martedì 18 maggio 2010

ELISABETTA BRIZIO, "ARCHISINESTESIE PROUSTIANE"



“Divanetto emerso dal sogno fra le poltrone nuove e ben reali, seggioline rivestite di seta rosa, tappeto da gioco di broccato assurto alla dignità di persona dacché, come una persona, aveva un passato, una memoria, serbando nell’ombra fredda del salotto di quei Conti la tinta del sole preso attraverso le finestre di rue Montalivet (di cui conosceva l’ora non meno della stessa Madame Verdurin) e le porte a vetri di Douville dove l’avevano portato e da dove guardava per tutto il giorno, al di là del giardino fiorito, la profonda vallata della *** in attesa dell’ora in cui Cottard e il violinista si sarebbero accinti alla loro partita; mazzo di violette e di viole del pensiero a pastello, regalo di un grande artista amico, poi defunto, unico frammento sopravvissuto d’una vita scomparsa senza lasciare tracce, riassunto d’un grande talento e d’una lunga amicizia, ricordo del suo sguardo attento e dolce, della sua bella mano grassa e triste mentre dipingeva; ingombro, gradevole disordine dei regali dei fedeli, che ha seguito ovunque la padrona di casa e ha finito col prendere l’impronta e la fissità d’un tratto di carattere, d’una linea del destino; profusione dei mazzi di fiori, delle scatole di cioccolatini, dilatatasi sistematicamente, qui come laggiù, seguendo un’identica linea di fioritura: interpolazione curiosa degli oggetti singolari e superflui che sembrano appena usciti dalla scatola in cui sono stati offerti e continuano per tutta la vita ad essere ciò che erano all’inizio, regali di capodanno; tutti quegli oggetti, insomma, che è impossibile isolare gli uni dagli altri, ma che per Brichot, assiduo frequentatore, da sempre, delle feste dei Verdurin, avevano la patina, la morbidezza delle cose cui s’aggiunge, dotandole di una sorta di profondità, il loro “doppio” spirituale: tutto questo, sparpagliato, risuonava davanti a lui come una serie di tasti che risvegliavano nel suo cuore somiglianze amate, reminiscenze confuse, e – come, in una giornata di bel tempo, una cornice di sole sezionante l’atmosfera – ritagliavano, delimitavano, per entro il salotto attuale che punteggiavano qua e là, i mobili e i tappeti, si rincorrevano da un cuscino a un portafiori, da uno sgabello al respiro d’un profumo, da un tipo d’illuminazione a una predominanza di colori, scolpivano, evocavano, spiritualizzavano, facevano vivere una forma ch’era come la figura ideale, immanente alle loro successive dimore, del salotto dei Verdurin.” (Marcel Proust, Alla ricerca del tempo perduto, La Prigioniera, tr. it. di Giovanni Raboni, pp. 310-312).

È, questa, una di quelle frasi oceaniche (forse la più lunga della Recherche) in cui Proust, con la sua bergsoniana mémoire involontaire (involontaria nel suo spontaneo sorgere, eppure sorvegliata e consapevolmente e razionalmente invigilata nel suo precisarsi e nel suo prendere forma letteraria sulla pagina), sembrerebbe avvicinarsi alla scrittura automatica dei surrealisti, o al flusso di coscienza della narrativa modernista - eppure resta, in senso profondo, classico, e classicamente atteggiato, addirittura con qualcosa, nel periodare, della ciceroniana concinnitas. Classico, perché il suo procedere - la cui sospensione, la cui indecisione e fluttuazione quasi limbiche avevano, per Spitzer, qualcosa di mistico - è comunque regolato da euritmie, equilibri, armonie, persino (si ha come l'impressione, poi smentita dalle parti successive) da qualcosa di simile alla "legge dei cola crescenti" che tende a essere verificata in Cicerone: le frasi, perlopiù, si allungano man mano che ci si avvicina alla fine, che solitamente è risolutiva, illuminante, come liberatoria, in linea con i dettami della retorica classica, che raccomandava di numerose concludere, di chiudere armoniosamente.

In fondo, per Proust, lo specifico dell’arte è nello stile, ma in uno stile che si configuri come “visione”, laddove l’analogismo – che si sostanzia di analogie tra loro “confluenti” in una interazione spazio-temporale complessa e significativa - assume un ruolo predominante e dignità di norma suprema. Non per nulla, la grandiosa metafora baudelairiana e mallarmeana, ma poi, in chiave di più schematica riflessione linguistica anche wittgensteiniana, del “pianoforte delle parole”, su cui rapide si muovono le dita del pensiero e della conoscenza, è sottesa alla pagina sopra riportata.

Lo stile, per Proust, è un osmotico convergere di forma e contenuto, di una forma che non sia esterna o sovrapposta, ma condensata con i contenuti, una forma semantizzata, nella fattispecie, metaforizzante; e la metafora in Proust costituisce l’analogon retorico del mondo. Lo stile metaforico fissa rapporti interrelati in absentia e sottrae, dice Proust in Le temps retrouvé, le qualità comuni scórte tra due sensazioni “alle contingenze del tempo”. L’atto locutorio, nella scrittura letteraria, e nella Recherche in particolare, si trasforma in evento piuttosto che risolversi in un comune atto denotativo. In più luoghi Proust polemizza con poetiche che si attengono unicamente a intenzionalità mimetiche o, come egli specifica, “cinematografiche”, e in generale con tutti i limiti estetici del realismo, ambito dell’infedeltà della parola fedele.

Nella proustiana endiadi tempo-memoria il nesso analogico è l’equivalente scritturale della memoria involontaria, rispetto alla quale tuttavia fruisce del carattere di eternità dell’opera d’arte. L’analogia inizialmente è la forma elettiva del sentimento del tempo e del trattamento del tempo e solo successivamente acquisirà una funzione fondante. Nondimeno, Proust si inoltra nella Recherche perlopiù metonimicamente, altrimenti il racconto stenterebbe a procedere e sconfinerebbe nel deragliamento e nell’evanescenza diegetica senza quella imprescindibile concatenazione di ricordi che conservano una relazione di contiguità logico-materiale, in assenza della quale la storia – già di per sé labirintica, corpuscolare, nebulare, disseminativa pur nella sua unità - non sarebbe codificabile.

Se in un primo tempo il protagonista della Recherche associava prevalentemente ai paesaggi (Combray, Balbec) l’idea di una persistenza che si estendeva anche alle identità individuali, nel corso del racconto alle rievocazioni paesaggistiche sottentrano delineazioni di interni mondani che emblematizzano il ritmo metamorfico delle trasmigrazioni sociali e delle variazioni delle inclinazioni sessuali. Gli interni testimoniano il confluire della vita esteriore e di quella interiore, anche nell’ambito della specifica sfera umana, nel senso che spesso rivelano la soggettività naufragata nell’oggetto, nonché il carattere di chi ne ha usufruito. E seppure nell’accumulo qualificano la spoliazione condotta dal tempo.

Uscendo dal salotto definito “il teatro”, dove aveva appena terminato di ascoltare il Settimino di Vinteuil, il Narratore, nell’attraversare altre stanze, non può fare a meno di distinguere la presenza di alcuni mobili già visti alla Raspelière (un castello vicino a Balbec, affittato ai Verdurin) e di cogliere una certa familiarità tra l’atmosfera della casa Verdurin e quella del castello (“un’identità permanente”, dice il Narratore).

L’anziano professor Brichot mostra al Narratore il salotto dismesso che dava in rue de Montalivet: il Narratore intuisce che Brichot, più che dalle seduzioni dei nostalgici referti della retrospezione, era attratto dai ben più imperiosi codici extracontestuali, vale a dire dai segni del ruolo inconsapevole che aveva interpretato in quel luogo, dall’aura elegiaca della “parte irreale” della stanza, della quale, scrive Proust, “in un salotto come in tutte le cose, la parte esterna, attuale, controllabile da chiunque, non è che il prolungamento” (e non la spiegazione). Brichot sentiva nel richiamo delle cose e delle loro esalazioni l’incremento di valore aggiunto dalla componente introiettata, interiorizzata, ora “divenuta puramente morale”, che esiste ancora solo per chi di certi ambienti e della vita che ha contribuito a dar loro espressione ha avuto esperienza, e che è entrata a far parte di lui, morta al mondo esteriore ma non alla sua anima, e che tuttavia lui non può mostrare - ma che lo autorizza comunque a dire, senza ombra di snobismo, che gli altri mai potranno avere idea di come erano quelle cose - perché egli è l’unico ad avere il privilegio di vederla. Questo lato delle cose, dice Proust, può sopravvivere unicamente solo attraverso il nostro pensiero che ancora per qualche tempo potrà far vivere una tonalità di luci e di aromi ormai sommersa e irreversibile. Per tale ragione il salotto di rue Montalivet conserva per Brichot un fascino peculiare che il Narratore non può avvertire fino in fondo. L’unica cosa che gli è dato di percepire è un intenso e quasi allucinatorio senso di irrealtà nel vedere alcuni mobili della Raspelière, ora ricontestualizzati, replicare a tratti altre scene, uno straniamento unito all’impressione di star contemplando da un altro luogo quei “frammenti d’una realtà distrutta”.

Nella orchestrazione descrittiva (e le osservazioni si svolgono qui limitatamente all’interminabile frase proustiana eletta a pretesto per questa digressione) dell’affollamento oggettuale di uno spazio interno, enclave materiale e spirituale dove nulla sembrerebbe essere accessorio, assistiamo dapprima a una visione antropomorfica delle cose (il tappeto da gioco “è assurto alla dignità di persona”, il disegno a pastello è la reliquia “d’una vita scomparsa”) nell’enfatizzazione del loro spessore, nella misura in cui anch’esse hanno recitato una parte e hanno incorporato il tempo e la vita di chi le ha possedute, e trattengono ancora tratti soggettivi e segreti della persona cui appartengono o sono appartenute: gli oggetti sono concrezioni di tranche di tempo passato, i geroglifici di intere esistenze.

Autonomia ed eteronomia dell’oggetto paiono coesistere: gli oggetti qui adunati sono letterali e autosufficienti e insieme legati all’esistenza di chi ne ha fruito o usufruito, residuati esteriori di eventi trascorsi; costituiscono i paradigmatici relitti di una vita nei quali è trasfuso il complesso della memoria di ognuno. Sono muti ed eloquenti (e si può pensare al motivo crepuscolare, già del D’Annunzio paradisiaco, dell’anima che si specchia nelle cose, e che riflette la propria intima voce nel suo colloquio monologante), accidentali e necessari. Hanno anche una loro incontestabile astanza (pur obsolescenti, sono nel presente, e alcuni di loro ancora conservano caratteristiche usufruibili), sillabata all’inizio dalla ricorsività della enumerazione.

La solitudine delle cose, seppure, come noi, deperibili e soggette a consunzione, non è adottata a evocarne il degrado, in un primo momento si traduce in una dimensione di attesa che si effonde intorno, di sospensione in una temporalità senza nome. Ma questo stato quasi reclusorio non è detto che sia irrevocabile; polvere, silenzio, in una Stimmung di ristagnante e vagamente sensuale rilassatezza, potrebbero animarsi di altra vita, o di altra morte, analogamente alle metamorfosi degli individui nel vaglio oggettivo del tempo dissolutore. C’è una dialettica tra solitudine e mondanità in cui le cose rivivono. Se gli oggetti incorporano la nostra esistenza (anche sotto il profilo della vita sociale) e ci fanno sentire rapporti che oltrepassano la sfera contingente, restano nondimeno quello che sono: sono a un tempo emozionalmente connotati e indifferenti, fanno parte della nostra anima e sono lì allo stesso posto, fisicamente presenti, figure testamentarie, quasi per ossimoro, del nostro tempo perduto. È l’inattualità sommersa delle cose in attesa di rivivere con l’episodio “fortuito e inevitabile”.

Proust stila un catalogo di oggetti attraverso una accumulazione per asindeto, che isolatamente, in assenza di attribuzioni verbali, declina in elencazione ellittica, laddove gli oggetti vengono di conseguenza oberati di valenze simboliche; con l’enumerazione viene inoltre oggettivato il senso della ambigua sedimentazione delle cose nel tempo. Tale progressione elencatoria segue un andamento intensivo (che lungo il testo vediamo cambiare di tono e di segno) fino all’anticlimax delle parole di chiusura. La scansione percussiva pare vettorizzata allo sconfinamento in una analogia omnicomprensiva: l’enumerazione dilata l’orizzonte vigente degli oggetti istituendo una evoluzione quasi gerarchica tra gli elementi della rappresentazione, fino ad attualizzarsi in una sorta di archisinestesia. Alcune sinestesie settoriali sussistono solo in relazione a una metafora sinestetica originaria, luogo di convergenza che tutte le comprende e le significa. La complessa sinestesia (per estensione, nell’interagenza analogica e correlativa della cosa materiale - ascrivibile ai differenti ambiti sensoriali, letteralmente, “percepiti insieme” - con le risonanze spirituali) tattile (“morbidezza”), auditiva (“risuonava”), visiva (l’intera descrizione), olfattiva (“cioccolatini”, “profumo”) sembra risalire alla sfera interiore delle reminiscenze, delle corrispondenze significanti che alchemicamente trascorrono da un oggetto all’altro evocando, spiritualizzando e ricomponendo gli elementi disseminati ed eccentrici, in un riannodamento al “loro ‘doppio’ spirituale”. Affiora, qui, quel latente platonismo memoriale, quella fascinazione e quella gnoseologia della anamnesis che è di Platone come di Vico, di Bergson come di Ungaretti. E si potrebbe anche azzardare il riferimento alla qualità gestaltica della rappresentazione, per l'idea delle sensazioni, delle percezioni degli oggetti che si sommano in una totalità che non è la somma delle parti, ma qualcosa di ulteriore, perché all'insieme si aggiunge la luce infusa dallo sguardo del soggetto che finanche nelle dissonanze percepisce e organizza.

Per via della affinità dei propri vincoli spirituali le cose lungo il testo perdono in materialità e in opacità trasmutando in una modulazione che soppianta la scansione della prospettiva elencatoria. Gli oggetti della stanza pervengono a intrattenere rapporti all’unisono tra loro, statuiscono un continuum teoricamente reiterabile, dice Proust, anche “in successive dimore”, un insieme sinestetico nel molteplice intreccio delle analogie di cui inverano l’evocazione; e soprattutto gli oggetti acquistano la facoltà di istituire e di perpetrare una forma: l’ideale invariante del salotto dei Verdurin. Una compagine contigua: come la durata stabilisce la continuità degli istanti, così le qualità degli oggetti trapassano le une nelle altre alla maniera in cui, nella durata, fluiscono i momenti che non più si susseguono. La strutturazione analogica che azzera ogni distanza decreta la temporalizzazione dello spazio, nella duplice prospettiva che le cose rivelano la loro intrinseca consistenza temporale e nella configurazione della durata, in cui momenti isolati e sequenze finiscono per annullarsi nell’insieme diveniente. Allora l’elencazione di cui si diceva si diluisce con il dissolvimento del dettaglio nell’insieme, sfaldandosi nell’ininterrotto fluire dei vincoli analogici delle qualità degli oggetti, un dispiegarsi che alla fine del lunghissimo periodo si risolve nella assimilazione delle oscillazioni temporali. E non casuale è il pur fugacissimo riferimento alla melodia, riflesso emblematico della recente e fondante esperienza estetica del Narratore in seguito all’ascolto del Settimino di Vinteuil, summa di analogie e adombramento profetico dell’esistenza “dell’individuale” e della necessità dell’arte, fino alle proustiane considerazioni, decisive e predestinanti: “se l’arte non era davvero che un prolungamento della vita, valeva la pena di sacrificarle qualcosa? Non era, l’arte, irreale quanto la vita stessa? Ascoltando meglio quel Settimino, non mi era possibile pensarlo”.

La musica ha che fare con il tempo e, come il tempo, non esaurisce il proprio corso e il proprio scorrimento. Differisce dalla vita per la circostanza che solo alla fine perviene a una soddisfazione, a un riconoscimento, come d’altra parte accade nella Recherche, in cui incessantemente apprendiamo a posteriori acquisizioni e rivelazioni del Narratore, nelle quali il suo passato viene sempre più deprivato del proprio carattere di estraneità. L’arte, in tal senso, è un territorio attiguo alla vita giacché solo tardivamente ci permette di rientrarvi con consapevolezza attraverso un processo di identificazione che risarcisce l’individuo oltre la lettera.

Nessun alone metafisico viene versato nel fisico nell’oggettivismo di Proust, perlomeno nella prospettiva poetica dell’oggetto-emblema; né l’oggetto è un correlato che contempla il transfert di un contenuto emozionale soggettivo, pretestuosamente adottato quale incarnazione materiale e formula di uno status interiore, in una identità nella quale soggetto e oggetto sembrano spartire lo stesso destino. E neppure gli oggetti costituiscono un rifugio dello spirito: il passato non è cristallizzato nell’oggetto – piuttosto rivive in esso dinamicamente, in epifanica attesa di decrittazione -, il quale in tal caso si configurerebbe come stigma di una difficoltà a vivere il presente. L’oggettivismo proustiano pare lontanissimo dall’essere allusivo di una desertificazione o della possibilità stessa della soggettività.

Seppure le cose siano sature di contenuto soggettivo, in Proust non prevale l’esigenza di un distanziamento dal presente ma la volontà di interrogarle in vista di una spiegazione del senso e del valore della nostra esperienza nel tempo. Ma i segni che rinviano ai loro equivalenti spirituali, dice Proust, non siamo liberi di sceglierli. La letteratura non è una professione di sconfitta, né luogo di argomentazioni assertive e definitorie quanto un tentativo di comprensione e di risalimento al vero significato – delle cose, del proprio tempo, di sé stessi. “Essa soltanto – scrive Proust in Le temps retrouvé – esprime agli altri e mostra a noi stessi la nostra propria vita, la vita che non si può ‘osservare’”. Solo attraverso l’analogismo e una disposizione associativa emergono parallelismi ed equivalenze – genetici, non formali - tra le cose e gli eventi, e l’analogia è eminentemente “costituzionale”, ha cioè la caratteristica di andare oltre la somiglianza e l’aspetto simbologico, e detiene quindi la facoltà di dare una forma, di oggettivare ciò che è qualitativamente invisibile, istituendo un’altra res. Gli elementi dell’accostamento analogico, logicamente inavvicinabili, non conservano affinità alcuna con l’ordine originario dei significati, e come tali “scolpiscono”, scrive Proust nelle righe conclusive della frase: con l’opera, l’autore traduce in realtà una presenza nuova mentre interpreta i segni della propria vita.

Proust condivide la ragionevolezza della “credenza celtica secondo la quale le anime di coloro che abbiamo perduto sono imprigionate in qualche essere inferiore, un animale, un vegetale, un oggetto inanimato, perdute davvero per noi fino al giorno, che per molti non arriva mai, nel quale ci troviamo a passare accanto a un albero o a entrare in possesso dell’oggetto che ne costituisce la prigione. Esse allora sussultano, ci chiamano e non appena le abbiamo riconosciute, l’incantesimo si spezza. Liberate da noi, hanno vinto la morte e tornano a vivere con noi. (…). Quest’oggetto, vuole il caso che lo incontriamo prima di morire o che non lo incontriamo.” (Du côté de chez Swann). Ma di queste cose non riusciremo a decrittare l’annuncio finché saranno alonate da quella opacità consustanziale all’abitudine che ci preclude – facendo a noi smarrire il senso dei segnali laterali - ogni autentica consapevolezza, e che, scrive Proust, “alle cose da noi viste più volte, strappa la radice di profonda impressione e intuizione che ce ne dà il significato reale” (Le temps retrouvé).

L’abitudine, diceva Beckett a proposito di Proust, è la vita stessa, vale a dire un avvicendamento di abitudini alla maniera che un individuo è un succedersi eracliteo di individui. Abitudine è incolumità, difesa e anestetico all’abisso spirituale, perché delle cose ci fa solo elusivamente esperire i tratti a noi familiari, non il loro lato d’ombra che comporterebbe l’emersione del perturbante e della vertigine come conseguenza. Ma se essa ci protegge garantendoci una certa immunità, ci costringe anche a stazionare nell’increspatura delle cose, sanzionando la nostra estraneità, dice Beckett, al “mistero di un cielo o di una stanza”. In altre parole, la non ancora aggettivabile vita - ignara e rassicurante, pre-morale e omissoria - sulla scia dell’abitudine equivale a una forma di sopravvivenza senza felicità. Solo attraverso uno scarto da essa riusciremo ad avere una cognizione delle cose, giacché ciò che ci è troppo familiare rischia paradossalmente di rivelarsi indefinibile: ogni ulteriorità dimora nella nostra esperienza, sembrerebbe dirci Proust.



Elisabetta Brizio

venerdì 7 maggio 2010

SOGNO FATTO IN PRESENZA DELLA RAGIONE (VERSI DA UN ALTRO MONDO)




Antonio Canova, monumento funebre di Vittorio Alfieri, Firenze, Santa Croce (foto di Elisabetta Brizio)



SOGNO FATTO IN PRESENZA DELLA RAGIONE (VERSI DA UN ALTRO MONDO)



a Elisabetta Brizio


Ero una bambina del Settecento e conoscevo Newton
e la postulata infinità dello spazio-tempo inerziale;
camminavo fra lontananze arcadiche,
senz'anima, nel tenero smeraldo
dell'erba, in riva al fiume antico
che orlava la città come un diadema
e ora è sepolto (ma scorre
ancora, anche non visto, ignaro
del tempo e degli sguardi).

Entravo poi nella città dei morti
dai grandi marmi - ero piccola
come una formica, potevo cadere
fra una lastra e l'altra come in un abisso;
mi insinuavo nei loculi e una blatta
era una bestia del cretaceo, un cadavere immenso
lontano oscuro era un fetido dio.

E cercavo di uscire, vanamente -
inseguivo me stessa come in un labirinto -
poi varcai per un soffio un'immensa porta vitrea.

"Di giusto voler lo suo si face"
cantava sapiente, infinita, una voce.

E tutto era di nuovo puro e limpido
come al principio.