisiologica" nel sogno).

Ricordiamo infine che un'ulteriore caratteristica funzionale di questo emisfero è quello di operare secondo il principio della "pars pro toto". Questa funzione, collegata con modalità di pensiero induttivo, ci consente di risalire dal particolare all'universale, permettendoci ad esempio di riconoscere un individuo da un suo particolare significativo, come avviene in certi giochi enigmistici. Una delle più classiche figure poetiche, la sineddoche, trova certamente in ciò la sua base cerebrale di funzionamento.

Ma torniamo a parlare del nostri stati emozionali e di come questi, in particolari condizioni cognitive, possano entrare a far parte del vissuto creativo del poeta. Un'emozione può essere avvertita sia attraverso la sua componente viscerale (il cuore che "s'ingrossa", la pelle che si accappona, ecc.), sia psicologicamente, attraverso la produzione di immagini che hanno la caratteristica di presentarsi con la vividezza di un film la cui pellicola scorre non nel senso della temporalità ma della spazialità psicologica: in questo caso infatti le scene non hanno "un prima ed un dopo", sono cioè puntiformi riguardo al tempo, si sovrappongono fra loro in un'istantanea comprensione della totalità e globalità di tutte le immagini visualizzate. E' come se i fotogrammi di un film, anziché scorrere l'uno dopo l'altro sullo schermo(aspetto logico-sequenziale), fossero proiettati tutti insieme, simultaneamente, essendo stati fra loro sovrapposti come le carte di un mazzo (aspetto sintetico-temporale). In questo modo le dimensioni e lo spessore visuale di tali rappresentazioni interne sono psicologicamente talmente dense da occupare tutto lo" spazio mentale" dell'individuo còlto da una forte emozione. Ciò avviene nella cosiddetta "memoria panoramica" delle crisi epilettiche del lobo temporale e nello stato psichico alterato di una persona sana che si trova improvvisamente in immediato pericolo di vita; i soggetti che hanno vissuto tale esperienza raccontano di aver rivisto in pochi secondi "eterni" tutta la loro vita.
Ma torniamo ora agli aspetti cognitivi fin qui descritti, che sono tra loro del tutto differenti ma che hanno in comune il fatto di vedere coinvolto la parte destra del nostro cervello. Questi stati corrispondono ad esperienze endocettuali (cioè a materiale psichico ancora amorfo e grezzo, non comunicabile con chiarezza semantica per via verbale).Tutti noi abbiamo esperienza di come le immagini prodotte mentalmente siano sfuocate, prive di sfondo, di profondità di campo e siano sbilanciate riguardo l'equilibrio compositivo della figura: la visualizzazione cioè è ingigantita in alcuni suo particolari ed è priva di altri.

Da diversi autori viene riportato che certi schizofrenici (come anche i ciechi nati che acquistano la vista da adulti), non riescono ad organizzare la visione nella sua totalità e globalità. Questo disturbo è collegato ad un'alterazione della parte destra del cervello, la cui funzione è quella di far sì che l'insieme di input percettivi "in entrata" venga elaborato in modo totale e globale; altrimenti i singoli percetti attiverebbero le aree cerebrali della visione in modo così frammentario da polverizzare l'unitarietà psicologica dell'esperienza visiva.
Altre regioni del cervello invece, hanno il compito di fungere da analizzatori della percezione, fondendo i segnali in ingresso arrivati in frazioni di tempo diverse, rimontandoli in un processo visivo simultaneo cosicché il tempo psicologico del "vedere" risulti unico.
Questi meccanismi di adattamento cerebrale alla componente cognitiva del processo visivo saltano nelle allucinazioni oniriche della fase REM del sonno, in cui la pregnanza affettiva di alcuni percetti fa sì che questi siano più "salienti" rispetto ad altri che rimangono, per così dire, "in ombra".

C'è quindi una similarità tra le caratteristiche delle immagini mentali della veglia e del sonno e la percezione distorta degli schizofrenici (malattia caratterizzata, tra l'altro, da un cattivo "dialogo" fra le due parti cerebrali). Ciò potrebbe significare che i due tipi di distorsione percettiva siano il prodotto degli stessi meccanismi arcaici di funzionamento psichico cerebrale. A differenza dello psicotico, però, nell'individuo sano questi fenomeni avvengono solo in particolari e ben definite condizioni di regressione, fra le quali appunto vi sono la creatività, il sogno, l'ipnosi, gli stati mistici. In questi casi si verificano delle modificazioni cerebrali che permettono la riduzione della distanza Io-non Io (concetto ben esemplificabile con la frase "sogno o son desto?"), l'attualizzazione dei ricordi, la liberazione delle immagini mentali, l'accesso al mondo della paleologica; si costituisce così lo stato mentale necessario per la messa in moto dell'out-put espressivo .

2. Tramite il linguaggio la coscienza interpreta il mondo esterno ed interno traducendo non solo gli oggetti, ma anche le emozioni, in parole. Nella comunicazione ordinaria la condensazione significato- significante (cioè la fusione in un unico simbolo verbale della cosa in sé e del termine che convenzionalmente la definisce in una data lingua), conserva il valore di strumento operatorio del pensiero logico-digitale. Lo scollamento di tali componenti viene poi operato al momento dello smistamento dell'input tra i due emisferi (ad esempio, il nome è riconosciuto a sinistra mentre il volto della persona cui quel nome corrisponde viene riconosciuto a destra).
È ipotizzabile dunque che nella poesia la parola sia "trattata" dal cervello come nel linguaggio non verbale; deve perciò essere disincarnata del suo valore semiotico e caricata dei contenuti del vissuto emotivo del quale forma il contenitore semantico. Solo così tali contenuti possono venire trasmessi e comunicati con un tipo di linguaggio che ne rispetti integralmente l'aspetto puntiforme, endocettuale, paleosimbolico, atemporale. La poesia cerca così di comunicare per segni verbali, mantenendo però la spazialità, l'immediatezza, la globalità dell'esperienza "interna" che l'ha prodotta e che è intraducibile in linguaggio digitale. Per questo motivo quando si cerca di spiegare un verso ci si accorge che mancano le parole per decifrarlo completamente.
Il problema centrale della poesia è infatti la trasmissione di espressioni verbali usate sia come segni dotati di valore semantico, sia come aggregati di suoni capaci di indurre rappresentazioni mentali, endocetti, immagini, emozioni. Questo perché un verso poetico non può essere costituito semplicisticamente da suoni onomatopeici, ma deve esser fatto di parole, le quali, in quanto segni significanti, sono prive di per sé di risonanze emozionali, che possono però essere acquisite grazie all'amalgama con gli "artefatti analogici" (rime, metrica, allitterazioni, prosodia, ritmo, pause, assonanze, sonorità, ecc.).

Questa fusione, momento tecnicamente molto delicato e "magico", costituisce il passaggio dall'"oggetto interno" informe del momento ispirativo, alle forme semanticamente strutturate del verso compiuto, il quale appoggia il suo "corpo verbale" sugli "artefatti analogici" dei quali costituisce l'impalcatura fonemica, riuscendo così a restituire al lettore la forza visionaria dell'emozione concepita a partire dal versante espressivo dell'atto creativo. Si decompongono così le "forme", cioè il linguaggio logico-verbale ed i suoi segni significanti che fanno da supporto comunicativo ai contenuti della poesia, fino a scomporle, discioglierle, fluidificarle, liquefarle per ottenere un magma omogeneo trasmissibile come contenuto immediatamente, globalmente, simultaneamente, totalmente, percepibile. Una vocale cessa di essere lettera per divenire grido, gemito, sussurro, vento.

Ecco quindi che la poesia nello spostarsi sempre più sul versante analogico della comunicazione riduce di molto la "distanza" fra il significato ed il segno ad esso adeso (cioè la parola che lo denota). Infatti nel linguaggio verbale rimane sempre una deconnessione, una scissione, fra significato e parola, ed in particolare tra emozione e simbolo.

Così il processo tutto mentale della visualizzazione trascende in suoni semanticamente strutturati, costituiti da sonorità in modo tale che l'immagine visuale da essi evocata si sovrappone, incarna, riveste quella sonora al punto che la parola con la sua "rumorosità" può divenire un tutt'uno con l'immagine visiva che incarna. In questo modo il vissuto emotivo viene veicolato tramite segni semantici nei circuiti comunicativi di tipo non verbale, che a questo punto sono gli stessi dell'emisfero "musicale".

3. In sintesi possiamo quindi affermare che anche fenomeni psichici appartenenti alla sfera del "trascendente", rappresentano in realtà il frutto della imprevedibile e continua interazione dinamica tra patrimonio cromosomico, cervello ed ambiente, contribuendo a dar corpo psicologico al vissuto dell'individuo, alla sua storia ed al suo "processo di individuazione" (Jung).
In ognuno di noi avviene una mescidazione universalmente unica e irripetibile di esperienze ed elaborazioni cognitive che coinvolgono la Coscienza, il suo Io e le strutture diacroniche della personalità (cioè il "film" della storia della nostra vita). Scopo di questo lavoro è stato anche quello mostrare come una lettura biologica delle emozioni e dell'arte di esprimerle (la poesia) sia tutt'altro che deterministica e prigioniera di un riduzionismo da "psichiatria molecolare".


Giuseppe Baiocco

"Il presente del silenzio: l’'ora crepuscolare' in 'Elegia' di Sergio Corazzini", di Elisabetta Brizio

Pubblico volentieri queste note di Elisabetta Brizio – rigorose e insieme sensibili, di un rigore quasi accademico, quasi semiotico e strutturalistico, eppure animate e illuminate da una viva partecipazione umana ed esistenziale – che esplorano un'altra dimensione (stavolta prettamente testuale, più e oltre che tematica, contestuale, ambientale) della “provincia” crepuscolare: quella del silenzio, dell'ammutolimento, della reificazione verbale e fonica (corrispettivo testuale e semantico del mistero, del tramonto, dell'ombra, della morte, motivi-emblemi che saranno al centro di un altro grande ed enigmatico testo del Corazzini estremo, La morte di Tantalo) che in Corazzini (come già in Mallarmé e nel D'Annunzio più assorto ed inquieto, e come poi, più sistematicamente e più arditamente, nei futuristi e nel primo Ungaretti) si traducono, visivamente ed espressivamente, nei blancs, negli iati, nelle sotterranee e latenti discontinuità, nelle pause/lacerazioni, del dettato poetico.
“Provincia del linguaggio”, in certo modo, il silenzio: limite ombroso ed immoto avvicinandosi al quale le parole, i suoni, le voci si diradano, si fanno via via più rari, e insieme più puri – allo stesso modo che il nulla, il vuoto, l'abbandono, l'oblio, l'opacità crepuscolare sono “provincia dell'essere”. E in ciò, forse, precisamente in questo rapporto, in questo dilatato e dolente intervallo/ferita, fra la voce e il silenzio come fra l'essere e il nulla, sta, oltre che l'attualità perenne del crepuscolarismo, anche l'essenza del genere elegiaco modernamente (e variamente) rivisitato, dal D'Annunzio delle Elegie romane («Tacciono i venti sopra: non fremito corre le cime; / non, nel profondo incanto, giungon da l'Urbe voci. // Nascere dal silenzio paiono tutte le cose / come le salienti nubi dal mare. (...) // Soli i lauri con lieve tremito incessante / dan tra la selva indizio de la nascosta vita») al Rilke delle Duinesi («ma ascolta il soffio del messaggio eterno / che dal silenzio si forma, e che ti giunge / dai morti prematuri. / (...) E abbandonare anche il proprio il nome / come un giocattolo spezzato»). Ma già l'elegia latina (si veda Properzio, IV, 7: «Cynthia namque meo visa est incumbere fulcro, / murmur ad extremae nuper humata viae. / (...) Inter complexus excidit umbra meos»), esplorava quello spazio “tendente a zero”, sottile ed infinito, minimo ma insieme colmo di risonanze sconfinate, che divide la parola dal silenzio, la vita dal nulla.
«E sarà dolce non seguirne il senso». Le vecchie canzoni, le parole logorate, stinte, affiochite dalla lontananza fino al limite dell'evanescenza e del dileguo, emblematizzano la condizione nuda e indifesa, essenziale ed insensata, della vita ormai protesa alle soglie del nulla e del vuoto. La soglia, il limen della morte (il leopardiano «supremo scolorar del sembiante», il momento estremo in cui “non si sente nulla”, o, precisamente, “si sente il nulla”, delle mummie di Federico Ruysh) rende l'uomo presente e vigile alla propria nullità, alla propria quasi essenzializzata e ontologizzata
nihilitas; allo stesso modo che, sul piano della stilizzazione metatestuale, il bianco, il vuoto, il silenzio che avvolgono e velano la parola la riconducono al cuore luminoso della sua fragilità, al tesoro splendente della sua mortalità che è preludio di rinascita. (M. V.)



essence is the word for the finger
that shows us bright blankness
Dead in Time
You’re dead already
What’s a little bit more time got to do
whit it
sing sound silence
of my sound
Jack Kerouac


In perfetta convergenza tra misure prosodiche e dettato interiore, nell’articolazione strofica di Elegia (Frammento), pubblicata in una plaquette a parte senza indicazione della data nell’intervallo intercorso tra l’uscita del Piccolo libro inutile e del Libro per la sera della domenica (entrambi del 1906), Corazzini svolge il motivo della malinconia crepuscolare attraverso un emblematico - e funzionale - rallentamento del discorso poetico enfatizzato dal frequentissimo uso della virgola, ma senza per questo stravolgere quella continuità sentimentale che lungo i versi è percepibile nell’iterazione assidua e ossessivamente marcata di alcuni gruppi semantici.

Stabilito come eminente connotatore del testo, il campo onomasiologico relativo al pianto - leit-motiv incontrastato e debordante dell’opera - assegna una definitiva uniformità di ispirazione tanto a una tonalità emotiva fatta di rassegnazione regressiva che al nucleo tematico fondamentale: il quale gravita intorno al tema, già pascoliano (ma privato delle pascoliane implicazioni) del compianto per l’infanzia ignara, spazio dei sogni e delle illusioni della vita. La coerenza tematica di Elegia emerge nella quarta strofe, attraverso l’equivalenza semantica di “triste” e “dolce”, i due aggettivi di derivazione jammesiana che nelle rimanenti strofe, nonché negli altri testi corazziniani, si mantengono nei limiti della loro pur impercettibile differenza di significato, laddove il “forse” - come ha fatto notare Stefano Jacomuzzi - non ha valore restrittivo, ma di estensione e di dilatazione dell’attesa vana:

sarà come se tu cantassi una
preghiera incomprensibile, per lungo
volger di tempo, in fin che una sera,
forse più dolce e triste, all’improvviso
t’avvenisse, così, senza sapere,
di comprenderla intera.

Nella seconda strofe alla nozione di un passato pieno di dolcezza (“Ti sarebbe / dolce un imaginare di lontani / giorni che la tristezza esiliò / con le favole”) fa riscontro un presente di malinconica tristezza (“quelle povere favole soavi / senza amarezze e pure, adesso, tanto / tristi che, quasi, piangi per averle / in cuore, tutte”). E a un presente di tristezza, individuabile ancora all’inizio della terza strofe (dove l’autore sembra quasi catalogare alcuni degli oggetti del repertorio crepuscolare):

Piangi pur anche la malinconia
mortale d’una piccola bottega
nera, di vecchi mobili, di vecchi
abiti, in una triste via, nell’ora
crepuscolare, e tutte quelle cose
imagini che siano per morire
in uno specchio, simili a dei fiori
obliati in un vaso?

dovrebbe succedere, inusualmente in Corazzini, un futuro che, come il rifugiarsi nel passato, si riserverebbe di offrire al poeta la tristezza di una felicità evanescente e improbabile:

Sorriderai: se dolorosamente
sorriderai, mi basterà. Che importa
se non t’è il cielo, all’improvviso, tutto
nel cuore?

Analogamente, più avanti:

Tu vedrai; la bella
Vita imagineremo in una chiara
morte. Come se tu fossi, ogni giorno,
per giungere ad un mio primo convegno

Definita (al verso 52) l’equivalenza semantica dell’abusatissima coppia corazziniana “triste” e “dolce” il poeta può procedere all’identificazione tra passato e futuro, pervasi di congetturali dolcezze, in un presente che appare piuttosto gravato da una disillusa estenuazione. Né la felicità trascorsa, intrisa di immagini e cose periture, e come tale falsamente rassicurante, né quella ipotizzata per il futuro, sono dunque idealizzate dal poeta come resolubili ad alternativa allo stato attuale. È piuttosto in questo che tali presunte felicità convergono in rapporto di equivalenza, fino a dare la definizione della loro inesistenza reale come dolcezze avvenute o solo astrattamente idealizzate, e del loro essere un presente dilatato che si prolunga in quella configurazione del tempo quale si mostra alla coscienza quasi infantilmente regressiva del poeta, senza una precisa scansione temporale. Apparenze nel tempo presente (seppure, statisticamente, il tempo presente venga contraddetto nel testo dalle innumerevolissime e preponderanti forme verbali che - a partire dalla zona conclusiva della terza strofe - sono quasi costantemente coniugate al futuro, mentre si nota la grande scarsità di verbi al passato, ridotto a pura evocazione di possibilità), il poeta e la sua “cara anima” sorella (nonché figura femminile assorta, silenziosa e languente come nelle contemporanee esperienze figurative dell’Art Nouveau), ma apparenze certe pur nell’astensione e nell’implosione, sostanze verbali d’invocazione e di attesa. Il dualismo tra passato (evocato in termini di un ritorno del represso) e futuro (che è pura allegoria e finzione) si risolve in un rassegnato qui ed ora inalterabile, in perpetua dilazione, che media e incorpora il tempo trascorso insieme a quello a venire. Il poeta sa che è vano cercare un varco che trasmuti in dolcezza la tristezza per la fine delle cose. La regressione verso il passato diventa allora il segno di una volontà di perseverare nel presente della vita, avvertita come proroga nel segno della stasi e della passività, nella perplessità - per dirla con Gozzano e Corazzini - dell’”ora crepuscolare”. Azzardando una interpretazione figurale, il poeta, nella sua storicità, è figura del presente, laddove passato e futuro ne costituiscono l’adempimento.

La coerenza elegiaca, nell’estensione ininterrotta nel tempo di un languore mortale, si situa nell’insistenza sull’idea del pianto, sulla incontrastata prevalenza di parole-immagini diminuite della loro dimensione empirica-sensoriale. Sono quasi del tutto assenti in Elegia qualsiasi idea di concretezza, l’incisività della parola, il ricorso a un linguaggio fonosimbolico e a un uso cromatico della lingua e qualsivoglia variazione emotiva dalla monocorde intonazione elegiaca e lacrimosa. L’impossibile rifugio nelle favole infantili - e in un futuro alla stregua di favola - è reso lievemente, nell’inevidenza delle immagini e delle evocazioni, in un ritmo lento senza dissonanze e interferenze discordanti, in un continuum dell’elegiaco e dell’ontologico reso in un bianco insonorizzato, un bianco opaco silenzio, tale da suggellare in questi versi il trionfo della malinconia crepuscolare nello sfumare del colore e del tempo:


Cento volte
passeremo per quella via che più
diletta a non so che malinconie
nostre avremo. Lungo i chiari fiumi
canteremo le più vecchie canzoni
e sarà dolce non seguirne il senso.

In endecasillabi sciolti (l’endecasillabo pascoliano, in particolare quello dei Conviviali, più che un’intrusione letteraria pare profondamente assimilato da Corazzini), la scomparsa della rima e l’incessante ricorso all’enjambement che è prolungamento per definizione, nonché l’inconclusione finale allusa dai puntini di sospensione, esemplificano un desiderio di abbandono senza fine, di infinitare il senso di dimissione, di dismissione e di rinuncia. La stessa particolarissima versione grafica di Elegia (riprodotta in versi esageratamente spaziati, quasi a dare una maggiore risonanza a ciascuno di essi in una versificazione, nondimeno, che mantiene un andamento narrativo nel momento stesso in cui allude all’impossibilità del divenire delle due anime), la sproporzione che invade i bianchi margini in alto e in basso, distanze minime rispetto ai larghi spazi vuoti che corrono tra un verso e l’altro, potrebbero concorrere a una visione d’insieme della fissità del tempo, quando al contrario gli intervalli grafici tra i versi di solito orientano diversamente il cosiddetto tempo della lettura; la poesia di Corazzini, che ha già assistito alla dissoluzione delle rigorose forme tradizionali, ritorna qui con un endecasillabo che si sottrae a ogni rimarchevole spezzatura e che esclude enjambement prolungati o “clamorosi”, con un andamento da invocazione sempre uguale, senza progressione ritmica ascendente o discendente. Nondimeno, tale poesia enfatizza lo spazio bianco mentre paradossalmente lo depriva del suo valore di pausa.

Pur pubblicata separatamente, Elegia è un testo non eccentrico rispetto agli altri libri di versi di Corazzini: stessa è la vena crepuscolare, stessa è l’apparente aproblematicità dei contenuti, così come l’autoreferenzialità di un “tu” tutt’altro che relazionale, che è al contempo colloquio con l’anima ed eminente mascheramento di un monologare senza interlocutori, al di qua del limitare del sogno. Stesso è l’ambito fenomenologico essenzialmente solipsistico e di chiusura al mondo esterno: l’ennesimo non luogo dell’anima nell’inviolabile aura in cui si svolge il colloquio del poeta con sé stesso. Ricorrono inoltre l’idea di reclusione, di omissione e privazione, di sospensione del tempo, l’estraneità a una temporalità dispiegata, uno stile antilirico al grado zero, in un codice dimesso e quotidiano, quella totale assenza di scarto tanto stigmatizzata da Gianfranco Contini, e che costò a Corazzini l’esclusione dalla continiana Letteratura dell’Italia unita. L’écart dal livello medio della lingua, il cosiddetto salto stilistico, si verifica assai di rado in Corazzini, soprattutto perché il suo discorso si compie al di fuori di una configurazione tragica, e non cerca alcuna giustificazione storica ma avviene in una tonalità minore, quella, avrebbe detto Guido Gozzano, dell’”esilio” e della “rinuncia volontaria”. La vocazione a una identità, l’aspirazione al possesso della propria esperienza e memoria, paiono frustrate fin dall’inizio in versi in cui Corazzini significa la mancanza di legame con il proprio passato: una volta nominato, il passato svapora nell’assenza di senso e di possesso.

C’è un senso fondamentale dal quale discendono informazioni e motivi: una fenomenologia limbica (e l’atmosfera quasi conventuale che fa da sfondo sottolinea questo straniamento del e dal tempo) descrive due vite congetturali che non riescono a pervenire a compimento, che pare vogliano resistere alla vita e indugiare in perpetuo sbigottimento in uno stato intermedio, in una enfatizzazione dell’hic et nunc: qui l’autore mostra solo disillusione senza resistenza, codifica con l’inaridimento della poesia l’elegia dell’impossibile realizzazione dell’umano. Il soggetto lirico staziona ai confini del tempo nel tentativo di dilazionare il presente per aggirare questa ad infinitum sperimentata assenza di una prospettiva futura verso la quale ogni slancio propulsivo è votato al fallimento. Il poeta vive un secondo tempo: porta in sé ciò che è scomparso alla stessa maniera in cui prefigura le tracce di quello che sarà. E il presente è il secondo tempo quale segno dell’incertezza della vita che adombra la sua sparizione, è estensione e risaltare del silenzio mediante la diminuzione (“un poco”, “piano”, “piccola”, “povero”, “chiara”, “parole bianche”), l’evanescenza anche per mezzo di locuzioni privative (“ombra”, “senza amarezze”, “siano per morire”, “quasi bianchi”, “senza dirti nulla”, “senza sapere”, “non seguirne il senso”, “quasi più”, “senza sapore”, “senza senso quasi”), la lontananza (“addio”, “favola antica”, “lontani giorni”, “vecchi abiti”, “obliati”, “vecchie canzoni”, “verrà la pace”, “avrà tempo”).

Attraverso questa convergenza dei vari tempi dell’esperienza Corazzini non scarta del tutto l’idea di una trasmutazione letteraria - di una metaforizzazione - del proprio allontanamento dalla vita e ci restituisce il suo penultimo travestimento, prima delle soluzioni ironiche o pseudo-ironiche di Dialogo di marionette e di Bando e del sontuoso simbolismo introdotto in La morte di Tantalo, il quale peraltro finirà per sancire l’eternità della vita come eterno nulla non diversamente che in Elegia, che sotto certi aspetti ne costituisce il preludio. Ma senza la forza del pronunciamento dei corazziniani versi estremi, quasi l’ostensione di un privilegio sovrano e solitario. In Elegia la voce del poeta è sommessa, udibile appena e anche le parole hanno perso la loro forza allusiva, perché la poesia crepuscolare è silenzio poetico, è una semantica della sparizione, codificazione del vuoto e della vacanza. Non resta allora che l’assumibilità del silenzio - nella e oltre la scrittura -, paradigma, fato e destinazione del poeta contemporaneo. Quasi paradossalmente, in Elegia Corazzini sembrerebbe dire, con il Kerouac di Mexico City Blues:

mentre leggi questo
è lo stesso del vuoto
dello spazio
proprio ora
e lo stesso del silenzio che odi
dentro il vuoto
che è là
dovunque


Elisabetta Brizio

Luglio 2009