venerdì 29 luglio 2011

Giselda Pontesilli, "LA COMPETENZA DEI POETI"

Il ruolo dei poeti, diceva Pound, se ve n'è uno, consiste non già nel celebrare le magnifiche sorti del progresso, del potere, della rivoluzione o viceversa dell'ordine costituito, bensì nel "tenere in efficienza il linguaggio" - dare, diceva Mallarmé prima di lui, e ripeteva Eliot nei Four Quartets, "un senso più puro alle parole della tribù", rendere più trasparente e preciso il linguaggio, nato in origine dall'uso quotidiano e dall'ordinaria necessità, e che potrebbe o dovrebbe essere indirettamente restituito dalla letteratura (pensiamo a Dante e a Manzoni) all'uso vivo.

Il poeta può agire, agisce, sul linguaggio (in primo luogo, ovviamente, quello quasi fatalmente elitario della poesia, ma mediatamente, forse, anche quello di tutti, della società, della vita civile, dell'agorà - come il ghennàios poietés, il poeta "potente" e "fecondo", auspicato da Aristofane) e attraverso di esso, forse più presso la posterità che nell'immediato, sulla collettività, ritrovando il suo ruolo civile, politico nel senso più alto, senza uscire dal linguaggio stesso, che è e resta il suo regno specifico, vitale e autonomo.

In questa direzione vanno le pagine di Giselda Pontesilli che qui pubblico, e nelle quali si sentono ancora palpitare lo spirito, il respiro, l'appassionato fervore intellettuale, di "Braci", la celebre rivista romana. (M. V.)


LA COMPETENZA DEI POETI


La società, oggi {dico -“società”:

per indicare (con Tönnies) il materiale, fisico coesistere di uomini separati, estraniati dai propri simili, per i quali i rapporti con gli altri sono in effetti moralmente vuoti e psicologicamente imbarazzanti, per i quali non esiste alcun impegno reale, vitale con gli altri, alcuna comunicazione o volontà comune, se non in virtù della finzione dello scambio;

poi dico, -“oggi”:

per indicare la fase in cui questo modo di essere, di convivere totalitariamente appare, mentre, in altre fasi, appare, non ancora del tutto inghiottita dallo Stato (e poi annientata dal Mercato), la “comunità”, cioè la coesione tra gli uomini basata su rapporti personali vitali, costanti, concreti (che danno significato e stabilità all'esistenza), su legami sentimentali e valori profondi quanto inconsapevoli (vicinanza, pietà, amicizia, parentela, rispetto, autorità, lealtà...).


Il nome “società” indica contratti: società di profitti, di servizi, di viaggi, di capitali, del benessere, dell'informazione, della comunicazione, dei consumi....


Il nome “comunità”, invece, indica consonanze:

comunità di lingua, di costume, di fede, di sentire, di idee, di intenti, di valori, di vita....


Non si può dire, al posto di “comunità di vita”, “società di vita” (stona, suona male);

né, al posto di “cattiva società”, “cattiva comunità”;

né “comunità per azioni” invece che: “società per azioni”;

né “società di intenti” al posto di: “comunità di intenti”;

infatti, fare ciò è contrario al senso della lingua, è una contraddizione in termini.

Ecco perché io dico qui: “la società, oggi” e non posso dire: “la comunità, oggi”}.


Dunque, riprendendo:


La società, oggi, esige -chi non lo sa!- divisione del lavoro, utile scambio, o mercato, di specializzazioni, competenze;

vorrei illustrare perciò una precisa -preziosa- specializzazione, una insostituibile competenza: quella dei poeti.

I poeti sono coloro che compongono opere in cui la lingua è insieme sostanza e mezzo;

essi, dunque, sono i conoscitori, i professionisti della lingua e con questa loro competenza sono indispensabili, oggi, alla società.

La società, infatti, coerentemente col suo modo di essere (cioè, come s'è detto, aggregato di individui isolati, astratti, concepiti a immagine del moderno “uomo economico”, ammassati da vincoli di natura utilitaria) usa la lingua, come tutto il resto, in modo illimitatamente manipolatorio, strumentale, per scambiare (cioè, in effetti, vendere e comprare) informazioni.

L'informazione è fondamentale per la società, è il surrogato di ogni reale rapporto tra gli uomini, è ciò che, sebbene siano passivi e distanti, li fa sentire, in qualche modo, partecipi, attivi.

Come una volta ci si riuniva realmente in piazza, o in chiesa, o in casa, per fare insieme varie cose concrete, necessarie alla vita, reali, così oggi ci si riunisce -chi non lo fa!- virtualmente davanti al televisore, o ai vari mezzi di comunicazione -informazione- di massa.


Il problema è che queste informazioni non informano affatto, anzi confondono, e isolano -se possibile- ancora di più, perché sono contrarie, come subito sanno i poeti, al senso della lingua, sono contraddizioni in termini.

Per esempio ne cito tre, analoghe, dello stesso tipo:

1ª) “Sul corpo sono state rilevate tracce di due diversi DNA, uno maschile, l'altro femminile; prende corpo perciò un'ipotesi suggestiva, che può portare le indagini a una svolta”.

I poeti dicono: “NO, non si può dire, in questo caso, “suggestivo”!

Suggestivo” è un paesaggio, un quadro, una melodia!

Suggestivo” vuol dire affascinante, emozionante, incantevole!

L'ipotesi che i criminali, gli assassini siano due, e uno dei due sia donna, non si può certo dire incantevole, affascinante.

Sarà piuttosto tremenda, estremamente grave, raccapriciante”.


2ª) “E' una figura eminente della mafia, a lui si deve il salto di qualità dell'organizzazione.

I poeti dicono: “NO, “eminente” vuol dire eccelso, eccellente, elevato.

Vuol dire che si distingue, che è superiore per meriti, dignità, virtù;

ma un mafioso non può dirsi virtuoso, elevato, e con lui la mafia non può fare un “salto di qualità”, perché “qualità” riferito a uomini, persone, vuol dire attributo o proprietà morale o spirituale, che caratterizza e definisce una persona e permette di darne un giudizio o una valutazione.

Perciò, “salto di qualità” vuol dire: miglioramento, risultato (di uno sforzo, di un impegno) bello, evidente, che, per così dire, risplende a un tratto come per un salto, uno slancio.

Ma tutto questo non si confà alla criminalità, alla mafia.

Sarà invece ovvio parlare, in tal caso, di peggioramento, imbarbarimento, efferatezza.

3ª) “L'omicida è stato immortalato da una telecamera nascosta”.

I poeti dicono: “NO, “immortalare” vuol dire “rendere eterna la memoria di qualcosa di degno”, oppure “di chi è degno”, non si “immortala” un omicida, casomai lo si inchioda alle proprie responsabilità, lo si condanna incontestabilmente.


Oltre a questi -per così dire- singoli nomi – gravemente fuorvianti, inappropriati (“suggestivo” al posto di “raccapricciante”, “eminente” al posto di “efferato”, “immortalato” al posto di “condannato” ecc...ecc...), ci sono intere proposizioni dell'informazione televisiva altrettanto fuorvianti e sbagliate (riguardanti spesso le cause dei vari avvenimenti).

Oltre alle intere proposizioni, ci sono i contesti -sbagliati, disorientanti- in cui le proposizioni sono inserite.

Oltre ai contesti sbagliati, ci sono i rapporti arbitrari, contraddittori tra nomi, frasi, discorsi e immagini, per cui, ad esempio, ciò che, sia pure ambiguamente, maldestramente le frasi e le parole parrebbero denunciare o sostenere, le immagini di fatto, in vario modo, rinnegano, smentiscono.


Solo i poeti sanno alla perfezione tutto questo, tutto ciò che nella lingua è giusto o sbagliato, e dunque devono -loro per primi- rendersi conto di essere necessari, indispensabili alla società, di essere obbligati a lavorare, fiduciosi, uniti, per studiare e spiegare a tutti la questione odierna della lingua, cioè la questione della lingua come essa oggi ci impone di fare: per correggere, per cambiare.

Come Petrarca, sollevando -solo con pochi amici- tempi disumanizzanti e disumani, varò un rinnovato, ontologico, umanesimo, così anche i poeti, oggi, devono fare.

Questo, devono fare.


Ma, appunto, questo nuovo, ontologico umanesimo, non si può fare abbandonando gli uomini alla “lingua” dell'informazione di massa, alla “società di massa”, (società che -scrive Asor Rosa su Repubblica il 19 luglio- “divora e consuma il linguaggio, lo appiattisce e omogeneizza, da un certo momento in poi addirittura lo pianifica”); infatti, che umanesimo è, se abbandona gli uomini, se li considera materia informe, massa?

Eppure, è proprio questo abbandono, questo distacco tra poesia e “società di massa” che Asor Rosa sembra propugnare nel suddetto suo scritto del 19 luglio scorso: perché -egli dice- “la poesia non è cosa da società di massa”; “la società di massa non ama, non può amare la poesia”.

E dunque -conclude- se ne stiano lontani, i poeti, da tale barbarie e pensino, umanisticamente, a “coltivare, approfondire, penetrare anche nei suoi lati più oscuri e perciò conservare il linguaggio”.

Certamente, Asor Rosa parte da un presupposto ovvio, scontato, e cioè che i poeti

siano inermi, ininfluenti di fronte alla Forza, all'Autocrazia economico-mediatica, all' “Amministrazione ideologica e tecnologica dell'Apparato” -come la definisce il filosofo Emanuele Severino.

Ma invece a mio modesto avviso, proprio in questo momento, i poeti, tutti gli uomini possono pensare, capire, cambiare.


La televisione non è il nostro destino ineluttabile, fatale, così come non lo sono l'illimitata, apocalittica manipolazione della natura e dell'uomo, il macchinismo, la bomba nucleare.


E ci sono, di questa coscienza, svariati esempi, comportamenti da imitare.

Uno dei quali, che sorprende e conforta, è l'articolo di Giorgio Ruffolo su “La pubblicità che in TV dilaga dappertutto” (Repubblica, 29 maggio scorso).

E' l'impostazione di questo scritto, che suona innovativa, essenziale: perché Ruffolo dice in sostanza, molto semplicemente che, poiché “la pubblicità televisiva è diventata intollerabile”, si può concretamente intervenire, cambiare; e offre, per realizzare ciò, indicazioni di marcia chiare e precise (le cito qui di seguito, numerandole), tra le quali mi sembrano particolarmente risolutive e geniali le ultime due, ( e ):


1ª) [La pubblicità] può essere distribuita nel tempo con maggiore discrezione e intelligenza.

2ª) Per esempio, legandola a certi programmi e salvandone altri, non diffondendola pervasivamente in un bagno della scemenza.

3ª) E anche esercitando qualche forma di revisione: non si tratta ovviamente di censura, ma di salvaguardia del buon gusto e della decenza.

4ª) Penso anche che il costo di questa limitazione possa e debba essere sopportato dal cittadino utente. Chi non lo sopporterebbe, in cambio di una liberazione di spazi del tutto indenni dalla comunicazione commerciale? La pubblicità deve essere un servizio e non un'imposta sulla stupidità.

Quel servizio, saremmo pronti a pagarlo se ci fosse risparmiato il costo obbligatorio delle “scenette”.

5ª) Saremmo pronti a pagare qualche minuto di distensione, magari allietato da un minuetto di Mozart, come si faceva una volta, in un'epoca della quale sentiamo la nostalgia, in riposanti visioni di pecorelle: o persino, al limite, da un silenzio amico, complice della riflessione, dio sa se ce n'è bisogno”.

Ecco, anche i poeti possono dare indicazioni chiare e precise per cambiare, concretamente, l'informazione televisiva.

Certo, innanzitutto, devono, come ho già detto, rendersi conto del proprio dovere, devono capire che –come ha scritto Giancarlo Pontiggia- “se la poesia non ha lettori, non è solo per colpa di un’editoria miope o vile, ma perché i poeti hanno dimenticato di essere una guida morale e intellettuale per tutti gli uomini”, devono studiare:


  1. ) studiare, secondo me, la riduzione naturalistica, positivistica, sottesa alla “lingua” della nostra società, della televisione;

  2. ) studiare la filosofia che più strenuamente e inconfutabilmente si è opposta a questa riduzione: la fenomenologia husserliana;

  3. ) studiare Jan Patočka;

  4. ) studiare insieme, solidali (la “solidarietà degli scossi” -come insegna Patočka);

  5. ) studiare insieme un nuovo modo, un metodo di informazione televisiva.


E infine spiegare a tutti, convincere, far ragionare, e realizzare, concretamente, un modo umano, umanistico, ontologico, di informare.


giovedì 28 luglio 2011

UN'INTERVISTA A JEAN SOLDINI

E' per me un onore poter ripubblicare questa intervista a Jean Soldini, poeta e filosofo svizzero formatosi all'all'Université de Paris-VIII: poeta-filosofo, poeta pensatore, poeta pensante e pensatore poetante, nel senso più pieno, heideggeriano della parola: uomo che abita la casa dell'Essere, che "poeticamente abita" il mondo.
Talora i poeti, fuori dai versi, non dicono nulla, le loro filosofie (ovvero le loro visioni del mondo, dunque in definitiva le loro poetiche, giacché Poesia, e coscienza della poesia nel suo essere poesia, è Mondo e Pensiero riflessi nella Parola, nel Logos) sono pretestuose, fumose, inconsistenti.
Invece, Soldini dice (ad esempio sullo spazio che torna allo spazio, non nel senso autoreferenziale e illusorio del non-luogo, e nemmeno in quello, pur fondamentale per la modernità letteraria, del mallarmaeno "Rien n'aura eu lieu que le Lieu", lo Spazio assoluto del Testo, ma al contrario nella direzione di uno scambio e di un dialogo - e sulla fictio non come astrazione, evasione, narcosi, ma come concreto ed operativo dar-forma-all'informe, significato al caos) cose essenziali, originali, da vero poeta-pensatore.
E si ha, infine, la malinconica sensazione che la stampa elvetica dia alla cultura uno spazio che in Italia le è da decenni precluso. (M. V.)


Dallo spazio allo spazio

A colloquio con Jean Soldini, autore del libro di poesie Bivacchi (intervista di Paola Pettinati in “La Regione Ticino”, 23 marzo 2010).

Uno sguardo alle vittime della guerra, ai dimenticati, agli oppressi, ai diseredati. È quello che Jean Soldini rivolge nel suo ultimo libro di poesie Bivacchi pubblicato recentemente dalle Edizioni Ulivo di Balerna. Il volume contiene anche alcune illustrazioni realizzate da studenti del CSIA: Enea Arienti, Yanica Gisler, Tanja Jovanovitch, Rachele Monti, Bianca Sassi, Amanda Stöckli, Valentina Vitali. Come mai un pensiero alla guerra? «Bivacchi – spiega Jean Soldini – è un libro, almeno in parte, influenzato dall’invasione dell’Iraq e dal secondo mandato di George W. Bush a partire dal 2004. È stato un periodo che ha provocato in me una tristezza sorda e persistente. È ciò che si esprime per esempio con Imperi, La vedi ora, Fuori dell’accampamento, Ombrellone, Neppure un merlo».

Che visione della storia emerge? «Mi riconosco molto in questa affermazione di Elisabeth Costello, la scrittrice uscita dalla penna di J. M. Coetzee e protagonista dell’omonimo romanzo. Lei afferma a un certo punto che il futuro è solo nella mente e non ha una sua realtà. Lo stesso rimprovero potrebbe essere mosso al passato, ma aggiunge che “c’è qualcosa di miracoloso che il passato ha e che manca al futuro. Quello che è miracoloso del passato è che siamo riusciti – Dio sa come – a far sì che migliaia e milioni di finzioni personali, finzioni create dai singoli esseri umani, si incastrassero l’una nell’altra fino a darci quello che sembra un passato comune, una storia condivisa”. Finzioni. Il verbo latino fingere indica ‘modellare’, ‘dare forma’. Penso che positive siano le storie, vale a dire quanto formiamo con l’esistente. Poi c’è la Storia che è la moltitudine di storie assorbite dalla violenza del più forte, dalla prepotenza che precipita subito ogni cosa nella più radicale insensatezza. Ho però fiducia nel singolo uomo e anche nelle cose. Fiducia, speranza «senza incauti incantamenti» come nella poesia che parla del monumento di Peter Eisenman alla memoria delle vittime della Shoah. Ho fiducia nel fatto che siamo tutti meticci (Dallo spazio allo spazio). In alcuni lo si vede di più. Sono i sopravvissuti alla violenza e al razzismo, hanno imparato quello che può servire per vivere, per sopravvivere. Lo hanno imparato con una sapienza immediata. Meticci, perseguitati, profughi umiliati infinite volte in un giorno tornano dallo spazio allo spazio, si spostano, sono costretti a farlo. Dallo spazio tornano allo spazio perché c’è un solo spazio. Tanti luoghi, ma un solo spazio. Lo spazio accarezza la ferocia, non la placa. Non contiene, ma accarezza. A contenere sono le nazioni, i luoghi resi inospitali, che sono generati da chi dice: più di questo non può essere contenuto. Gli altri sono troppi».

Quali altri temi e scenari sono presenti in Bivacchi? «In questa raccolta c’è anche la follia improvvisa, quella che è sempre in agguato alle spalle di ognuno di noi (Un angelo), la marginalità (Un quarto d’ora fa), la spiritualità ipocrita col suo mito dell’interiorità (Non distrarsi, Sarebbe stato meglio). C’è pure un’altra America come in Tronchi dedicata a Ansel Adams, un fotografo di paesaggi statunitense, come in Casa nel Queens o in quella poesia che parla di un artigiano di Bowery che è una via e un distretto di New York».

Diceva del mito dell’interiorità. «Sì. Trovo deprimente l’interesse per il nostro piccolo “mondo interiore”, mentre ciò che è altro da noi è molto più affascinante e arricchente perché ci obbliga continuamente a esporci. L’altro ci offre un orizzonte che può essere pura apertura, libertà e non «meta al pensiero che si accinge a pensare» (sono gli ultimi versi della poesia Orizzonte). È quanto si esprime anche ne La riga gialla che ha come sfondo una fila alla cassa di un supermercato».

Come si pone la parola in rapporto alla poesia? «La parola è tentata dal possesso implicito nel nominare. Le parole danno un nome e nel contempo chiamano; e se è vero che chiamano, allora qualcosa in esse deve rispondere. Noi nella parola dobbiamo cercare di ascoltare ciò che in essa risponde. Nel De Magistro di Sant’Agostino c’è un dialogo sulla preghiera. Nella preghiera parliamo e nello stesso tempo questo parlare è ascoltare Dio, ricordarsi di lui. La parola, se badiamo a questa indicazione, dovrebbe essere preghiera in senso laico, dovrebbe portarci ad ascoltare la risposta dell’esistente, a ricordarci di quest’ultimo. La parola la vedo come una cosa che dice cose e che vive sempre in un’oscillazione tra incantamento positivo e incantamento negativo. Nella poesia questo diventa fortissimo. La poesia è sempre sul crinale tra mitezza e arroganza della parola. Crea apparizioni di realtà attraverso il miracolo di una parola che s’impone col suo fascino, ma si deve anche ritirare».

La parola si ritira? «La poesia desidera dire, ma desidera anche quella fodera del dire che è il tacere perché solo quest’ultimo può lasciar posto al farsi vivo dell’esistente nella parola stessa. Tacere per sentire una voce che non sia solo la nostra. E per questo è importante che ci sia sempre la singolarità col suo corpo nel corpo della parola. Non so se la mia poesia ha una qualche universalità. Sta di fatto che non può esserci universalità se non affondando nella singolarità. Il vetro rotto di cui parlo in Nel foro lucente è quel singolo vetro. Come dice il drammaturgo e regista Marco Baliani, “La parola albero è una forma che contiene tutti gli alberi del mondo. Il lavoro in tutti questi anni è stato cercare sempre quell’albero lì, particolare e unico, quello di cui fare l’esperienza in un bosco, su un marciapiede, dentro un giardino”. Forse è per questo che, come diceva Vladimir Nabokov (era anche stato esperto di lepidotteri e ricercatore al Museo di Zoologia comparata dell’Università di Harvard), in un’opera d’arte avviene “una fusione tra la precisione della poesia e l’ebbrezza della scienza”. Affermava anche il contrario. Erano affermazioni ambivalenti per lui. Penso si possa dire che ci vogliono precisione ed ebbrezza insieme. Ci vuole la precisione che onori la singolarità contro la genericità e ci vuole l’ebbrezza che la salvi dalla noia della genericità. Ebbrezza e precisione per raggiungere quell’albero o quel vetro in mezzo al pullulare di ciò che esiste».


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L'ESSERE E LA MASCHERA. DIALOGO INTORNO A UN VIDEO DI PASOLINI







MATTEO VERONESI

Qui Pasolini sembra professare una forma di esistenzialismo con venature addiritture mistiche, metastoriche; lui che più volte si pronunciò contro l'esistenzialismo. Nel contempo, si avvicina all'assurdismo dell'esistenzialismo ateo (ma anche al
credo quia absurdum della mistica eterodossa, non canonica).

In due minuti di oralità, nella banalità effimera ed episodica di un'intervista televisiva, si può trovare, senza eccessivo sforzo, tutto questo, condensato in poche
parole-luce, come le chiamava Ungaretti.

Non è forse possibile che proprio l'oralità televisiva, pur da lui tanto aborrita, fosse in realtà, per Pasolini, il luogo desolato e nudo e disincantato e indifeso della sincerità, della verità, dell'autotrasparenza - mentre la scrittura, più meditata, era invece artificio e stilizzazione, consapevoli (il suo "alessandrinismo", la sua "estetica passione")? Quello che vediamo e ascoltiamo è spesso un Pasolini grigio, spento, vuoto - quasi un doppio, un simulacro, un
àgalma, un revenant.

O forse, al contrario, in televisione Pasolini dice che essere scrittore non ha alcun senso proprio perché la televisione, il mezzo (che è il messaggio), sono per lui privi di senso - mentre non direbbe, e non potrebbe dire, la stessa cosa scrivendo, perché proprio e solamente sulla pagina la letteratura trova la sua sostanzialità, il suo senso? E non potrebbe valere, con le debite distinzioni, un discorso analogo per Carmelo Bene - anche e soprattutto scrittore?

Il poeta sullo schermo: argomento interessante. "Schermo" come rivelazione, trasparenza, epifania - ma anche, letteralmente, come barriera, nascondimento, finzione, depistaggio - "la donna dello schermo", "poi come su uno schermo s'accamperanno di gitto alberi case colli per l'inganno consueto......".

NEIL NOVELLO

Non è lo scrittore a non aver senso, è lo scrivere. Chi ha affidato la propria vita alla scrittura sa cosa voglia dire l'insensatezza dello scrivere. E si continua a scrivere non per lo scrivere in sé, ma appunto perché si è scrittori: l'
a-chi dello scrivere vale meno del chi dello scrittore. Se leggi La meglio gioventù e poi La nuova gioventù comprendi cos'è scrivere ed al contempo cancellare, o meglio scrivere cancellando: ma in questo paradosso, ciò che non si cancella è proprio lui, lo scrittore, che pur scrivendo-cancellando crea.


ELISABETTA BRIZIO

Anche nel web ci si scherma con pseudonimi vari, ed è forse nel rendersi irriconoscibili che riveliamo veramente noi stessi. Al contrario, spesso si finge proprio quando ci si firma, nel gesto deliberatamente enunciativo, ora glissando ora oscillando tra menzogna e omissis. Del resto, anche nelle arti figurative il tema della maschera altro non è stato che un tragico o giocoso intrattenersi con l'io. In latino maschera è persona, forse dall'etrusco Phersu. Le persone della Trinità sono, in greco, pròsopa, dunque, anche maschera, le maschere di Dio. E la liturgia è paragonata dai Padri a una rappresentazione teatrale (in origine il teatro era rito sacro, e tale è ancora nelle culture animistiche e sciamaniche).

Oscar Wilde diceva che gli uomini perlopiù mentono, ma se assumono una maschera emerge tutta la loro verità. Quella maschera che nell'arte degli antichi talora era paradigma di nascondimento in alcuni contemporanei diverrà deformazione grottesca che mima l'inautenticità, l'ipocrisia. Ovvero, ossimoricamente, la coesistenza di ipocrisia e verità, di distanza e prossimità a una così detta condizione autentica. In fondo, anche i versi di Gozzano sono costellati di mascheramenti, anche da donna se vogliamo, ma nel travestimento finiva per enfatizzarsi la sua verità, o la sua cattiva coscienza ("Vile", gli disse la pattinatrice, per fare un esempio). O in Pascoli, là dove a ben vedere tutto il debordare dell'analogismo, della ambivalenza, dell'emblematismo sottesi a una così tanto proclamata e altrettanto praticata poetica della determinazione o della determinatezza non fanno che veicolare ulteriori supplementi di verità, serie di inferenze e rivelazioni non più delegate all’io, il quale si para con gli strumenti di quella che è stata definita "retorica dell’allusione", nonché nelle strutture del silenzio. Ma non era Clawdia Chauchat la sola a non indossare la maschera nella festa di carnevale, in quella stessa la notte della dichiarazione di Hans? Evidentemente, siamo di fronte a un'altra prospettiva.

Sul fatto di scrivere non ti so rispondere. Ma sono convinta del fatto che, perlomeno sotto innumerevoli aspetti, si scriva solo per sé stessi. Per soddisfare quale esigenza ognuno lo sa.



MASSIMO SANNELLI

grigio - chissà, forse no. ha il giubbotto di pelle, si è (voluto e) rappresentato non professionale, non vecchio - pensa alle interviste orribili e davvero 'svantaggiate' a Calvino o a Sciascia, con il completo da impiegato, con l'orrenda sigaretta accesa davanti alla telecamera...

Lo schermo è spietato con chi non ha/è una singolarità furiosa. foto di Avedon a Pound

e PPP: chissà se è sincero quando appare, cioè *sempre*. è il trionfo della sineciosi, parola orribile che a lui piaceva. e PPP appare perché - finché - c'è la mamma. io non *so*, ma sono certo, che morta la mamma si sarebbe isolato: anzi lo dice in Coccodrillo o Poeta delle Ceneri, isolarsi per fare musica - arte non verbale, appunto. [e stava ritornando alla pittura, anche]

e sarebbe stato sincero nel momento del ritiro - il suo tacere. ma la magia della parola uccide, se è usata perfettamente: impeccabile come il Don Juan di Castaneda. impeccabile: quasi 'imperdonabile di CC.

bisogna stare molto attenti a ciò che si scrive: si avvera (e lo ricordò Pasternak al giovane Entusenko: "non presagisca mai una morte tragica in versi, perché si avvererà, io sono vissuto solo perché non l'ho fatto..."). *quindi* è morto, non poteva non morire, l'abbandono della parola era tardivo. e lui era Pietro II, il papa apocalittico di Malachia - autoproclamato già in Poesia in forma di rosa.

è questo che mi ha sempre colpito in lui: il suo arcaismo *praticato*

E l'andare in macchina sportiva e al Piper e in vacanza con la Callas - la ricerca di soldi soldi soldi (anche per far piacere alla mamma, e per starne lontano, col motivo del lavoro) e la sua mentalità segreta da mago e monaco

non ho mai creduto alla differenza tra essere e apparire. soprattutto quando si tratta di questi spiriti magni... tanto meno nella magia