domenica 20 marzo 2011

Versi di Giselda Pontesilli per un nuovo umanesimo



Ho il piacere di presentare alcuni versi di Giselda Pontesilli, i quali, con uno stile melodioso e insieme colloquiale, profondamente triestino, e in un'ottica memore del grande umanesimo italiano di matrice petrarchesca, tratteggiano l'utopia, in questi tempi un poco grigi, di un possibile nuovo umanesimo, di una humanitas intesa come spazio cordiale e civile di dialogo e di pacato confronto, di tiepida, serena e rinfrancante dimestichezza.
Questo sentimento fondamentale e unificante accomuna e fonde le tre sezioni, apparentemente eterogenee, del testo: una dimensione di identità e di appartenenza che può essere rinvenuta nel dialetto triestino (lingua d'adozione, eppure lingua del cuore, dell'umanità e del comune sentire) o nei luoghi ancora vivi dell'infanzia così come, con eguale intensità, ma su scala più vasta e remota, nell'eredità culturale petrarchesca: humanitas, dunque, nelle sue sfaccettature e sfumature più diverse, dalla soggettività esistenziale fino alla più nobile e impegnativa matrice culturale.


I


Ci si ricrea ancora qui in Italia

grazie a conforti minimi, ma umani

non si può stare senza stare ora

qualche volta

come una volta

era naturale:

in modo, come dire! colloquiale

ma lo possono fare

solo persone rare, ora,

provate, eredi delicate

delle tante ricchezze

del passato: di chi è stato

cioè umanamente risplendente

e ora è,

e è ricordato.


Ho constatato questo

anche recentemente,

a Roma, giorni fa,

dove anni fa c’era sempre un conforto

normale, naturale nel negozio

mio di mio padre, che è chiuso ora,

e invece c’è ancora

perché qualche persona

che veniva allora al negozio

ci viene, come dire! anche ora:

qualche signora ora viene a stare

a casa, da mia madre,

dopo pranzo, o prima, o la mattina

prima di andare al forno, o in chiesa,

o al mercato.


E se io torno qui qualche giorno

è bello per me, è essenziale

trovare queste signore

a parlare, sentirmi

riconoscere, salutare,

chiamare, umanamente,

per nome.


II


Dice Petrarca: “Questo nostro tempo

mi è sempre dispiaciuto”.

“Giovani” –dico- “giovani

intelligenti d’Italia:

non dispiace anche a noi, il nostro tempo?


- dunque in questo, siamo come Petrarca,

senza ancora saperlo?


E sappiamolo! ora, prendiamo esempio

dal suo cercare amici tra gli antichi:

amici vivi, antichi

di due tipi: classici e medievali,

ma è un solo tipo, in fondo,

ce ne rendiamo conto con Petrarca

che li ha uniti,

come prima di lui li unì Agostino,

come li uniamo noi, oggi,

ci uniamo!


E solleviamo! questo nostro tempo

che ci dispiace tanto!


perché è capace! un giovane, di stare:

- come è stato Petrarca, come Agostino -

se ha un amico vicino:

e un solo amico! con lui –pochi


ma che pensino ora, fiduciosi


a Valchiusa, in Brianza, ad Arquà

si rifà in pochi, in due, l’unità:

noi

con Petrarca –e Agostino

-e gli antichi”.


E quando è, una cosa

non c’è cosa che le resista

quando è una ad Arquà

vola in Europa

e solleva riposa.


III


Oggi ho parlato, per la prima volta,

dialetto triestino:

come lo parlano tra loro i professori,

al liceo dove insegno

e la preside anche, familiarmente,

come lo parla la gente nei negozi

o per strada, e proprio adesso –li sento-

operai

sul tetto di questa casa,

e anche Elisa lo parla, la mia vicina

con l’architetto Cervi al quarto piano,

così anch’io l’ho parlato, finalmente:

spontaneamente, senza farci caso

ma guarda caso

con nessuno di loro mi è riuscito

solo con uno, solo, con uno solo

d’un tratto, ho parlato:

con un uomo all’antica, molto anziano


che sta seduto muto, smemorato

in un suo negozietto

piccolissimo, spoglio,

dove nessun cliente ho mai trovato

io l’ho trovato

perché devo e amo

camminare in salita

è necessario è salutare andare

per me, oggi e ogni giorno,

in questa strada ripida verso San Giusto

dove c’è il suo negozio

e correre, quando arrivo in cima,

lungo viale della Rimembranza,

ogni giorno di più, più facilmente,

per poi fermarmi a lungo a guardare

una lapide bianca, speciale

in cui tra tanti nomi io distinguo

tutti


con quello di Scipio Slataper.

mercoledì 2 marzo 2011

UN AMORE NELLO SPECCHIO DELLA LETTERATURA: GUIDO GOZZANO E AMALIA GUGLIELMINETTI



(ritratto di Marco Reviglione)



Riproduco, per iniziativa e con la collaborazione di
Elisabetta Brizio, una lettera
di Guido Gozzano ad Amalia Guglielminetti,
che del poeta dei Colloqui fu amante
sfuggente, confidente finissima, in certa
misura (malgrado l'estetismo dannunziano
da cui ella, a differenza dell'amico, non
seppe mai svincolarsi del tutto) compartecipe
di un destino letterario.

Destino non solo intriso di letteratura, ma
addirittura in essa quasi integralmente
risolto, compiuto, dissolto, riflesso anche
dalle missive (esse stesse squisitamente
letterarie ed estetizzanti, ricolme di
reticenze, allusioni, ammiccamenti,
incompiuti e tronchi aneliti, tracce
vibranti eppure opache di un desiderio
affidato alla parola e alla carta nella
misura in cui, quasi lucrezianamente, non
poteva trovare pieno appagamento
nell'intreccio delle membra, nell'unione
dei respiri), le quali, quasi come in un
carteggio umanistico, non sanno mai scindere
l'autenticità (se mai vi fu) del sentimento
dalla finzione, dalla stilizzazione,
dall'infingimento, dalla posa artistica.

Si coglie l'occasione per riportare alcune
liriche della Guglielminetti, alla quale
non ha certo giovato l'etichetta di dannunziana
estetizzante, e che si rivela invece,
ad una lettura attenta e immune da preconcetti,
voce di rilievo nel panorama dell'estetismo
e del simbolismo italiani, capace
di concettualizzare e stilizzare
con notevole lucidità, nella lirica
omonima, il “silenzio”, la reticenza,
l'indicibile, il muto e raffinatissimo
velo della censura psichica, che
fascinosamente e torbidamente avvolgevano
pulsioni irrisolte, e per l'epoca
inconfessabili a chiare lettere.

In pari tempo, la fantasmagoria di gemme,
gigli, perle, veli e guanti filigranati,
il mormorio ombroso di mute armonie,
preghiere sussurrate, segreti auspici,
l'intrico ingegnoso e quasi mai goffo
delle analogie e delle metafore, gli audaci
desideri non detti, ma ancor più intensi,
amplificati, nell'indiretta e remota
evocazione, rivelano una frequentazione
non banale, e abilmente dissimulata nel
gioco allusivo, della moderna
poesia francese, da Baudelaire a Mallarmé.
(M. V.)





GUIDO GOZZANO AD AMALIA GUGLIELMINETTI


Vi siete mai domandata ciò che succederebbe se io non
dovessi esiliarmi? Io sì. Succederebbe più o meno questo.

Un giorno, un bel giorno, io sarei a casa vostra,
nel vostro salotto, con Voi.
Sarebbe un crepuscolo, un crepuscolo
della prima primavera, in febbraio, mettiamo.
Da molte ore io sarei con Voi; avremmo
parlato molto, avremmo esaurito ogni
pretesto non volgare di conversazione. Da qualche
istante si tacerebbe. L'ombra si
farebbe più densa. Voi vi alzereste per
accendere il lume. Io vi pregherei di no,
vi tratterrei seduta col gesto. Si farebbe
notte, più notte, nel quadrato della
finestra, rabescato dalle cortine, il
vostro profilo apparirebbe appena.
Solo a tratti, l'asta scintillante
d'un carrozzone elettrico illuminerebbe la
penombra per un secondo. E in quel
secondo il vostro volto apparirebbe e
scomparirebbe come una visione non sostenibile.
Allora io, che avrei le vostre mani
nelle mie mani, crederei di sognare, e
inconscio irresponsabile come in un
sogno, mi chinerei sulle vostre dita,
salirei lungo le falangi con le labbra, fino
a mordervi le vene del polso. Voi mi
sollevereste la fronte, dicendomi con rampogna
indulgente: Siamo savi!
Ma, per un evento sciagurato, il mio
volto sollevandosi si troverebbe all'altezza
della vostra spalla; io, nell'ombra,
non me ne accorgerei: e credendo di
abbandonare la guancia contro la
spalliera del divano, incontrerei
invece la mollezza d'una trina o il gelo
d'una catenella. Istintivamente, sempre come
in sogno, la mia bocca si troverebbe
dietro il vostro orecchio, alla radice dei
capelli fini, e vi morderei alla nuca
(il morso è il mio vizio preferito).
Allora voi vi alzereste di scatto, accendereste
il lume: e due cose potrebbero
accadere. O mi fareste accomiatare dalla
vostra donna, come nelle commedie,
col tradizionale “accompagna il Signore”.
E resterei male.
O mi perdonereste dopo lunghe condizioni.
E resterei male, ugualmente.


(12 novembre 1907)



POESIE DI AMALIA


L'ANTICO PIANTO

Quindi prosegua per cammini ombrosi,
a fior di labbro modulando un canto
che per me l'altra notte mi composi.

Poiché talor non piango io il mio pianto,
lo canto, e qualche mia triste canzone
fu come il sangue del mio cuore infranto.

Tempo fu che le mie forze più buone
stremai in canti a' piedi d'un Signore
che m'arse di ben vana passione.

Io piangevo così note d'amore,
come la cieca in sul quadrivio, volta
al sole, canta il suo buio dolore

e non s'avvede che nessun l'ascolta.


AL MARE

Al mare getta un dì sogni ed amori
come l'altra sua amante solitaria
gli getta fra due nubi fiori ed ori.

E ride con la sua anima varia,
mentre le spume in favolosi aprili
fioriscon gigli fatti d'acqua e d'aria.

Ella getta nel mar tutti i monili
dei quali, per piacere a sé, si para
la stoltezza dei cuori giovanili.

E ride ancora, ma con bocca amara.
Sul bene ch'ella non possiede più -
sembran le spume i fiori d'una bara

e un poco di sé stessa è ormai laggiù.


UN ADDIO

Folle è lasciarci, tutti accesi ancora
di desiderio, ancor pronti a godere
di tutto ciò che l'un dell'altro ignora.

La volontà che tiene prigioniere
le nostre giovinezze le flagella,
per farle in solitudine tacere.

Ma più le volge incitatrice a quella
gioia non mai gioita, che la morte
pur ci farebbe nel suo riso bella.

Più dolce sorte è la comune sorte :
darsi con umiltà l'un l'altro, ciechi.
Abbandonarsi al vortice più forte

e dirsi dopo un breve addio, senz'echi.


SILENZIO

Ogni pensosa vergine si cinge
del suo silenzio, come d'un velario,
e d'ombre un ondeggiar tenue e vario
con fantasia sottile vi dipinge.

O vi s'impietra, irrigidita sfinge
in muto enigma. O al suo cuor solitario
ne tesse inviolabile sudario,
fra aromati d'oblio ve lo costringe.

Grave è il sudario del silenzio, e il cuore
che vi si avvolge desiosamente
più non si desta da quel suo sopore.

Pur, se a scoprirlo, con ben caute dita,
ella s'attenti, ancor vede il dormente
gemere sangue dalla sua ferita.