lunedì 29 agosto 2011

Il miele del silenzio: di alcune prospettive della poesia contemporanea


Il miele del silenzio. Antologia della giovane poesia italiana
, a cura di Giancarlo Pontiggia, Interlinea, Novara 2009, pp. 198, euro 24.


Sapientemente introdotto e curato da Giancarlo Pontiggia, Il miele del silenzio. Antologia della giovane poesia italiana (Interlinea, Novara 2009) è una preziosa antologia della giovane poesia italiana contemporanea, sebbene non definitiva, senza pretesa di assolutezza, di dittatura estetica, di valore canonico, esclusivo o egemonico.
Per quanto sia stato sottolineato, anche di recente, il carattere estremamente arduo, quasi proibitivo di ogni antologia (sorta, di per sé, di complexio oppositorum, di materiale prossimità e coesistenza, in uno stesso spazio, di voci e tendenze in varia misura diverse e distinte, di un impossibile amalgama di paradigmi), specie qualora cerchi di canonizzare, di sistematizzare, in qualche modo di museificare una realtà multiforme e proteiforme come quella del presente, le antologie restano documenti e testimonianze rilevanti si pensi alla celebre Parola innamorata, curata dallo stesso Pontiggia, che segnò un ritorno al mito e al lirismo dopo le devastazioni, i roghi forse per certi aspetti purificatori, dell’avanguardia.
Tanto negli introduttivi «Appunti di lavoro», quanto nelle presentazioni dei singoli autori, Pontiggia è animato da un intendimento preciso e pone risolutamente dei criteri per una demarcazione, non certo sulla linea crociana, che identifichi la poesia distinguendola da una pura emissione di parole graficamente distinguentisi dalla prosa, postula indirettamente un ridimensionamento dell’attuale e quanto mai proliferante e affollato scenario poetico, talora, si aggiunga, dispersivo, o rumoroso, tendenziale, ostinatamente fuori degli schemi, ungarettistico (nel senso indicato da Umberto Eco parecchi anni or sono). Poesia, dice Pontiggia, è riattualizzare i maestri del passato e non vanificarne la memoria.
In altri termini, Pontiggia valorizza quelle categorie estetiche tendenti di per sé a tradursi, in senso lato, in categorie etiche che ispirano la scelta di una veste formale come operazione in certo modo inevitabilmente archeologica, eppure mutante e dialogante con il presente: quali la prevalenza del senso e l’osservanza delle strutture tradizionali, preservate e difese da quell’ormai obsoleto spirito di distruzione e di rottura che passa sotto l’eufemistica definizione di sperimentalismo; la riabilitazione del valore poesia come attività non accessoria, ma sostanziale, che si commisuri con lo spessore, le geometrie e le euritmie della tradizione mentre ne opera la dinamizzazione nell’atto stesso del versificare, contribuendo, a posteriori, a renderla – Remo Pagnanelli avrebbe detto – «memorabile», senza per questo configurarsi come remotissima eco del passato o rendersi una inerte riproduzione delle forme. E insieme ponendo se stessa, in quanto poesia nuova, poesia d’oggi, entro il solco di archetipi riconoscibili, nei quali tanto il nuovo quanto l’antico, e anzi l’antico attraverso il nuovo, e viceversa, si rispecchiano, si riconoscono, si inverano, secondo quel moto uno e duplice, progressivo-regressivo, di avanzamento e ritorno (la métrique absolue di Mallarmé) che scandisce il singolo testo poetico, nella sua tessitura versale, non meno che lo stesso divenire storico, e metastorico, del fare poetico.
Sono affermati, in questa antologia, la leggibilità sul sovvertimento dei canoni, il rifiuto dell’essoterismo inteso come esibizione e spettacolarizzazione, dell’accostamento gratuito e forzatamente trasgressivo, dell’infrazione come regola, spessissimo adottata quasi di necessità (troppo spesso si ha infatti l’impressione che si ignori il fondamento delle regole prosodiche, che non si abbia nelle orecchie quello che il secondo Ungaretti, quello composto e classico di Sentimento del tempo, chiamava «il canto italiano»), una classicità non classicistica per nominare ancora uno dei motivi basilari che hanno ispirato la riflessione di Pagnanelli, nonché la sua verseggiatura e il suo valore di influenza che paiono ancora essere il solo luogo di consistenza possibile, di comune appartenenza poetica, di incontro tra un passato sempre vivo e un presente che assiduamente, diceva Dante, s’infutura.
Coerentemente con queste istanze, sfilano in Il miele del silenzio i diciotto valenti autori antologizzati (classe 1970 in avanti), dagli stili e dagli etimi diseguali, dalle diversissime attitudini a soggettivarsi, il cui lavoro, per così dire, di ortodossia in progress, benché non sia certo l’unico possibile e legittimo, è senza dubbio degno di estrema attenzione. E soprattutto pienamente appaga le nostre aspettative di novità, novità che, dice Pontiggia, è tale solo nella misura in cui è in relazione all’esistenza e all’affioramento, metatestualmente assimilato, di una grandezza passata.
Ecco, allora, l’oro, le terse e scintillanti contemplazioni, tese all’eterno, di Maurizio Marota, l’onnipresente miracolo della vita in ogni luogo e in ogni tempo; lo stile più teso, frammentato, plurilinguistico, di Roberta Bertozzi, che si misura con gli orrori della storia, con il peso del passato; il lirismo prezioso, essenziale e profondo, di ascendenza luziana, eppure prossimo alla naturalità e alla maternità, semplici e miracolose, del creato, di Daniele Piccini; l’acceso e palpitante canzoniere amoroso, fresco e spontaneo senza leziosità, forte di una naturalezza raggiunta con lungo travaglio meditativo e creativo, di Isabella Leardini; l’epos, lieve e potente come una bracciata, delle nuotatrici olimpioniche della Germania Est, anelanti a una «purezza» esistenziale anteriore a ogni istituzione e a ogni divisione, cantato da Vincenzo Frungillo; l’assidua riflessione metapoetica, quasi magrelliana, tesa fino al bianco, al silenzio, al non-detto, alla stasi dell’aurora creaturale, di Francesco Filia; il lirismo naturalistico ed elegiaco, tutto pervaso dal costante e ciclico ritorno al bosco dell’infanzia, alla Hyle, alla materia-selva feconda e originaria, di Adriano Napoli; la scrittura composta, fluente, riflessiva e insieme esperienziale, memore della grande tradizione novecentesca, da Montale a Sereni a Luzi, di Andrea Temporelli, alias Marco Merlin; il «senso per sottrazione», fino a una essenzialità assoluta, quasi geometrica (che fa pensare allo chosisme di un Ponge o alla scrittura spigolosa e scarnificata del primo Magrelli), di Mariarita Stefanini; l’estrosa, immaginifica e surreale narratività di Federico Italiano; il lirismo dolente e sofferto, all’interno delle lesioni che segnano la storia, di Alessandro Rivali, ideale homo viator nell’«Europa delle cattedrali e della luce»; la «doglia del creato» glorificata, in versi dalla musicalità assoluta, senza tempo, incantata, quasi discesa da un altro mondo e da un’altra lingua, originaria e metatemporale, di Matteo Munaretto; le città fantasma, preziose, parnassiane e quasi surreali eppure limpidissime, di Guglielmo Aprile; il dettato espressionistico, sismico, tuttavia ontologicamente, quasi misticamente, fondato, di Davide Brullo; la cristallina e nivea autoriflessione di Pietro Montorfani, studioso cosmopolita, tra Svizzera e Stati Uniti; il lirismo sacrale e biblico, la dialettica di materia e purezza, di greve fango da un lato, e dall’altro di altezza, vuoto, rarefazione, silenzio, di Giuliano Rinaldini; il «ritmo della specie», il tempo mobile, vivo, dolente, eppure fermo, eterno, come ancorato agli archetipi di un destino più alto, che si declina e distilla per simboli oscuri, di Franca Mancinelli.
L’aver assunto, come titolo del volume, un verso tratto da Il cordone d’argento di Matteo Veronesi (poeta del resto qui antologizzato) è significativo del senso generale che orienta le scelte di Pontiggia. Il silenzio non può più essere oggetto di poesia se inteso quale sintomo, ma in pari tempo come tentativo di superamento, del silenzio che pare avvolgere e soffocare la voce dell’io lirico, o come bianco della pagina che rappresenti, quasi simbolicamente o emblematicamente, l’omissione, l’aposiopesi, la reticenza, a loro modo altamente significative come segnali tangibili del rifiuto di ogni retorica sentimentale, di ogni troppo effusa emotività, o come specchi ossidati di una protonovecentesca “vergogna d’esser poeti”. Il silenzio, piuttosto, nomina l’abisso di una modernità ormai postuma e non più penetrabile al suono, cittadina ormai del regno delle ombre, laddove la pretesa di legittimità del paradigma razionale nel frattempo si è gradualmente consumata. Il silenzio, allora, è chiamato a misurare la regalità sfumata del tempo, istante-goccia-infinito, ineffabilità e origine del suono, dolceamara, dunque, palingenesi della parola poetica che si staglia come estrema e paradossale speranza sulla prospettiva ultima dell’annientamento. Come in Mallarmé (in Crise de vers), un «monumento in questo deserto, con il silenzio lontano; in una cripta, la divinità così di una maestosa idea inconsapevole». Anche se ormai il monumentum non è più tanto ricordo o testimonianza, quanto sepolcro vuoto, insanabile traccia di una lesione e di una assenza.

Elisabetta Brizio


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Lorenzo Carlucci, "SGASARE LA LATTINA FUTURISTA. AVANGUARDIA, SPERIMENTAZIONE, EPIGONISMO, ANSIA DEL MANIFESTO"


Esistono differenti correnti nella poesia italiana contemporanea. Alcune di queste hanno un’etichetta, e alcune l’hanno perché la vogliono avere: poesia sperimentale, poesia di ricerca – etichette tra le più contese da diverse combriccole poetiche. L’avere un’etichetta sembra quasi far parte della definizione di questa poesia di ricerca e sperimentale (ansia del manifesto, fin dai tempi delle avanguardie storiche, peraltro più diversificate e vitali). L’identità della “poesia di ricerca”, in alcuni casi, sembra dover essere sempre costituita, non è mai data, sembra voler esistere soltanto per opposizione: oggi che gode di una certa attenzione dal (piccolo) mondo della critica di poesia italiana si deve scagliare contro chi l’accusa di egemonia.

È forse anche interessante notare che con il recente successo della poesia sperimentale e di ricerca e l’attenzione critica ad essa rivolta siamo di fronte ad un fenomeno di recupero, e non all’emergenza di un impeto inedito: si tratta del tentativo di costituire una tradizione della poesia di ricerca, e questo processo ha connotati evidenti (istituzione della triade genealogica: nonni, padri, figli): l’individuazione dei grandi maestri (Villa, Spatola, Rosselli) e canonizzazione dei padri viventi (come Balestrini) vanno di pari passo con la proposta dei nuovi autori, i continuatori della tradizione.

Altre correnti esistono, e non hanno etichetta. Esistono nel modo in cui esistono le realtà letterarie: come tratti comuni nella produzione dei poeti, come orizzonti condivisi seppure non messi a tema, come mutuo riconoscersi di poeti che neppure si conoscono se non attraverso le loro opere, e che magari sono assai distanti su un piano stilistico. Un riconoscimento che non si traduce nel bisogno di “fare gruppo” attorno a un’idea di poesia, ma in comunicazioni più lente, articolate, sfumate, fragili e sempre a rischio.

Forse è vero: una “corrente” così rischia meno di essere accusata d’egemonia, così come rischia meno di finire nella pagina culturale di un quotidiano nazionale, perché – avendo sgasato la lattina futurista – ­ non va arditamente incontro all’ebbrezza di questo rischio.

domenica 28 agosto 2011

L'aristocrazia dello spirito nell'epoca del fango

La poesia, la letteratura d'arte e non di consumo, l'"alta cultura" oggi ignorata, demolita, derisa ("con la cultura non si mangia, adesso vado a farmi un panino alla cultura, comincio da Dante": così il Ministro Tremonti), privata di sostegni, non hanno la forza per contrastare lo strapotere mediatico. Esse erano, in genere, rivolte ad un pubblico elitario già nell'epoca in cui furono concepite.
Alle fabulae togatae, palliatae e cothurnatae, la plebe romana preferiva le spoliationes mimarum, ovvero gli spogliarelli, che già allora esistevano, e gli spettacoli di gladiatori.
La farsa fliacica, fallica e grottesca, aveva più seguito del teatro d'arte (e sarebbe interessante sapere quanti, ad Atene, andavano al Teatro di Dioniso solo per l'obolo: anche i nostri studenti andrebbero ad ascoltare Schoenberg, in cambio di una pizza).
Nel Medioevo e nel Rinascimento, la gente della strada cantava le canzoni popolari, comunque più fresche e leggiadre di quelle odierne ("For de la bela gaiba / se xiva lo lixignolo...."), più che Francesco Landino o Monteverdi.
Fra Ottocento e Novecento, cabaret, vaudeville, café chantant e burlesque avevano certo maggior seguito di Debussy e di Wagner. Anche quando D'Annunzio aveva un relativo successo, comunque vendevano di più Lucio D'Ambra, Salvator Gotta e Luciano Zuccoli.
Era Montale (i cui Ossi vendettero quarantamila copie in quarant'anni) a dire che in futuro sarebbero esistite due letterature, due culture, con un divario sempre più accentuato fra quella popolare e quella alta. Ciò che sta avvenendo in questi anni conferma le sue profezie. La Woolf, invece, in The Common Reader, prospettava la possibilità di una third literature, accessibile, con diverse chiavi di lettura e diversi livelli di comprensione, tanto al pubblico popolare quanto a quello dotto. Il nome della rosa rientra forse in questa third literature, che non vanta molti altri esempi.
Ma c'è una una differenza non da poco. In passato, molta gente era esclusa dalla cultura alta suo malgrado, per fattori oggettivi (mancanza d'istruzione, lontananza dai centri di cultura, etc.).
Oggi, almeno in Occidente, non ci sono più scusanti: tutti, volenti o nolenti, sanno leggere, per via della scuola dell'obbligo (anche se molti, poi, non si servono di questa abilità, superflua per la maggior parte dei lavori, se non marginalmente, e potrebbero tranquillamente farne a meno: se uno deve saper leggere per leggere solo la Gazzetta dello Sport o Novella 2000, o anche la narrativa di consumo, tanto vale che guardi la televisione), e in edicola per pochi euro, gratis su Internet, si trova di tutto, dal porno a Platone.
Rifiutare, o deridere, la cultura è una loro scelta. La colpa non è della scuola, a meno che non si debba supporre che tutti gli insegnanti, senza eccezioni, siano incapaci, dato che un libro cultralmente significativo, e perciò almeno mediamente compesso, fatica a vendere, in tutta Italia, mille copie.
Forse dobbiamo constatare che noi siamo un'élite, una nuova aristocrazia dello spirito, una nuova comunità, perché no, di "anime belle" schilleriane, e tale dobbiamo restare, ignorati, e ignorando la lordura che ci sta intorno.
Semmai, una comunità più intensa, solidale e fitta di dialoghi e di scambi deve nascere proprio fra di noi, senza inutili e preconcette divisioni, senza faziosità, rivalità, ripicche, conventicole; proprio perché la posta in palio, in termini di riscontri, tornaconti, "visibilità", fama, vendite, nel nostro caso non c'è, o è assolutamente trascurabile, e noi viviamo e operiamo nobis, Musis et paucis.
Se poi il nostro oscuro, sotterraneo lavoro (ché di lavoro si tratta pur sempre) potrà avere, non si sa per quale via, una minima risonanza, una vaga influenza, e mitigare un poco, anche solo per qualche attimo, la volgarità che ci attornia, questo sarà un esito imprevisto e felice.

sabato 27 agosto 2011

Per una "comunità assoluta" dei poeti

Questo scritto di Giselda Pontesilli, che si riferisce al dibattito e allo scenario poetici della Roma degli Anni Ottanta, e in particolare all'importante rivista "Braci" (che propugnò un ritorno alla naturalezza, alla limpidezza formale, alla discorsività melodiosa, alla dialogicità pacata, civile, urbana, alla comune ricerca di verità, proprie dei classici, e in particolare di Platone, di Orazio, di Seneca, di Petrarca), ispira suggestive riflessioni.

Io credo che la comunità di cui si parla debba essere soprattutto una "comunità assoluta", eterna, metastorica, metafisica quasi, che può accomunare non solo, a distanza, poeti che non si sono mai incontrati e mai visti, ma anche, e soprattuttto, autori e pensatori vissuti in epoche diverse.

Dobbiamo guardare a Dante, alla sua "bella scola", al Cielo del Sole, alle "Atene celestiali" - tutte proiezioni, forse, dell'Intelletto Possibile degli averroisti, un intelletto tanto vasto da abbracciare non solo tutto ciò che si era pensato, ma anche tutto ciò che si sarebbe, o si sarebbe potuto, pensare nel futuro e nel passato - o, al limite, anche ciò che forse nessuna mente umana aveva potuto, poteva o può, per ora, pensare e concepire.

Una tradizione intesa come trasmissione, come "diacronia piena" (diceva all'università il compianto Paolo Bagni), che va, diceva Curtius, "da Omero a Goethe" - oggi diremmo "da Omero a Walcott".

Così, senza cadere nel qualunquismo, nell'indifferentismo, si potranno far coesistere, e rispettarsi reciprocamente, posizioni di pensiero diverse; e cesserà quel profondo odio verso il passato, la tradizione, le radici, quell'impulso iconoclasta a distruggere l'eredità dei Padri, a liquidarne il patrimonio preziosissimo - quell'odio, in definitiva, nei confronti di se stessa, che la civiltà occidentale sembra a volte manifestare, e che è il corrispettivo, forse ugualmente nocivo, del rifiuto (egualmente sbagliato, e da evitare proprio in nome della "comunità assoluta") di tutto ciò che è altro e diverso e lontano, ma che rimonta, in fondo (pensiamo ai grandi miti, ai grandi archetipi, ma anche alle famiglie linguistiche, che si è ormai dimostrato essere in vario modo tutte imparentate fra loro), ad una Grande Madre, ad una remotissima comune scaturigine.

Noi siamo noi stessi, troviamo e affermiamo la nostra identità, nel nostro distinguerci - e l'Altro è tale, e come tale deve essere riconosciuto e accettato, in ragione della sua, e in relazione alla nostra, identità.

"Figure di certo umane, ma indistinte, ovviamente, perché avvolte nella nebbia. Figure che salutano o non salutano, alle quali sorrido o non sorrido". Così scrive Lorenzo Carlucci nella "Comunità assoluta", una raccolta introdotta proprio da Claudio Damiani (in versi, peraltro, che non rimuovono affatto l'esperienza, il reale, il corporeo, e anzi li evidenziano in modo a volte brutale).

Infelix cui non risere parentes. Il sorriso è "la corruscazione de la dilettazione de l'anima", lo scintilio, il brillio della gioia. Eppure anche quel sorriso negato, quel dialogo per ora impossibile, potrà forse, nella virtualità del futuro, tradursi in contatto e scambio; ed è, anzi, già possibile, nella stessa visione, nello stesso riconoscimento, dell'esistenza dell'altro, nonostante il velo di nebbia che offusca ogni incrocio e ogni confronto. Tale è il Sé, e tale l'Altro, nella bruma perlacea e luminosa della comunità assoluta.

Spesso, le comunità e i gruppi dei poeti sono ispirati solo da interessi egoistici, dall'opportunismo, dal desiderio di apparire e di ottenere appoggi recensioni premi e altre vanità. Viceversa, diceva Montale che "solo gl isolati parlano, solo gli isolati comunicano". Ecco, nel senso assoluto in cui io intendo questa comunità degli animi e delle menti, un poeta isolato, lontano dai principali centri di cultura, e dai circoli dalle cerchie dai salotti (i quali ormai sono tutto tranne che letterari), potrà avere un senso comunitario, un ardore di condivisione, di appartenenza, un fervore di dialogo, superiori a quello di tanti autori ben più visibili e inseriti.

Proprio per questo, l'esperienza di Braci non è fallita. Le braci si sono spente, come tutte le cose umane; potrebbero tornare ad ardere; ma la loro luce e il loro tepore rimangono vivi nella memoria, nel pensiero, nell'eredità storica, finché ci sarà qualcuno capace di tenerla viva (ecco l'importanza della critica e della storiografia). "M'è rimasa nel pensier la luce", come dice un verso di Petrarca caro ad Ungaretti.

E, allora, forse, anche grazie ai poeti, la parola, in tutte le sue accezioni e in tutti i suoi utilizzi, pur se in misure ovviamente diverse a seconda dei settori, si libererà dal tecnicismo come dal sensazionalismo, dalle strumentalizzazioni propagandistiche come dal compiacimento malato del nero e dell'orrido, e ritroverà, nel risalire ai suoi archetipi, la propria limpidezza e la propria autenticità.

La rete, essa stessa Intelletto Possibile, Mente Virtuale, per la mole pressoché infinita di pensieri e parole che racchiude, è sede privilegiata di questo scambio, di questo intreccio, di questa comunità.

Diverso il discorso per la televisione, il cui fruitore tende ad essere passivo, inerte, quasi vampirizzato - mentre la tradizionale editoria cartacea deve, specie in materia di pubblicazioni ad alto contenuto culturale, scontrarsi con gli alti costi di stampa e le difficoltà di distribuzione e di smercio.

Linguaggio poetico e linguaggio televisivo (meditativo, denso, complesso l'uno, quanto l'altro è invece, di necessità forse, rapido, effimero, schematico, semplicistico, e spesso superficiale, banale, scandalistico, sensazionalistico) difficilmente si conciliano. Eppure, se anche in Italia la televisione presentasse, anche per pochi minuti, la poesia con questo garbo, questa essenzialità, questo stile, questa raffinatissima ed intellettuale sensualità, forse tutto il linguaggio televisivo, e quello della comunicazione in generale, ne guadagnerebbero in eleganza, rigore, chiarezza, anche onestà:







domenica 7 agosto 2011

VERSI DI MASSIMO SANNELLI SULL'ESSENZA DEL DIVINO E DEL NULLA

Sono lieto di presentare questi versi di Massimo Sannelli, ispirati dal Corpus Aeropagiticum, ma nei quali confluiscono, in una scrittura poetica che può ricordare quella dell’estremo Luzi (dilatata, oscillante, tesa fra la misura del tempo e dell’umano e quella dell’eterno, fra la terra e il cielo), motivi ricorrenti nelle tradizioni mistiche più diverse, da Plotino a Bonaventura fino al Bruno del De la causa, principio et uno. La finale nientificazione è l'approdo della mistica negativa, che sfiora l'indicibile e infine vi naufraga, riemergendone con una parola, con un dire che nominano il nulla, infondendovi consistenza ontologica.
Ma viene in mente, a conferma della modernità di questa scrittura (peraltro ora riplasmata dall'autore a distanza di anni) una possibile affinità con uno dei massimi poeti rumeni del ventesimo secolo, Nichita Stanescu, e in particolare con la prima delle sue Undici elegie: “Inizia con se stesso / e con se stesso finisce. / Non aura lo annuncia, né lo segue / coda di cometa”. E, quasi a far eco dalle profondità dell’essenza e dell’esperienza, il Luzi di Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini:

È, l'essere. È
intero,
inconsumato,
pari a sé.
Come è
diviene.
Senza fine,
infinitamente è
e diviene,
diviene
se stesso
altro da sé.

M. V.


1.

C’è UNA radice, non urla nei sensi.
Non ha figura e forma
e qualità, né quantità né peso,
non è in un luogo. Ai sensi
sfugge; non si sente
e non sente; non soffre
la carne passionale
del corpo: non la illude
la vita della mente.
Non è mai senza luce,
non vede mutazione, distruzione
e contrasto, miseria o privazione
e rinuncia. Adesso
l’inizio alto appare:
la nudità completa
senza gioco e contrasto.

2.

La causa non ha anima e giudizio,
non ha immaginazione né opinione,
né numero né ordine e statura.
La causa non si muove
mai. Non fa. Non è fragile.
Non vive e non è vita
e non è tempo. L’anima
non la tocca; non è
nessuna scienza vera,
né dominio di re,
né sapienza né uno:
né unità né Dio.

[2005-2011]