mercoledì 29 dicembre 2010

MARIA GRAZIA LENISA, "ALTRA ANNUNCIAZIONE"

Maria Grazia Lenisa, una delle esponenti di primo piano, negli Anni Cinquanta, del Realismo Lirico, movimento fondato da Aldo Capasso con l'intento di recuperare una meditata e armoniosa naturalezza classica, lontana sia da certi eccessi di cerebealismo ermetico, sia dal realismo più crudo, corposo, materico, sviluppò poi, nel corso degli anni, una sua vicenda critica e poetica che non si esita ad annoverare fra le più vive e complesse del secondo Novecento italiano, segnata da un'assidua volontà di ricerca espressiva e dal ripensamento di una variegata serie di modelli, da Rimbaud a Luzi a Zanzotto - per un discorso che fondesse riflessione, narrazione, lirismo, epica, frammento, per un verbo poetico che fosse davvero, come voleva Rimbaud, "accessible à tous les sens", a tutte le sfumature percettive, così come aperto a tutte le possibili risonanze di significato.
La poesia che riprendo qui pare riassumere tutta una costellazione di temi e motivi, altissima e limpida: l'impregiudicata, assoluta identità, umana ed intellettuale, di donna libera in sé, fiera e viva della propria libertà, eppure immersa, per ciò stesso, nell'archetipo della Grande Madre (qui rivisitato in una chiave sia cristiana che pagana, fra la maternità verginale ed universale, la seduzione impalpabile e sorvrumana, di Maria e l'evocazione, remota, delle Ninfe delle fonti, datrici di purezza e di vita); e, in parallelo, i suoi due numi tutelari, Capasso e Bàrberi Squarotti, pronti e vigili il primo nel cogliere l'ispirazione idillica, naturalistica, più schiettamente classica e lirica, della prima stagione, il secondo nel sottolineare l'evoluzione in senso narrativo, sperimentale, anche iconoclastico, delle opere più mature e più vaste (cui i versi sotto riportati appartengono), in cui, un po' come in Luzi o, diversamente, in Zanzotto, due suoi punti di riferimento, il nucleo lirico originario, pur non rinnegato, si complica e si dispiega in misure poematiche, eppure frammentarie (totalità nel frammento, e viceversa).




ALTRA ANNUNCIAZIONE

Calda di gioco,
piedi nudi al sole,
ebano d'occhi lucidi nell'olio
di lampada innocente, t'arde
dentro un fuoco vivo.

Fremito
e fermento, ordinato in preghiera
per la luna, per il sole che avviva
la tua bruna pelle di cotto, anche
per la polvere ch'è cipria
dei tuoi piedi avventurosi.
Dio tra i cespugli si fa uomo,
ha l'occhio di un ragazzo rapito
a contemplarti, già studia un modo
nuovo d'accostarti.

Perchè tanto
frastuono, accatastare ali pesanti
d'uccello immortale?

Smette le ali
l'angelo dell'uomo, Maria sorride,
è voce dell'infanzia la familiare
loquela del gioco. Poi s'assicura
d'essere cercata dal dio nascosto
che la vuole intoccata.

Giuseppe è antico, stanco, senza corpo,
Maria beata la pianta da frutto.

Al primo mese il seme è goccia d'acqua
poi pesciolino palpita nell'acqua
del ventre. Mette i capelli al quinto mese
e brucia la bocca dello stomaco di luce.
Il ventre avanza, erompono le acque
ridenti della roccia. Porta del cielo
si è fatta donna...



…La prodigiosa Fanciulla di Udine è tante volte assorbita dalla sua personale angoscia (la inimicizia verso il tempo, la prescienza così precoce di tutta la potenza distruttiva del Tempo), e tante volte assorbita dalla sua consolazione principale, il contatto con la Natura, amata con una sana fresca innocente sensualità (che talora mette in moto nelle sue vene presagi e desideri d'amore, vissuti con non minore sanità e naturalezza).


[A. Capasso, Prefazione a Il tempo muore con noi]

Il discorso poetico lenisiano continua a stupire con l’emergere a poco a poco di valenze religiose, seppure al di fuori degli schemi, ne “L’Acquario ardente” e ancor più marcatamente con “L’agguato immortale”. Si parte dal “…tentativo supremo … d’incarnare davvero il nome di Dio nel mondo dei sensi…” per approdare allo “…spostamento dell’orfismo … verso le più ardue sorgenti, cioè come ricapitolazione della storia umana … dalla creazione alla tentazione … fino al nodo decisivo del riscatto in Cristo, cioè nella sofferenza, nel sacrificio, nella morte, ma vista nella luce di un amore che, come in tutte le esperienze di poesia mistica, ha forti impronte di carnalità.” Emerge un’idea della morte che ritornerà anche nei testi successivi, più dichiaratamente collegabili all’esperienza ambivalente, d’immersione totale eppure di distacco artistico, vissuta dalla poetessa in lotta contro il tumore al seno. Si tratta, appunto, di uno “sdoppiarsi della persona in chi scrive e vede e descrive la morte, e chi è nella morte, sì, inerte ormai, ma con dentro ancora il lievito immortalmente creatore della poesia…”. Segnala oltretutto il critico “ …alcuni testi dedicati a Maria che sono fra i più alti, nella loro estrema difficoltà e nella loro perigliosa audacia, di tutta la poesia alla Vergine, scritta fino ad oggi…”

(da Verso Bisanzio; passi delle prefazioni di Giorgio Bàrberi Squarotti)

sabato 25 dicembre 2010

UN NUOVO LIBRO DI SAGGI, DA GIOVANNI LINDO FERRETTI A MASSIMO SCRIGNOLI, DA D'ANNUNZIO A LUZI, FRA DECADENTISMO, ESISTENZIALISMO, DOCUMENTALITA'



Matteo Veronesi - Elisabetta Brizio

Heptaplus. Quattordici esercizi di bibliomanzia, Gruppo L'Espresso, Roma 2010.

Quattordici saggi, disposti a dittico, su letteratura e filosofia, dall'antichità al postmoderno, fra semiologia, esistenzialismo, ontologia, ermeneutica.

Il titolo e il sottotitolo, in apparenza arcani, di questo libro alludono, da un lato, all'idea rinascimentale della coscienza culturale come settimo giorno della creazione, dell'autocoscienza o coscienza riflessa come compimento ideale dell'universo, come vasto silenzio in cui la realtà e il pensiero vedono ed inverano se stessi nello specchio della riflessione; dall'altro, all'antica (ma anche moderna: D'Annunzio «estremo de' bibliomanti») arte della bibliomanzia, della conoscenza profonda, in certo modo profetica, che si ricava, o che ci si illude (ma quanto vitale e salutifera illusione) di ricavare, dallo scrutare e dall'auscultare, senza schemi preconcetti (e anzi concedendo al mistero, all'engima, all'imponderabile, ciò che a sé rivendicano nel percorso della vita, della conoscenza e della creazione), la selva di segni della scrittura e del testo.

La cultura in questa società mediatica e frenetica, che venera la superficie e l'effimero, e che sembra andare serenamente, con un sorriso ebete, verso il niente che già vive senza rendersene conto, e anzi idolatrandolo come assoluto e come cosa salda, nell'insensatezza della politica, della burocrazia, della famiglia, dei riti, dei rapporti, di tutto non può che essere religione della Parola e del Libro, anche se ormai demistificata, senza approdi metafisici, o sfociante in un Essere-Nulla, in un'insensatezza che si ostina ad essere illusione del senso (fosse pure, quest'ultimo, luminosa e numinosa, e a suo modo preziosamente sapienziale, rivelazione di quella stessa insensatezza, di quello stesso vuoto sottostante, sub-stanziale).

Ideale eptacordio o flauto silvestre, erma bifronte e diffratta di un pensiero duplice ed unitario, discorde e concorde, divergente eppure ancorato ad un comune sentire, ad un verbo preverbale, ad un etimo ipofenomenico, noumenico (intreccio ordito tessuto di testi e di intertesti ove le parole «s’allument de reflets réciproques comme une virtuelle traînée de feux sur des pierreries»), questo esile libro, nato con discrezione, a margine di letture antiche e moderne, quasi “pensando ad altro” (ma anche e proprio questo è il senso del dire letterario come alieniloquium, della pronuncia poetica e filosofica come discorso altro, lontano, straniato, perduto e risonante dalla e nella provincia dell'essere), si pone, se si vuole, come sorta di arido e sterile atto di fede, come attestazione di una sfiduciata, eppure in certo modo segretamente, quasi disperatamente sentita, religio litterarum, come, infine, laico culto della parola, di un verbo non incarnato se si vuole, qualcosa di simile al discorso del Cristo morto e risorto che dubitava, in una delle allucinatorie prose di Johann Paul Richter, dell'esistenza di Dio.


M. V.


Il viaggio - come lo intende Ferretti - si delinea come metafora della vita: per definizione è un attraversamento contemplativo, le cui acquisizioni avvengono negli intervalli, nel lento soffermarsi, nell’indugiare, nel riflettere sulle presunte ovvietà, nel “perder tempo per trovare altro”, e non nel procedere direttamente e con lo sguardo distratto verso la destinazione. Anche gli esseri che incontriamo lungo la nostra esistenza, alla stessa maniera dei paesaggi (arcaici e talora quasi giotteschi, quelli ferrettiani, nella loro essenzialità archetipale), suscitano intimità o estraneità, anch’essi sono oggetto di un continuo rinvenimento, visto che “non tutti i viaggi si misurano in chilometri”. Reduce è anche (come effigiato nella circolarità disegnata dal cavallante nel manifesto di cui si diceva all’inizio) un resoconto spirituale dei viaggi che hanno incrementato l’esperienza di Ferretti: in Algeria, in Iugoslavia, in Russia, in Terra Santa. Ma soprattutto in Mongolia. Il viaggio in Mongolia costituisce la demarcazione, e ne colma il divario, tra l’esperienza punk e il ritorno al cattolicesimo. Il paesaggio mongolo è ora meridiana della consapevolezza e spazio germinale della decisione, per ciò che esso svela e per quel che di non effabile continua a nascondere:


La Mongolia somma il mio luogo più lontano e più intimo. Taglio profondo tra il prima e il dopo, non ferita ma punto di sutura tra tutto ciò in cui sono venuto al mondo e ciò che, nascosto, invece di seccare è germogliato. Da lì ho reimparato quello che ero sotto ogni incrostazione cumulata.

Mongolia è madeleine del fertile fondale dell’infanzia - età che trattiene tutta la ricchezza della vita: “infanzia, colta semina / germoglia disgelandosi” - e icona destinale della spettralità di un paesaggio dell’anima, solo in parte, e unicamente sotto il profilo materiale, perduto. Ora, se il tempo è irreversibile, c’è in noi qualcosa di perdurante che ci lega all’origine: “tutto passa e tutto lascia traccia”, dirà lo stesso Ferretti. Lì i ritmi di vita differiscono da quelli del nostro Occidente attuale e si rivelano retrospettivanti: lì risovvengono a Ferretti la nostalgeia, la pulsione non più differibile a tornare alla propria patria, auraticamente qualificata da tempi lenti e dal contatto con lo spessore della spazialità. Ma chi l’aveva creata, la Mongolia? Qui Ferretti esperisce di un tempo arrestato, quasi immobile, e di un iperpaesaggio emblema o paradigma, come fosse stato appena creato: e non può evitare di interrogarsi suo creatore. Evidentemente, decontestualizzando, “così vanno le cose, così devono andare” (Fuochi nella notte).

Ricordate quell’intervista del lontano 1984 - riportata da Pier Vittorio Tondelli in Un weekend postmoderno - ai CCCP-Fedeli alla linea in cui viene chiesta la ragione del loro schieramento a Est? La risposta era questa: “Scegliamo l’Est non tanto per ragioni politiche quanto etiche ed estetiche. All’effimero occidentale preferiamo il duraturo; alla plastica, l’acciaio; alle discoteche preferiamo i mausolei, alla break dance il cambio della guardia.” Quindi una questione morale - già allora si ricercava una opzione possibile rispetto al tramonto dell’Occidente - oltreché di stile. Allora Ferretti parlava di “duraturo” da contrapporre a “effimero”, poi sarà la cultura asiatica a essere assunta a alternativa. In Mongolia steppe e paesaggi - arcaiche distese di perpetuità più che di desolazione - divengono luoghi assoluti dove anelare ad andare a finire la propria esistenza. La Mongolia viene esperita come plaga paradisiaca, per la vastità dei suoi spazi e per la presenza consustanziale degli animali, quello spazio ideale e non più precario che Ferretti reduce ha infine ritrovato nella propria terra di origine e nei valori perenni di un “natio borgo” eletto a ipostasi di uno status. In Reduce ritorna dunque anche la ferrettiana invariabile coerenza interiore: quel suo “campare” di parole, riflessioni su sé stesso e sui propri cambiamenti, la fiducia accordata alla matrilinearità come percorso di redenzione, il suo profondo sentirsi partecipe dell’esperienza dell’essere umano. La convinzione, inoltre di aver vissuto la propria infanzia in una età tardo medioevale alla quale è succeduta la devastante età moderna, nella quale già si insinua una arrogante e fatiscente post modernità. Rispetto agli anni Ottanta si delinea qui l’immagine di una esperienza individuale che si semplifica e si circoscrive, funzionalmente progredisce regredendo, e si fissa entro i confini di acquisizioni essenziali.


(da Matteo Veronesi - Elisabetta Brizio, Heptaplus, Gruppo L'Espresso, Roma 2010)

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lunedì 29 novembre 2010

Giselda Pontesilli, "Nota su Fedele D’Amico" (con un articolo dimenticato sul linguaggio e i pericoli della televisione)


Colpevolmente, conoscevo l'opera di Fedele D'Amico quasi solo per sentito dire. Proprio per questo, tanto più mi è gradita la rivelazione offerta a me, e spero anche a qualche sparuto e volenteroso lettore, da questa preziosissima, essenziale e sentita nota della sua allieva Giselda Pontesilli, e dallo scritto di D'Amico riprodotto per gentile concessione. Scritto la cui data non può non sbalordire, e che non può non apparire straordinariamente, e per certi aspetti tristemente, premonitore e profetico rispetto ad alcune tendenze della società di massa, la quale sembra accordare la vera, ancorché effimera e superflua, esistenza solo a ciò che passa sullo schermo televisivo. Ben prima di Pasolini (le cui celebri pagine sulla televisione come strumento di narcosi della coscienza critica e di assoggettamento delle masse al "centralismo della società dei consumi" sono posteriori di un decennio) e, con tutta probabilità, indipendentemente da McLuhan, D'Amico era riuscito a cogliere, con puro genio e acuminata precisione definitoria ed argomentativa, l'essenza di uno strumento in cui mezzo e messaggio coincidono, in cui il messaggio si risolve, infine, nel puro e vacuo fascio di luce che veicola le immagini e che finisce per porre se stesso,la propria sostanza indefinibile, incorporea e fredda, come valore assoluto, acritico, quasi dogmatico, disgiuntamente e indipendentemente da qualsiasi contenuto, pensiero, esperienza, verifica, vaglio. E, considerando la faziosità e le opposizioni preconcette, e spesso pretestuose, che lacerano il mondo della cultura, non si può che restare ammirati e sedotti dall'impegno lungimirante di un intellettuale che, pur schierato a sinistra, chiamava a raccolta, al di là di ogni ideologia, tutti gli uomini di cultura in un'impossibile (e persa in partenza, ma pur sempre degna e necessaria) lotta alla banalità, alla volgarità e agli stereoripi del consumismo e dell'edonismo di massa.

(M. V.)


È
importante, di Fedele d’Amico (Roma, 1912-1990) - lo si vede sempre più col passar del tempo -, l’intero corpo del lavoro svolto.

A partire dagli scritti giovanili; tra cui, apparsi su “La Rassegna musicale” di Gatti: “Petrassi e il suo Salmo” (1938, V-VI), “Nota sulla lirica di Pizzetti” (1940, IX-X), “Ragioni umane del primo Malipiero” (1942, II-III); nonché la recensione a Classicismo e romanticismo nella musica di Damerini (seguita da una lunga risposta a obiezioni del Salvi –1942, VIII e XI), in cui d’Amico, con interessantissime argomentazioni a tratti quasi fenomenologiche si distanzia dalla critica musicale di stampo crociano.

Ci fu poi la militanza politica (nel ‘43-’44 egli fu direttore di “Voce operaia”, settimanale del Movimento cattolici comunisti), riepilogata nell’intenso “Perché ci occupiamo di politica” (Mercurio, 1945, n.6).

Ci furono le voci di primo piano nell’Enciclopedia dello Spettacolo, da lui diretta, per la sezione Musica e danza, con leggendaria professionalità e rigore; le splendide dispense universitarie (su Rossini, Mozart, Beethoven, le Poetiche musicali del ‘900), per le quali i suoi studenti si sentirono indelebilmente stupefatti, gratificati d’essere oggetto di una tale cura; le recensioni settimanali su “L’Espresso”, tutte “necessariamente” ristampate nel 2000 dall’editore Bulzoni; gli scritti su riviste: “miniature”, “collezione di gioielli” - li definisce Rudolf Arnheim nell’altrettanto esemplare epistolario, durato oltre cinquant’anni (dal ’38 al ’90), tra lui e d’Amico, epistolario di cui il prefatore, Franco Serpa, sottolinea “immediati e quasi allo stato puro i tratti di una energia spirituale rara tra gli intellettuali italiani, quella che nasce dall’identità tra intelligenza critica e fede civile, refrattaria a qualsiasi compromesso” (1).

Ci furono ancora l’edizione critica degli scritti di Busoni2; le traduzioni in versione ritmica italiana di molti libretti d’opera; i programmi di sala -perfetti, attesi- di balletti, opere, concerti; e tante altre cose, tutte fatte con estrema cura, tutte da poter studiare.

Un lavoro non sistematico quello di d’Amico, normalmente vòlto all’esegesi, alla “descrizione” (musicale, storica, biografica, morale) di un’opera concreta, d’un artista in cui egli si cala interamente, umilmente, senz'ombra di teorie preconcette o tesi a priori, per svelarne, articolarne nelle più intime fibre, l’intrinseca, libera individualità, finalità (paradigmatiche le sue acquisizioni di Rossini (3), Berlioz (4) , Manuel da Falla (5), Strawinsky (6)… E, “innanzitutto”, il ritratto -e forse arcano “autoritratto”- di Bruno Barilli (7).

E però al tempo stesso un lavoro non frammentario, non empirico, sempre unitario, “sistematicamente” sostanziato da un fondamento - che pure andrà ben studiato e accuratamente compreso - coerente, costante.

Di fronte ad esso, il breve scritto qui riproposto, d’argomento apparentemente “estrinseco”, sociologico, potrebbe sembrare (anche se in sé bellissimo), non adeguatamente indicativo, forse anche, per qualcuno, fuorviante.

Ma è stato scelto e col gentile permesso della famiglia ristampato, perché indica la peculiare militanza e incorruttibilità intellettuale dell’autore: il suo impegno assoluto, innanzitutto verso i non privilegiati, il popolo, di cui sostenne strenuamente e con dialettica inattaccabile l’emancipazione sociale, cioè culturale, il diritto inalienabile alla cultura vera (8).

E s’infuriò per questo, scappava furibondo davanti agli auditori, ai teatri in cui l’esecuzione si prospettava “teletrasmessa” (fu stupendo vedere quei furori, quella fede: “Che le ire, e perfino i paradossi, di d’Amico fossero seri, e talvolta veementi atti di fede, l’abbiamo sempre sospettato” –scrive ancora il Serpa nella citata prefazione); e cercava, come si vede in questo stesso scritto -e non trovava- alleati, comprensione: allibito dalle posizioni di Ugo Spirito come da quelle delle sinistre.

“Ma tu sei stato combattente fin da quando ti ho conosciuto” – scrive Arnheim a d’Amico nell’ultima lettera dell’epistolario. “Combattente solitario” – lo definì Masolino d’Amico nell’incontro in ricordo del padre, avvenuto a Trieste nel 2000 presso il Circolo della cultura e delle arti.

E tuttavia, in quell’incontro, dalle parole dei relatori, Giorgio Vidusso, Luigi Bellingardi, Franco Serpa, emerse inequivocabilmente, quanto sia chiara, per alcuni, la consapevolezza del valore di quelle battaglie, quel pensiero.

E fu chiara altresì a Roma negli anni settanta, per alcuni studenti, alcuni giovani, che, pur non occupandosi prioritariamente di musica, bensì di poesia e filosofia, solo in lui trovarono un maestro, un’indicazione di percorso, una guida.

Le sue solitarie, acutissime disamine della dodecafonia, della neo-avanguardia (per certi aspetti analoghe a quelle di Ansermet in Les fondements de la musique dans la conscience humaine (9) -più tardi meritoriamente stampato in italiano da Campanotto); la sua confutazione sovrana dei dogmi storicistici ed evoluzionistici contemporanei; la persona di lui nel suo complesso che autenticava qualunque cosa dicesse, perfino una, soprattutto una: - che ancora oggi, malgrado tutto oggi, l’artista, “attraverso una dialettica rinnovatrice” (10), doveva e poteva fare Arte come s’è sempre fatta - diedero loro strumenti insostituibili per districarsi dalla confusione, dall’epifenomenicità dell’arte contemporanea.

E gliene furono per sempre vivamente grati.

1 Fedele d’Amico, Il teatro di Rossini, Il Mulino, Bologna, 1992.

2 Ferruccio Busoni, Lo sguardo lieto. Tutti gli scritti sulla musica e le arti, a cura di Fedele d’Amico, Il Saggiatore, Milano, 1977.

3 Rudolf Arnheim – Fedele d’Amico, Eppure, forse, domani -Carteggio 1938-1990, Archinto, Milano, 2000, pp.11-12.

4 Fedele d’Amico, Berlioz cent’anni dopo, in Un ragazzino all’Augusteo. Scritti musicali 1962-1988, a cura di Franco Serpa, Einaudi, Torino, 1991, pp.111-138.

5 Fedele d’Amico, Manuel de Falla, in I casi della musica, Il Saggiatore, Milano, 1962, pp.469-476.

6 Fedele d’Amico, Stravinsky: oggettivismo, neoclassicismo, musica al quadrato, in Poetiche musicali del Novecento e loro antecedenti, corso universitario, Roma, 1974-75, pp.79-91.

7 Fedele d’Amico, Barilli, o la caducità del miracolo, ora in Bruno Barilli, Il paese del melodramma, Adelphi, Milano, 2000, pp.133-155.

8 Da notare che “cultura vera” non è solo, per d’Amico, come si potrebbe affrettatamente inferire, musica, arte, poesia “classiche”, ma proprio, letteralmente, “il contrario della pappa scodellata sul video”, “a qualsiasi livello”: anche la canzone popolare autentica è cultura, ma mai lo è la finta canzone popolare imposta dall’industria “culturale”, “giacché diversamente da quanto la canzone ha sempre fatto, quella di San Remo non rispecchia i miti d’un ambiente bensì impone all’ambiente dei miti prefabbricati, dittatorialmente, fingendo la spontaneità” (cfr. “In che senso la crisi dell’opera”, in Un ragazzino all’Augusteo, op. cit., p.90.

9 Nella lettera del 2 Aprile 1969, d’Amico scrive ad Arnheim: “Ho rallentato all’infinito un lavoro a cui tenevo in modo specialissimo –una riduzione italiana dei Fondements de la musique dans la conscience humaine di Ansermet, che nell’originale è terribilmente lungo, e difficile, ma secondo me è un libro importantissimo –e adesso Ansermet è morto, e la faccenda diventa anche più difficile”, in Eppure, forse, domani, op. cit., p.71.

10 Fedele d’Amico, La musica contemporanea non è una, in I casi della musica, op. cit., pp.507-513. E, a p.506, a conclusione di Adorno e la nuova musica, si legge: “Di fronte a una dittatura mercantile che corrompe tutti i valori riducendoli silenziosamente alla propria ideologia, rendere le forme in cui quei valori si esplicano corresponsabili della corruzione significa accettare l’identificazione imposta e arrendersi alla provocazione senza condizioni. Una cultura d’opposizione trova invece la sua giustificazione storica solo in quanto rifiuta quell’identificazione e s’impegna a liberare quei valori in quanto tali, cioè non soltanto in quanto portatori d’un ’ideologia di segno contrario: operazione al limite della quale è il superamento concreto d’ogni ideologia”.


La televisione e il professor Battilocchio

di Fedele d’Amico

Un mio stretto parente m’invitò non molto tempo fa a festeggiare l’anniversario del suo matrimonio. C’erano solo dei familiari, forse una dozzina: persone, tutte, a me carissime, e che purtroppo non frequento quanto vorrei. La prospettiva d’una serata fra loro era dunque promettente. Ma quando arrivai, alle nove e mezzo, era aperta la televisione; e durò implacabile non so fino a quando: certo era ancora aperta quando me ne andai, poco prima dell’una. I numero più vari si erano succeduti sull’apparecchio: belli o brutti, che importa? La gran maggioranza degli intervenuti li accettò in bianco, come al solito, non se ne lasciò sfuggire uno. Bisognava vederli, poveretti, come non riuscivano neanche a godersi la cena in piedi, tanto dovevano trafficare con la coda dell’occhio. E la serata sfumò, inutile.

Leggere un libro vuole una disposizione attiva: iniziativa, concentrazione durevole, impegno intellettuale. Lo stesso, ascoltare un dramma; perché un dramma è assai più parola che visione, implica una consecutio di concetti e giudizi che va seguìta. Già al cinema invece, dove la parola per lo più è cartiglio esplicativo d’un linguaggio d’immagini abbastanza ovvio, un’attitudine fondamentalmente passiva è sufficiente. Bello o brutto, un film mette in moto il cervello assai meno che una commedia, bella o brutta: conta piuttosto su suggestioni periferiche alla riflessione e al concetto. Ancora meno esigente, incomparabilmente meno esigente è la televisione. Che a questo appunto deve il suo trionfo, la sua capacità di dissuadere con dolce violenza la gente dal libro, dal teatro, dal cinema e dalla frequentazione dei propri simili; perché anche giocare a scopa, o chiacchierare del processo Fenaroli, domanda uno sforzo maggiore che l’amplesso col video.

Finché fu muto, il cinema cercò di stilizzare il gesto. Nel vero, il gesto non esaurisce l’espressione semantica, perché agisce a complemento della parola; costretto però a esprimersi senza la parola, il cinema fu obbligato a stilizzare, enfatizzare, elaborare il gesto, per renderlo autosufficiente, e così a riprendere la tradizione dell’arte pantomimica. Ma questo impegno con l’invenzione del parlato decadde; per quanti residui potessero restarne qua e là. E la stilizzazione cedé il campo alla semplice riproduzione del vero.

D’altronde il cinema non è il teatro, costretto a fingere ambienti colla cartapesta, sulle rime obbligate di un palcoscenico, a mantenere gli attori in una certa artificiosa collocazione rispetto al pubblico, eccetera; il cinema può portare sullo schermo qualunque ambiente, e farci muovere dentro gli uomini come nella realtà, senza mediazioni convenzionali. Così nel cinema l’arte è solo nella disposizione, nell’organizzazione di elementi che di per sé non vengono elaborati ma dati come “veri”: muniti dunque di sex appeal, di quella carica irrazionale e inconfutabile che solo la verità còlta sul fatto possiede.

Donde la forza del cinema: la sua facilità, accessibilità, non problematicità. Qui è la sua funzione essenziale: ratificare il vero, persuaderci che tutto, al mondo, è bellissimo. Sono belle le città antiche e quelle nuove, le automobili, i palazzi, le catapecchie, i signori, i pezzenti, il frac, i blue-jeans; basta fotografarli. E qui è il suo limite: non poterci mai rappresentare una realtà in evoluzione, una prospettiva d’avvenire. Il cinema conosce solo ciò che è attualmente visibile. Anche il film di sinistra non può fare del proletariato, che un essere amabile così com’è, hic et nunc. E noi ce ne innamoriamo talmente, di questo proletariato così com’è, che a un certo punto non comprendiamo più perché dovremmo desiderare che progredisca, ossia che cambi.

Anche la televisione è riproduzione, ratifica del vero; ma a un grado incomparabilmente più misero ed elementare, a un grado puerile. Al cinema, si va a vedere un film: nella speranza di trovare comunque un organismo compiuto. Alla televisione si cerca unicamente la televisione, poco importa in quali aspetti s’incarni strada facendo: attualità, notizie, quiz, canzoni, commedie, opere liriche, film, partite di calcio. Un libro, chi non gli piace, non lo legge; una commedia che non piace si recita a teatro vuoto. Lo stesso un film. La televisione invece, tutti dicono che i suoi programmi sono repellenti, ma tutti la guardano. Non guardano i programmi infatti, guardano la televisione. Anche una commedia o un film alla televisione non sono più una commedia o un film: sono la riproduzione d’una commedia o di un film nelle proporzioni del balocco. Ciò che si cerca nella televisione è questa riduzione a balocco: in casa, senza fatica, girando un bottone.

Anni fa, nell’era pretelevisiva, mi capitava di passare davanti agli uffici d’un grande quotidiano, da una finestra dei quali pendeva uno schermo su cui si proiettavano scene dal vero della specie più banale: il traffico nella via d’una grande città, per esempio. Un traffico identico si poteva godere guardando cinque metri più in là, nel vero; tuttavia nessuno guardava cinque metri più in là, mentre una piccola folla sostava regolarmente davanti a quello schermo. Il perché, lo capii soltanto dopo l’esperienza della televisione. La realtà, osservata direttamente, sembra casuale e confusa, non interessa; e d’altra parte la realtà rielaborata (dall’arte, dalla scienza, dalla storiografia) non è accessibile senza un minimo di partecipazione attiva, critica. Invece la realtà semplicemente riprodotta non esige alcuna fatica in chi l’osserva; e d’altro canto assume misteriosamente un aspetto di necessità, un valore apodittico che la sottrae alla critica. Da quella riproduzione l’uomo sente avallare il mondo che lo circonda, è certificato di trovarsi nel migliore dei mondi possibili, o almeno in un mondo a cui non esiste alternativa. E questo mondo si giustifica con la semplice esibizione dei suoi frammenti spiccioli, dei suoi particolari presi a caso; non c’è neanche bisogno di ricomporli, di sistemarli formalmente secondo un ordine qualsiasi.

Avete mai pensato all’assurdo dell’annunciatore visibile? In un film, gli “annunci” sono titoli consegnati alle lettere dell’alfabeto; sarebbe bella che in loro vece apparisse sullo schermo un essere umano dal sorriso Durban’s con un foglio in mano, a leggerci: “La Lux Film presenta…” Ma appunto questo succedeva fino a poco tempo fa alla televisione. I risultati del campionato di calcio, quanto più comodo leggerli sul video, in modo da poterli, eventualmente, rileggere. Invece ce li recitava un tale in carne e ossa, lanciandoci ogni tanto un’occhiata inesplicabile. Come mai questo ridicolo procedimento era accettato come normale? Perché qualunque cosa, qualunque persona appaia sul video offre interesse: per il solo fatto di apparire sul video. La futilità della sua presenza è garanzia sufficiente della sua necessità, e viceversa.

Tutti guardano dunque il balocco. E nella coscienza di essere tutti. Quasi nessuno lo guarderebbe, infatti, se non fosse certo che tutti, contemporaneamente, lo guardano. Tutti così collaborano docilmente a costituire il suo gran miracolo, che consiste nel creare valori puri, cioè vuoti di attributi concreti, indifferenti al loro contenuto originario. Questa operazione rientra nel consueto obbiettivo della civiltà mercantile, che com’è noto è la sostituzione del valore di scambio al valore di consumo; e non è se non un’applicazione della tecnica pubblicitaria, consistente nel persuader tutti ad acquistare un certo prodotto in base al solo argomento che, appunto, lo acquistano tutti. Ma è un’applicazione, qui, talmente perfetta da poter valere come paradigma, come simbolo ideologico..

Niente infatti uguaglia la televisione nella capacità di spolpare automaticamente ogni realtà dei suoi valori effettivi per trasformarla in entelechia della Notorietà pura. Ogni personaggio, ogni trasmissione che la televisione decida di collocare al luogo opportuno, sale immediatamente e indifferentemente ai cieli della Fama, e solo per questo diventa significativo. Nelle entità così canonizzate tutti si riconoscono, indipendentemente da ogni contrasto di gusti. Perché non la concordanza di gusti importa, importa solo non perdere i contatti con ciò che tutti venerano, e che gl’ideali di tutti simboleggia e realizza nella sua disponibilità assoluta.

Comunque sia giudicato dagl’individui, l’ente canonizzato diverrà segno di riconoscimento, veicolo d’un’ omertà perinde ac cadaver.

Siete mai capitati in un normale teatro quando lo spettacolo è “teletrasmesso”? Non è comodo per lo spettatore. I riflettori vi accecano, gl’intervalli si allungano, l’illuminazione della scena stabilita dal regista è distrutta, qualche volta cambia il programma annunciato. Ma nessuno protesta. Al contrario, i volti s’irradiano, gli animi si tendono a una mistica solidarietà. Il deus absconditus è lì a due passi, la sua grazia sta per investirci. E una voce interiore ci ammonisce alla solennità dell’ora, la stessa voce che guida ogni giorno i passi dei dirigenti, degli operatori, degli artisti, degl’impiegati, dei sacerdoti insomma e dei chierichetti della Telereligione: “Da quegli obbiettivi, sedici milioni d’imbecilli vi guardano”.

D’accordo, dicono certuni. La televisione è un disastro. Ma non dimentichiamo che per tanti, fino a ieri esclusi dalla cultura, è comunque il solo mezzo utile a procurarsene qualche briciola. Sarà pur sempre meglio di niente. Le brodaglie di Buchenwald erano quello che erano; pure sono bastate a far sopravvivere qualcuno.

Il paragone non è allegro; ma soprattutto è sbagliato. Perché la cultura non è un oggetto materiale, una questione di calorie e vitamine. Si possono avere le opinioni più diverse su quale e quanta cultura si possa e debba diffondere fra tutti i cittadini. Ma una cosa dovrebb’essere pacifica: non che la Fenomenologia dello spirito, neanche le quattro operazioni si possono iniettare con la siringa. Cultura, a qualsiasi livello, è iniziativa e attività: il contrario della pappa scodellata sul video. Sì che l’argomento va tranquillamente rovesciato. La televisione potrà magari riuscire innocua, o poco dannosa, a chi pratichi abitualmente le vie naturali della cultura; ma appunto agli analfabeti, ai bambini, ai “finora esclusi” riuscirà letale. Una volta morfinizzati dalla televisione, costoro non apriranno più un libro per tutta la vita, rimarranno definitivamente congelati dalla loro ignoranza. Appunto per questo la virulenza della televisione, in un paese incolto come il nostro, è massima e non minima.

Viene dunque da trasecolare leggendo in questa stessa rivista, a firma nientemeno che di Ugo Spirito l’ammonimento a non “chiudere il televisore con disdegno”, giacché le “espressioni più grandi” della “vera cultura” si troverebbero “soltanto attraverso gli strumenti che abbiano la capacità di raggiungere la massa” (1). Mi domando perché mai il libro non “abbia la capacità di raggiungere la massa”; e donde scappi fuori questo strano dualismo fra la cultura e i suoi “strumenti”. Ci sono paesi in cui i libri dei classici si vendono a decine di milioni di copie: e nella loro forma di libri, cioè non attraverso nuovi “strumenti”. L’escogitazione dei quali raggiunge gli scopi esattamente opposti a quelli che Ugo Spirito si propone, serve cioè solo a perpetuare la divisione fra la cosiddetta élite, che seguiterà a leggere, e la cosiddetta massa, a cui metteremo l’animo in pace spiegandole che guardare un vetro è lo stesso. Cultura per tutti non significa questo: significa scuole per tutti, libri per tutti, teatri per tutti.

E video per nessuno. Invece il video è e resterà per tutti. Abbiamo abolito i flippers, i postriboli, le mosche, il vaiolo: tutte cose molto meno nocive. Non aboliremo le “teletrasmissioni”; perché questo, dicono, sarebbe andare contro il “progresso”, contro la “scienza”.

Argomento falso e ipocrita se mai ve ne fu. Vietare che la cocaina si venda dal tabaccaio non significa impedire lo studio né l’impiego degli stupefacenti. Chiedere l’abolizione della bomba atomica non significa arrestare la fisica nucleare. Che la scoperta della trasmissibilità delle immagini a distanza debba tradursi nella fabbricazione di alcuni milioni di aggeggi capaci di convogliare in tutte le case ciò che alcune persone manipolano in qualche via Teulada non è, “scientificamente”, affatto necessario.

Le vie Teulada esistono soltanto perché ciò produce lucro, e per di più risulta mirabilmente idoneo, in qualunque programma si realizzi, a educare negli utenti un comportamento omogeneo all’ideologia dominante. La televisione rende l’uomo non pensante, passivo, docile, acritico: un compratore ideale di cocacola e di miti piccoloborghesi.

Perciò coloro che credono nella civiltà mercantile difendono la televisione. E gli altri? La difendono anche loro. Dicono di credere al salto dal regno della necessità in quello della libertà, vogliono restaurare il valore di consumo contro il valore di scambio, sottrarre l’uomo alle alienazioni, eccetera. Ma la tentazione di servirsi del mezzo è troppo forte. Perché non tentare di esorcizzarlo, mettendoci dentro le nostre idee?

A vincere nel figlioletto l’invincibile ripugnanza alla scuola, un personaggio di una commedia di Campanile scrittura certo professor Battilocchio, che travestito da ragazzino giochi a palline con lui, insinuandogli abilmente fra un colpo e l’altro le regole della prima declinazione. Ho visto questa memorabile commedia trent’anni fa, ma ancora ricordo Vittorio De Sica in calzoni corti che entrava in scena cantando: “Io sono il professore / di greco e di latin, / insegno a tutte l’ore / le regole ai bambin”.

Le sinistre non combattono la televisione; esse lottano soltanto perché in luogo degli attuali rappresentanti del clericalismo appaia sul video, a declinarci a tutte l’ore sostantivi democratici e socialisti, il professor Battilocchio.

Luglio 1961


1 Cfr. U. Spirito, Cultura per pochi e cultura per tutti, in “Ulisse”, luglio 1961.

domenica 21 novembre 2010

"Je est un autre". Rimbaud nella poesia della "décadence"


Chi di noi non ricorda, anche sulla scorta delle memorabili pagine rimbaudiane di Renato Minore (in Rimbaud, Mondadori, Milano 1991) che si intrattengono su una delle rarissime fotografie che restano del poeta, gli occhi assenti e perdutamente rivolti altrove del comunicando Arthur?



(Arthur e Fredédéric Rimbaud)


Vòlti, forse, verso un destino altro rispetto a quello del fratello Frédéric, ritratto in piedi vicino ad Arthur, istintivamente incurante, quest’ultimo, di dover recitare una parte (cosa che induce a riformulare l’eterna domanda, assumendo Proust come esempio generalizzabile: preferiremmo, a titolo di ipotesi, essere Marcel o suo fratello Robert?). Arthur è seduto, visibilmente suo malgrado, ma più che una attribuzione motivata, la posizione sembrerebbe rispondere ai canoni del cerimoniale fotografico; è seduto e mostra tutta la propria incontenibile insofferenza, impotente e implodente, tanto che sembra accennare ad alzarsi per fuggire via lontano, ma non può che sottomettersi e obbedire, omologarsi, al massimo stringere i pugni, insieme al libretto delle orazioni. Gli occhi estraniati e errabondi di Arthur paiono fin da ora affluire da o verso altre plaghe



(Et dès lors, je me suis baigné dans le Poéme de la Mer)


e fanno da analogon alla sua posa forzata e di circostanza, ma di una circostanza che egli - che già mostra di essere “un autre” - stenta a assecondare, anche perché l’ambiente suppone, aldilà di un tragico invisibile diaframma, la presenza accorta e giudicante della madre, provvida dispensatrice di consigli per come meglio atteggiarsi per immortalare il giorno della festa.


(Elisabetta Brizio, “Je est un autre. Rimbaud tra infanzia sapiente e ‘sofismi della follia’”, in Le vesti dell’anima. Ipotesi per un canone della décadence, Azeta Fastpress, Bologna 2010)


sabato 23 ottobre 2010

Considerazioni ed ipotesi intorno ad alcuni archetipi linguistici


Tera-Neter, o Netjer




I Proto-Geroglifici di Abydos, scoperti da Gunter Dreyer

The vehement and strict reaction, certainly not isolated, of Paul Oscar Kristeller, an exponent of the great and noble tradition of philological Humanism, to the theories formulated by Martin Bernal in Black Athena, reflects very clearly the oppositions and the difficulties still encountered by Classical Studies in comparison with the extra-European or Afro-Asiatic roots of the Greek and Roman world, origin of modern European identity.

In Black Athena the Egyptian ancestry of Greek civilization is enlightened in the same way as the Oriental, Babylonian and Akkadic influences upon the western classical culture were described by the great Giovanni Semerano, for a long time criticized.

According to a Semitic etymology, Europe derives from Erebos, “earth of sunset”; an earth where, after a long, painful and obscure period of repression, removal and oblivion, a thousand years of cultural and philosophical tradition, the most part of which got lost, came to find its extreme rest, and then to resurrect in a new and changed form - “into something rich and strange”, Shakespeare would say. This new form still veils the feeble traces and the subterranean echoes of the primeval origin, as appears in Aeschylus' Supplices or in Herodotean pages about Egypt.

As we have seen, Bernal has demonstrated the Egyptian origin of many keywords and basic concepts of the Greek civilization - among others, Athena, from Neith, hybris, psyché, mysterion, mythos. Before him, great African scholars and intellectuals, like Cheikh-Anta Diop and Théophile Obenga, had shown the genetic relationships of Ancient Egyptian with the African languages.

Ferg Somo, a mathematician and computer scientist, whose clear and consistent demonstrations are, in my opinion, very convincing, follows similar lines of research, investigating the Proto-Bantu roots of some Egyptian words which also influence Greek words. Moreover, sometimes they are similar to Indo-European roots, maybe because they derive from a Proto-Nostratic substratum.

These Proto-roots, both linguistic and ontological, involve some basic concepts, for example the idea of soul, ka for the Egyptians, connected with a root indicating the vital force, the hidden and inner fire - see Greek kaio, to burn, but also latin Caelum, the Sky, seat of the celestial flame. However, the Sun, Indo-European *saewel, Athon-Ra in the Egyptian world, still refers to the idea of vital flame and, because of lambdacism/rotacism and different results of the semivocalic sounds, also relates to a primeval solar deity El/Ra/Helios.

Abydos is the city where archeologists have found the tomb of Tera-Neter (the obscure pre-dynastic pharaoh who, in some ways, embodies the evolution from the Nubian and Ethiopian roots and the documented historical Egyptian identity) and the most ancient Proto-hieroglyphs.


These hieroglyphs reflect an archetypal dualism between the Mountain of Light and the Mountain of Darkness, which can be found later in Greek thinkers like Heraclitus. Abydos, throughout the etymological investigation, reveals its nature of place of burial, memory and regret, loss but also recollection.

The ideophone ta/da is connected with the idea of foundation, stability, strength, as it appears in Tellus, Damater/Demeter, but maybe also in Poseidon and in dama, the initiatic and cosmogonic secret ritual of the Dogon.

As a conclusion we can say that this is the abyssal, lost foundation of civilization and language, that the scholar has the difficult, almost heroic task of tracing and reconstructing.


(Matteo Veronesi)


La veemente e intransigente reazione (non certo isolata) di Paul Oskar Kristeller, vessillifero di un nobilissimo, anche se forse un poco attardato, umanesimo filologico, di fronte alle teorie esposte da Martin Bernal in Black Athena (opera nella quale vengono persuasivamente documentate le ascendenze egizie della civiltà greca, così come il grande, e largamente ostracizzato, Giovanni Semerano ne mostrò quelle orientali, semitiche, babilonesi ed accadiche), rivela con assoluta chiarezza le resistenze e le difficoltà che ancora incontra, nell'àmbito degli studi classici, ogni approccio contemplante il confronto (che in futuro non si potrà più eludere, e che anzi rappresenta una delle più decisive ed imperative sfide poste oggi agli studi antropologici e comparatistici) con le radici extraeuropee, in senso lato afroasiatiche, del mondo greco-romano, e dunque del crogiolo stesso da cui ebbe origine la tanto discussa, controversa e proteiforme identità europea, tanto da indurre a sospettare che, forse, il vero ritorno alle “radici dell'Europa” consista proprio nel suo confrontarsi con tradizioni culturali diverse, che però condividono le sue stesse remote origini, i suoi stessi stratificati, polifonici e sfaccettati substrati.

Europa, si potrebbe dire, precisamente come Erebos, come “terra del tramonto” secondo un etimo semitico: terra in cui, come la Fenice, una millenaria, e in parte già dispersa e svanita, tradizione culturale giunse, di eco in eco, di migrazione in migrazione, di repressione in repressione, di oltraggio in oltraggio, per trovare il suo estremo riposo, la sua ultimativa decantazione, e risorgere poi in nuove e mutate forme, sotto le quali si cela ancora (basti leggere le pagine erodotee sull'Egitto, o le Supplici di Eschilo) la traccia affiochita dell'origine prima.

Bernal ha dimostrato in modo inequivocabile l'ascendenza egizia di molti termini e concetti chiave della cultura greca: Athena (in accordo con la testimonianza, chiarissima, di Platone) da Ht Nt Ntr, “tempio sacro di Neith” (e qui si può pensare al latino aedes, tempio, ma anche, con aspirazione, all'Hestia, all'altare di fuoco dell'universo, delle cosmologie stoiche); hybris (l'oscura, eppure inspiegabilmente consapevole e voluta, “colpa” degli eroi tragici, e poi, in àmbito cristiano, il “peccato”), da wr ib, “cuore forte”, e per estensione “arrogante”; psyché troverebbe confermato il suo senso etimologico di “soffio vitale” in una forma *ps sw(y)t, che assomma ed agglutina le idee di ombra, spirito, aria, freschezza, soffio; mysterion (rito religioso, secreto, numinosum, essenza celata del Divino, ma anche tragedia, la quale forse – ipotesi accennata, fra gli altri, da Jean Fallot, e che andrebbe ulteriormente esplorata – trasse origine dai riti di rievocazione della morte e risurrezione di Osiris-Dioniso) da una radice afrosemitica (str) indicante il segreto, il mistero, l'infandum, ma che io farei derivare, per analogia con mythos e myo, da un mdwd sst, discorso oscuro, occulto, segreto, così come il mythos, da mdwd ntr, è discorso, parola sacra (mentre myo, tacere, deriverebbe da mdwd, discorso, parola: paradossalmente, parola silenziosa, inaudibile, interiore, qual è appunto quella della risonanza mistica).

Grandi intellettuali africani, poi, da Cheik Anta-Diop a Théophile Obenga, di cui in Europa perlopiù ignoriamo, vergognosamente, anche i nomi, hanno capillarmente dimostrato la parentela genetica dell'antico egizio con molte lingue africane, a loro volta derivanti, come l'egizio stesso, da un sostrato proto-africano.

Su questa linea di ricerca si inserisce il lavoro di Ferg Somo, matematico ed informatico per formazione, le cui esemplificazioni, lineari, limpide, coerenti e selettive, lasciano, mi sembra, poco spazio a dubbi. Esse investono concetti fondamentali: l'idea di anima, ka per gli egizi, legata ad una radice indicante il rogo, il fuoco interiore, la forza vitale (si pensi al greco kaio, ma anche al latino caelum, sede del fuoco celeste – anche se diversa è l'etimologia tradizionale –, e alla divinità etrusca dell'oltretomba Calu); ancora alla fiamma vitale rinvia il Sole, *saewel in indoeuropeo, Athon-Ra nel mondo egizio (credo si possa risalire ad un primordiale afrosemitico El/Ra, ammettendo, oltre al diverso esito della semivocale, una concorrenza di ladbacismo e rotacismo che corrisponde alla coesistenza dell'ideofono, /R/, evocante il rogo e la ripetizione ciclica con quello, /L/, del fluire, dello scorrere: insomma il dantesco «lume in forma di rivera», la “luce fluente” delle visioni mistiche).

E Abido, la città in cui il citato Fallot afferma di avere, per illuminazione, iniziato a “vedere”, e dunque a “pensare” (la città dalle cui profondità sono riemersi sia la tomba di Tera Neter, l'oscuro faraone predinastico che incarna il passaggio dalle perdute o rimosse radici etiopi alla civiltà egizia, sia i primi geroglifici, che anticipano di alcuni secoli la scrittura cuneiforme, e che oppongono la Montagna delle Tenebre e la Montagna del Sole, quasi a visualizzare un originario dualismo di chiarezza e oscurità, di vita e morte, mai sedato, anche se esorcizzato nella coincidentia oppositoroum, dal pensiero greco), rivela, attraverso lo scavo etimologico, la sua natura quasi foscoliana di luogo della sepoltura e insieme del ricordo e del rimpianto, della perdita e insieme della rievocazione, oltre a ricondurre ad un culto litolatrico, di venerazione delle rocce, che era ben radicato proprio nelle civiltà preistoriche sahariane.

L'ideofono ta/da (compatibile con sa per assibilazione) è legato all'idea della fondazione, della stabilità, della forza, del fondamento (così in Tellus, in Damater/Demeter – ma anche in Poseidon, originariamente divinità ctonia, incarnazione della fusione, o dell'originaria indistinzione, di acqua e terra) – e dama è, presso i Dogon (il popolo che più di ogni altro rispecchia l'originaria cultura africana, e che ispirò i capolavori antropologici di Griaule e di Leiris), danza iniziatica e cosmogonica, e insieme nekyia, descensus ad Inferos, rito di iniziazione, di simbolica morte-rinascita.

Ma forse, aggiungerei io, il nome egizio di Abido può essere etimologizzato in aba-djed, ovvero il proto-etimo universale (a)ba indicante la paternità, la matrice, l'origine, agglutinato a djed, la columna universi, lo scettro cosmico, la trave portante del tutto, l'axis mundi che congiunge cielo e terra. Fondamento della colonna, e/o colonna del fondamento; nodo primordiale, copula mundi.

Di tutto ciò (oltre che della comunione di vivi e morti, Athanatoi Thnetoi, Thnetoi Athanatoi, «immortali morti, morti immortali, che vivono la morte di quelli, che muoiono la vita di quelli», nelle parole enigmatiche di Eraclito) era forse sede e custodia la prima città sacra.

Ab è padre, ma anche allontanamento, distanza, separazione (greco apò, latino ab, da una stessa proto-radice): la stessa sfuggente, evanescente origine, la stessa spettrale sorgente, regrediente e dissolventesi ad infinitum, che tutti gli studi comparatistici cercano, in fondo, di ricomporre.

E (come intuì la cultura rinascimentale, dal Ficino al Tasso dei Dialoghi) i geroglifici rispecchiano proprio questa originaria unità nel loro fondere, avrebbe detto Pound, logopea, fanopea e idolopea, il valore iconico e quello fonosemantico, racchiudendo in modo assoluto un senso, o una molteplicità di sensi, da tempo perdutisi o frammentatisi nel nostro linguaggio strumentale, convenzionale, tecnicistico, lontanissimo dalle sorgenti, perso nel mare oscuro dell'”oblio dell'essere”.

Non per nulla, letteralmente, la superficie del mondo era “geroglifico” per Mallarmé come per Proust; e “geroglifico” da riportare alla luce e decifrare era, agli occhi di Freud, il subconscio.



(Matteo Veronesi)

mercoledì 20 ottobre 2010

MATTEO VERONESI, "MARZIALE SULLE RIVE DEL VATRENO"

Questa breve videopoesia (clicca qui per vederla ed ascoltarla, oppure qui) ricostruisce visionariamente, per immagini, lampi, frammenti, schegge di testi liberamente tradotte, l'anno che Marco Valerio Marziale (il Poeta Proibito, il Poeta Osceno per antonomasia, eppure capace, a tratti, di un lirismo commosso, sensibilissimo e delicato) trascorse a Forum Cornelii, odierna Imola (mentre Vaternus, o Vatrenus, era il nome dell'attuale fiume Santerno).

Le immagini, in continuo moto, vogliono rendere la mobile immobilità, l'immutabile divenire della poesia, che affida al tempo le tracce del vissuto. Se lo scorrere mite della superficie è immagine mobile-immobile della placida quiete della provincia (di un tempo remoto e più libero rispetto a quello, lasciato alle spalle, della seducente, infida e fuorviante Capitale, del Centro che attira e stordisce, che confonde e perverte), le profondità dei fondali evocano invece le tenebre, onnipresenti, e ovunque, nella stessa misura, eguali e diverse, degli Inferi, che donano però anche ai servi (di nome o di fatto, costretti da ceppi materiali o morali, in catene o all'apparenza liberi) l'unica libertà ultima, perenne ed irrevocabile.

E la videopoesia, com'io l'intendo, è sì, se si vuole, pastiche postmoderno, situazionistico détournement (non però vòlti alla deformazione sperimentale e avanguardistica) ma anche e soprattutto sublimazione, cristallizzazione, eternizzazione di immagini sottratte al loro contesto originario, peculiare e transitorio, ed elevate ad una sfera pura e perenne di archetipi (in termini platonici, le eikones, gli eidola si ricongiungono così, nell'intemporalità della memoria, con gli eide, con gli archetipi ideali, incorporei, perenni).

Attraverso il riuso delle immagini (la cui stessa intima vita è uno stream, un fluire, che nell'immagine del fiume rappresenta se stesso, e quasi implode, come una coscienza azzerata e messa fra parentesi, nel proprio cangiante autorispecchiamento), e la loro risignificazione e ricontestualizzazione, la loro redenzione (nel senso di Benjamin), la realtà (della quale, del resto, le immagini stesse, oggi reificate, cose fra le cose, quasi più vere della cosa stessa, o tali da assorbirla totalmente ed occultarla, come una maschera che aderisca inamovibilmente al viso, sono ormai a loro volta parte integrante), il mondo con la sua aria, le sue acque, i suoi alberi, il suo amore la sua vita la sua morte, possono forse riacquistare la loro autenticità, la loro luce e la loro tinta vergini ed aurorali.

Nell'era digitale, nell'epoca del montaggio e del riuso, nell'evo dell'informazione e dell'indiscrezione, della pornografia, dell'immagine artefatta e dell'oblio dell'essere, può forse essere l'Artificio, la Tecnica, la Téchne, a restituirci la Natura (la quale essa stessa, insegnavano gli antichi, a volte «opera come arte»).


Romam vade, liber: si veneris unde, requiret

Aemiliae dices de regione Viae


Vola, mio libro, a Roma; e se lei, l'Urbe,

ti chiederà donde tu venga, rispondi

che vieni dalle pianure

che vena la via Emilia.

E se ti chiederà in che terra io viva, in che città,

rispondi: nel Foro di Cornelio. E se poi ti domandi

perché io sia lontano, molto rivela con brevi parole:

Non poteva più sopportare la nausea

di essere un servo.


[Scorrono, nel frattempo, immagini mobili ed erranti della pianura padana, che reca ancora i segni della centuriazione, l'impronta della volontà geometrizzante che voleva dominare la materia informe del paesaggio, e che ora nuovamente dall'informe, dall'insignificanza dell'industrializzazione fine a se stessa che incide solchi profondi sul grembo della terra, sembra essere stata risucchiata e oscurata]


Cessatis pueri nihilque nostis,

Vaterno Rasinaque pigriores

quorum per vada tarda navigantes

lentos tinguitis ad celeuma remos.

At vos tam placidas vagi per undas

tuta luditis otium carina.


Vi abbandonate, fanciulli, senza pensare a nulla

placidi più del Vatreno e della Rasina

di cui navigando i lenti guadi

bagnate i morbidi remi con ritmo leggero.

Già suda Etone, reclino Fetonte,

ed è cenere il giorno, e ha staccato i cavalli il meriggio;

ma voi, erranti per le onde quiete

gioite del gioco, sulla barca sicura.

Veri marinai non vi credo,

voi molli al fluire del fato.


[Scorre, qui, nel fluire dell'immagine, da una vecchia pellicola otto millimetri, l'analogo fluire delle acque del Santerno: due flussi delle immagini e delle acque, del significante e del significato , resi però perennemente immobili, nel loro moto, dall'indefinibile e illimitata riproducibilità del filmato]


..... Et latet et lucet Phaetonte condita gutta...

.... ut videatur apis nectare clusa suo....


Giace e risplende, sepolta in fine ambra

un'ape, che del suo miele ha fatto tomba.

Ha avuto il premio delle sue fatiche:

così forse è voluta morire.


[Si scorgono, si intravedono, ora, fra l'opacità del buio e della polvere, le profondità subacquee, che custodiscono, più gelosamente di qualsiasi museo e di qualsiasi memoria, i resti del vivere e dell'abitare, le tracce del passato e dell'assenza. Esse sono perciò simbolo del descensus ad Inferos, abbraccio fatale di vita e morte, nutrimento ed abisso, protezione materna e deriva, senza più difese, verso l'ignoto. «A current under sea / Picked his bones in whispers. / As he rose and fell / He passed the stages of his age and youth / Entering whirpool» », dice Eliot: «Una corrente più fonda del mare / denudò sussurrando le sue ossa. / Affiorando e affondando attraversò / le stagioni dell'età e della giovinezza / sparendo nel gorgo». La profondità tortuosa delle acque è umida insidia della vita e della gioia, e insieme destino di annullamento; sintesi del perenne e del transitorio, fusione ed implosione di tutte le dimensioni del tempo e della memoria]


...Condita sic puro numerantur lilia vitro

sic prohibet tenuis gemma latere rosas...


Riluceva, tutta coperta dall'acque:

così si contano i gigli, debolmente difesi dal vetro,

così il sottile cristallo

non lascia che le rose si celino.

Mi tuffai, ed immerso nell'onde

colsi baci indecisi; voi, onde diafane,

un piacere più pieno mi negaste.


...Puella senibus dulcior mihi cycnis.....

...Nivesque primas liliumque non tactum.....


Bimba a me più melodiosa

dei cigni che si appressano alla morte

più preziosa delle prime nevi

e del giglio che nessuno ha mai sfiorato

e delle perle rapite ai fondali del mare Eritreo

lei che il destino fottuto ha strappato

prima che fosse finito il suo sesto inverno

Erotion ancora calda del suo rogo.


...... meque patronum

dixit ad infernas liber iturus aquas....


........ ma curai che lo schiavo

non scendesse in catene alle onde Stigie

mentre un cancro dannato lo bruciava,

e lui, malato, sciolsi da ogni vincolo.

Seppe, nell'agonia, del suo premio

e mi chiamò suo patrono, lui, prossimo

a scendere nelle acque dell'inferno.


Matteo Veronesi

sabato 16 ottobre 2010

INSTRUMENTA VOCALIA. ELEGIA PER VOCE E VISIONE




INSTRUMENTA VOCALIA

RAPSODIA PER VOCI E VISIONE



[Tre voci leggeranno, con un tono grave, cupo, ma insieme distaccato, o se si preferisce annoiato, ma in certo modo fatale, i passi che seguono, tratti da Varrone, Aristotele, Platone, Hegel, Seneca, Pindaro, Dante. Nel frattempo, scorreranno sullo schermo immagini – montate secondo la logica del détournement situazionista, e prelevate dalle fonti più diverse, filmiche o documentaristiche -, nell'ordine, di fabbriche, uffici, infine cadaveri]

VOCE A
Instrumenti genus vocale et semivocale et mutum........ Alcuni distinguono gli apparecchi in tre categorie, ovvero parlanti, semiparlanti e muti: i parlanti sono gli schiavi, i semiparlanti i buoi, i muti sono i veicoli. ...operarios parandos esse, qui laborem ferre possint..... Bisogna procurarsi della mano d`opera in grado di sopportare la fatica. Qui praesint esse oportere, qui litteris atque aliqua sint humanitate imbuti... Quelli, tra di loro, che sovrintendono al lavoro è necessario che possiedano almeno un pizzico di umanità e di sapere, che siano onesti e più anziani dei semplici braccianti. I caporioni vanno resi più zelanti conferendo loro gratifiche, e facendo sì che abbiano qualche briciola di patrimonio e, come mogli, delle compagne di servitù da cui abbiano figli; in tal modo essi finiscono per diventare più fedeli, e più saldamente vincolati. ....ut quibus quid gravius sit imperatum aut animadversum qui, consolando, eorum restituat voluntatem ac benevolentiam in dominum.... Gli schiavi diventano più diligenti nel lavoro quando li si tratti con maggiore generosità riguardo al cibo, al vestire, ai momenti di pausa dal lavoro, e con altri mezzi di questo genere, in modo che a quegli stessi cui venga imposto un lavoro o inflitta una punizione troppo grevi, tutto ciò, confortandoli, restauri la loro buona disposizione e l`attaccamento al capo.

VOCE B Un essere che per natura non appartiene a se stesso ma a un altro, pur essendo uomo, questo è per natura schiavo: e appartiene a un altro chi, pur essendo uomo, è oggetto di proprietà: e oggetto di proprietà è uno strumento ordinato all'azione e separato dalla sua umanità. Così pure nelle relazioni del maschio verso la femmina, l'uno è per natura superiore, l'altra inferiore, l'uno comanda, l'altra è comandata -
Anànke dè pròton .... àrchon dè kài archòmenon physei, dià tèn soterìan... ed è necessario che sia così fra gli uomini, per la loro salvezza.

VOCE A Pensa a uomini chiusi in una specie di caverna sotterranea, che abbia l'ingresso aperto alla luce per tutta la lunghezza dell'antro.... ......
Anthròpous .... ek pàidon òntas en desmòis...; essi vi stanno fin da bambini incatenati alle gambe e al collo, così da restare immobili e guardare solo in avanti, non potendo ruotare il capo per via della catena hòste ménein te autoùs eis te to prosthen monon oràn, kùklo de tàs kephalàs upò toù desmoù adynàtous periàghein.... . Dietro di loro, alta e lontana, brilla la luce di un fuoco, e tra il fuoco e i prigionieri corre una strada in salita, lungo la quale immagina che sia stato costruito un piccolo muro, come i paraventi sopra i quali i burattinai, celati al pubblico, mettono in scena i loro spettacoli. Se un prigioniero venisse liberato e costretto d'un tratto ad alzarsi, volgere il collo, camminare e guardare verso la luce, non farebbe ridere e non si direbbe di lui che torna dalla sua ascesa con gli occhi rovinati e che non vale neanche la pena di provare a salire? E non ucciderebbero chi tentasse di liberarli e di condurli su, se mai potessero averlo tra le mani e ucciderlo?

VOCE C Il signore è la potenza che domina l'essere, mentre questo essere è la potenza che pesa sull'altro individuo; così il signore ha sotto di sé questo altro individuo. Per tale mediazione, il rapporto immediato diviene al signore la pura negazione della cosa stessa, ossia il godimento: esaurire la cosa e acquietarsi nel godimento. Il signore che ha introdotto il servo tra la cosa e se stesso, raggiunge ed assapora la dipendenza della cosa, e puramente la gode; il lato dell'indipendenza della cosa egli lo abbandona al servo che la elabora.
Pòlemos pànton patèr, pànton basiléys.......

VOCE A
Pànton chremàton métron estìn anthropos? Misura di tutte le cose... sepolcro datore e dimora di vita ..... Mè phynai pànton phériston.... Quo non nata iacent..... Meglio è per l'uomo non essere nato....... .... nos qui morimur paululum cotidie..... ..... e non vedere la luce del sole.

[Qui inizieranno a scorrere tristi e dolci immagini di morti bambini. La recitazione si farà, via via, più risentita e più cupa, più ferale ed inflessibile, eppure impassibile, necessaria, come in un rito].

VOCE B È oscena la morte. La morte che muore con noi, che trascina perfino se stessa nel seno del niente... .....
an toti morimur nullaque pars manet nostri, cum profugo spiritus halitu immixtus nebulis cessit in aera.... Questo filo di fumo tu lo segui, e domani non sarà che un passaggio di nuvole (...) insieme a noi, giù fino in fondo all’abisso del tempo, leggero. (...)

quo cursu properat volvere saecula

astrorum dominus....

ut calidis fumus ab ignibus

vanescit


(...) Dopo la morte niente. È niente la morte: il traguardo che tagli sudato in affanno alla fine di un’ultima corsa. È il caos che ti vuole. Tu ascoltalo.... .....

post mortem nihil est ipsaque mors nihil,

......

tempus nos avidum devorat et chaos.

Ecco, disciogli in lui la paura, in lui - senza tempo - ogni vana speranza.

VOCE A
Philòphron Hesychìa, Dìkas O meghistòpoli thugàter boulàn te kài polémon échoisa klaìdas hypertàtas... O sapiente acquiescenza, figlia di Giustizia, tu che colmi le città di consigli e di guerre, e tieni in mano le supreme chiavi epàmeroi... Tì de tìs? Ti d'ou t's? skiàs ònar ànthropos... Effimeri.... Chi è uno? chi non è? Sogno o fantasma di breve ombra, l'uomo.

(.....)

Che voce avrai tu più, se vecchia scindi
da te la carne, che se fossi morto
anzi che tu lasciassi il `pappo' e 'l `dindi',

pria che passin mill'anni? ch'è più corto
spazio a l'etterno, ch'un muover di ciglia......

...

quaeris quo iaceas post obitum loco...

........



E ancora tu chiedi dopo dove sarai?

- quo non nata iacent -

Ma lo sai: dove sono le cose mai nate.



Matteo Veronesi