lunedì 23 gennaio 2012

Giselda Pontesilli, “Tre poesie”


Ho il piacere di presentare questi tre testi di Giselda Pontesilli, queste tre nitide e lungamente elaborate e meditate tracce dell'attuale stagione della sua vena: una Musa, la sua, che si muove verso una sempre maggiore limpidezza, verso una cantabilità, una melodiosità sabiane o caproniane (ma vicine anche ai modi espressivi della “scuola romana” di Beppe Salvia e di Claudio Damiani), ma che pure ha, dell'acqua tersa e trascorrente, anche e proprio la profondità, la trasparenza di un fondo essenziale, di una substantia, in senso etimologico, che lo sguardo intellettuale può scorgere, senza toccarlo sensibilmente, attraverso l'armonia traslucida e fluente della parola.
Parola come venire-alla-luce (fari, parlare, come phos e fatum, come luce e destino) dell'Essere che è e non può non essere, ma che non resta chiuso in quella che Luzi chiamava «la sfera angosciosa di Parmenide», bensì si declina, cola e fluisce nel succedersi degli accadimenti, delle percezioni, delle occasioni; parola come spazio, dunque, in cui l'istante si fa eterno, e la contemplazione della natura e dell'arte, e il contatto con il mondo molteplice e amato dell'umano si presentificano, nella loro assolutezza, attraverso la concretezza dell'accadere.
La perennis humanitas del Petrarca latino, ripresa poi dai vociani, rivive nell'utopia (ma utopia non astratta, non dottrinaria, bensì intensamente vissuta in una sorta di militanza esistenziale, non ideologica) di un «nuovo umanesimo italiano»: non l'humanisme esistenzialista, intriso di nichilismo, di vuoto, d'angoscia, segnato dall'abbandono, dalla gettatezza, dalla deiezione, né il neo-umanesimo filologico, venato dal rischio della retorica, animato dall'impulso ad un'oggettività normativa; ma proprio una nuova humanitas, che riscopra l'anima dei luoghi, il messaggio profondo dei testi, delle voci, dei testimoni, e sappia vedere negli uomini, nei volti, negli incontri i riverberi molteplici e autentici di un'unica, lontana ormai, ma inestinguibile, luce.
Le «edere», dapprima còlte nel testo poetico, attraverso la parola che le nomina, poi viste e vissute nella realtà fenomenica, ma sempre attraverso la loro sostanza verbale, la loro emblematicità quasi mitica, sono «arcane»: arché, archàios, ma anche arca: il principio, ciò che è originario, ma anche antico, e remoto, e insieme ciò che è nascosto, celato, custodito nello scrigno del tesoro o per sempre inghiottito da un sepolcro che può essere, però, apportatore di vita, soglia di risurrezione. Natura e Storia, qui, si fondono: la physis, nella sua vitalità mobile, diveniente, avvolgente (l'edera), è depositaria dell'arché, del principio e dell'essere, che tornano alla luce, e riprendono forma, grazie alla parola, e nella parola.
E la verità ‒ si potrebbe dire parafrasando Nietzsche ‒ si trasfonde, variopinta, nella levità gioiosa di un pensiero danzante, nel giro iridato ed esatto delle sillabe; consistente, tangibile, vissuta, ma non greve: temporale ed eterna insieme.

(M. V.)




I

Quando io penso, giorno dopo giorno,
che non può andare avanti
un attimo di più
questo sconforto –sordo, epocale
e so però che non c’è alcun conforto

grande
costante
forte

che lo possa fermare,

io penso
che un aiuto, un soccorso
dovrà presto arrivare,

perché –è tutto pronto

tutto pronto
per iniziare

perché basterà poco
solo un soffio
di vento primaverile
autunnale

un soffio di pietà per farci stare
di nuovo insieme –a pensare,
di nuovo, fino in fondo
ma a rincuorarci -prima- a darci
un soffio di vigore,
e quindi, con ardore,
un pensiero profondo.

Oh il mio desiderio
inarrestabile, immenso
degli amici, con cui poter pensare.
Oh il conforto
di vederli amici
gli amici miei!
uniti! di vedere che vogliono
sopra ogni cosa “questo”
che sanno
che senza questo non faranno niente
di ciò che a tutti preme veramente
e che è vivo,
che serve
urgentemente
e che è bello,
che è bene.

Solo un aiuto solo
una grazia lo potrà realizzare.
Ma è tutto pronto
tutto pronto, in fondo, per poter ripensare.

Questo sconforto sordo
non è dovuto a niente!
di sostanziale.



II

Vengo ad Arquà per la seconda volta:
la prima
non avevo voglia
neppure di camminare.
Oggi invece, vado ferma! decisa! a casa
di Petrarca.

E vedo
che posso camminare
solo qui veramente
anche se non c’è gente
con cui poter parlare
è vitale questo borgo che sale

E’ isolato, lo so, è immoto
ma andare da Petrarca è uno scopo
che lo fa vivo, profondo

Quest’olmo che ora tocco, con le foglie
fresche, bagnate
e questi giuggioli sparsi
di edere arcane, abbandonate:
sono reali, reali finalmente!
qui da Petrarca
ci sono loro! con cui poter parlare.

Ed è un dialogo il nostro,
molto assorto, risorto: con la realtà
così! si può parlare.

La casa è circondata dal giardino
pulito e al suo custode è gradito!
il mio arrivo.

Solo io, oggi, ho avuto l’invito?



III

Nuda maturità spoglia di vana-
gloria di vocazione di bellezza:
chi chiamai non risponde; né qualcuno
m’ha chiamato o mi chiama. Neanch’io
parlo più con me stesso. In silenzio
guardo la mia miseria. Non so più
cucirmi addosso un abito decente.

(-Sauro Albisani-)


Ma io ti chiamo, Sauro: facciamo
il nuovo umanesimo italiano?

martedì 10 gennaio 2012

UN INTERVENTO DI GIUSEPPE FEOLA SU POESIA E CONOSCENZA

Molte delle voci più significative della giovane poesia italiana scaturiscono - fatto che mi sembra degno di nota - da ambienti accademici legati all'àmbito logico-matematico: penso a Lorenzo Carlucci, ad Alessandra Palmigiano. Anche la poesia ha una sua logica (la "logica poeziei" teorizzata nell'Ottocento da Alexandru Macedonski), che non si identifica certo con la logica ordinaria, né con le logiche formali, né con alcuno dei modelli di logica elaborati a livello scientifico ‒ ma che non si risolve, o dissolve, neppure nel pulviscolìo indistinto, nell'atomismo informe dell'espressione caotica, casuale, non motivata. La poesia è anche una forma di conoscenza, e come tale presuppone e sottende modelli gnoseologici, modalità di percezione e rappresentazione del mondo, del pensiero, dell'Erlebnis. Di ciò è testimonianza anche questo intervento di Giuseppe Feola, del quale ho proposto precedentemente alcuni testi poetici di prossima pubblicazione in volume. (M. V.)


Mi è stato chiesto se vi fosse coerenza tra le mie teorie esposte in "Linguaggio, poesia, conoscenza" e la mia pratica poetica, e se le mie teorie potrebbero aiutare "a porre fine a tanti
vaniloqui, siano essi minimalistici o neo-sperimentali".

Va detto, innanzitutto, che il saggio è stato scritto in un momento in cui avevo cessato di scrivere poesie da circa dieci anni, e in cui una ripresa dell'attività poetica sembrava lontanissima. Il saggio è stato costruito seguendo una prassi combinatoria, da 'catena di montaggio'. Ho preso come punto di partenza la teoria che mi sembrava più promettente (nel caso specifico, quella di Frege sulla significazione linguistica), e ho cercato di costruire una estensione della teoria preesistente che rendesse ragione dello specifico dell'espressione poetica. Ovviamente, è un test fondamentale per qualunque teoria il vedere se poi riesca effettivamente a dar ragione dei fenomeni che intende spiegare. E il fenomeno che la mia teoria intendeva spiegare era quel non so che mi incanta nelle mie letture preferite dal punto di vista estetico.

Nello scrivere, cerco di riprodurre, a modo mio, quel medesimo non so che. Quindi un legame tra la mia teoria e la mia prassi teorica sicuramente c'è. Non però nel senso che la seconda provi a tradurre in pratica la prima. Bensì nel senso che sia l'una che l'altra traggono ispirazione da ciò che mi piace e che vorrei trovare ogni volta che leggo poesia.

Quando dico che la mia prassi poetica non prova a tradurre in pratica la teoria, intendo dire che, quando scrivo, non c'è alcunché che mi guidi, oltre alla mia immaginazione e al mio
senso del suono, del ritmo, dell'appropriatezza linguistica. Non ho mai provato a esaminare se le mie poesie siano coerenti con le mie teorie.

Quanto alla polemica contro il minimalismo e il neo-sperimentalismo, io effettivamente ho gusti
fortemente classici (come si evince anche dagli esempi che ho scelto nel saggio). Credo inoltre che la febbre di voler sempre e per forza fare qualcosa di nuovo, o (in un'altra versione) di adeguarsi ai tempi, abbia rovinato la poesia del Novecento, spingendo tutti verso la credenza che basti stupire, "épater le bourgeois", per fare poesia.

Il senso di robustezza, flessibilità, tensione verso il perenne, e forse persino di impersonalità , che mi danno l'esametro lucreziano o la prosa di Eraclito (per menzionare due autori che presi a esempio nel saggio), è per me un vero e proprio conforto alla vita. Ciò vale anche per autori lirici, il cui scopo apparente è parlare di sé. Due esempi per tutti: Saffo e Leopardi. Per me la prassi poetica è, anzitutto, disciplina mentale, anche solo a mio esclusivo beneficio.

lunedì 9 gennaio 2012

Antonio Castronuovo, "A che ora si alza lo scrittore"

Articolo apparentemente leggero e svagato, ma su cui riflettere. Al genio che creava - e ancor oggi, rarissimamente, crea - "per intervalla insaniae", "noctes vigilans serenas", come dice Lucrezio, strappando al giorno, alla notte, ai ritmi ossessivi ed alienanti della vita reale gli spazi e gli istanti della conoscenza, dell'illuminazione e dell'espressione, la modernità e l'"industria culturale" hanno sostituito (almeno a partire da Balzac, ma forse già con Defoe o con Swift o con Walter Scott) la figura di un produttore di letteratura paragonabile - almeno nei casi migliori - ad un operaio di alta specializzazione o ad un impiegato aspirante alla condizione borghese. Una monotonia, una routine produttiva a cui si oppone il pensiero, fra notturno, aurorale ed albale, opaco eppure folgorante, di Valéry, chino sui "Cahiers" nel cuore della notte, quando il mondo è avvolto nell'incoscienza greve del sonno. (M V.)


Emozionato, se non turbato, il turista letterario s’appressa alle case degli scrittori: c’è fila a Recanati davanti al palazzo di Monaldo, c’è meno fila a Lecco al botteghino di villa Manzoni. Solo qualche raro curioso fa pausa sotto le abitazioni di Moravia o Vittorini, e ciò dovrebbe già far pensare. Pochissimi coloro che, uscendo dalla stazione di Torino, sanno che l’albergo davanti a cui si passa fu abitato da Pavese, che in una camera vi attuò l’estremo gesto. Se poi meditiamo sulle celebrità di una settimana (i campielli che imbroccano un solo libro) il turista letterario neppure ne ricorda il nome.

Leopardi – che pure è il più glorioso – lo aveva annotato due secoli fa nel brogliaccio zibaldone: «Molti libri oggi durano meno del tempo che è bisognato a raccoglierne i materiali, a disporli e comporli, a scriverli». E la certezza di non giungere alla fama è già un segno della grama vita che mena lo scrittore, che alla popolarità mira, o per vanità o per ossessione. Sa che non avrà fama, e tuttavia si dispone a conquistarla, dandosi regole di vita.

Essendo necessaria alla scrittura una punta di acuta asprezza, diremmo che lo scrittore è uno che si fa beffe delle regole, anzi: è uno che sfida la biologia come una volta facevano i poeti maledetti, che non scrivevano senz’oppio e senza notti bianche. Nient’affatto: guardando alle regole di vita oggi assunte dagli scrittori rileviamo una tenace apoteosi dell’abitudine, proprio là dove ci attenderemmo un pizzico di passione e d’incoerenza. E lo veniamo a sapere col fiorire d’interviste a prosatori (i poeti fanno razza a parte), invitati a rispondere alla seguente domanda: In quali momenti della giornata lei scrive e come organizza il suo tempo?

Interviste davvero spassose, dato che se ne ricava una sola impressione: che tutti seguono le stesse identiche regole. Eccole: mi alzo alle 7, faccio la pipì, prendo un caffellatte, poi mi metto a scrivere per tutta la mattina, quattro o cinque ore di lavoro; dopo mangio qualcosa e il pomeriggio lo dedico alla lettura e allo jogging; la sera è tutta per la comunicazione (mail e cena fuori con amici), oppure vado a letto presto.

Bella vita, non c’è che dire.

La sola regola variabile è l’ora in cui gli scrittori si alzano, su cui appunto si gioca la loro differenza. Certo, alzarsi alle 7 è la situazione più comune; ed è anche gesto simbolico, dato che le 7 sono il momento canonico del lavoratore, che un’ora dopo deve timbrare in fabbrica il cartellino (proprio come i presidenti lavoratori, anche loro in piedi alle 7, se non prima). Alzarsi a quell’ora addita la regolarità di un lavoro che si ambisce a compiere – come si suol dire – a regola d’arte. Il bravo scrittore si alza alle 7, e chi si alza alle 7 produce in genere romanzi e saggi misurati, di nitido stile.

Ma non sempre l’ora è quella. Ci sono infatti scrittori che si alzano alle 6. Non è cosa facile; in genere vi si avvezza chi ha origini contadine. Non lo dico per sfottere: io ho quelle origini (mio nonno aveva l’asino) e me ne vanto. È un’ora che torna buona per il romanzo realista, possibilmente a risvolto sociale; ora ottima per narrare le albe del duro lavoro e delle dure rivendicazioni. Alzandosi alle 6, poi, è certo che si andrà a nanna massimo alle 23: realismo vuole che non si contesti l’orologio biologico e sette ore di sonno costituiscono, per il riposo, il minimo sindacale.

C’è anche chi si alza alle 5. Il nobel García Márquez, ad esempio, salta dal letto a quell’ora. Lo ha dichiarato in un’intervista, aggiungendo che legge fino alle 8, poi un’ora di tennis «perché altrimenti passerei la giornata seduto», poi comincia a scrivere fino alle 14,30 e dopo c’è la numerosa famiglia da accudire. Ma García Márquez è pacioso, si vede che è uno che si corica presto e dunque non fa testo. Di norma, alzarsi alle 5 testimonia di un certo spirito sedizioso. All’alba il cervello è anfetaminico e scattante, come ben sapeva Valéry che si alzava in piena notte per riempire i suoi cahiers di una massa di pensieri che traboccano di lucidità, e poi semmai tornava a coricarsi e se la dormiva alla grande.

Confesso che capita anche a me, e mai volontariamente: se la sera vado a letto troppo presto, mi ritrovo prima dell’alba con gli occhi sbarrati nell’oscurità. Devo alzarmi, vago per casa, mangio un biscotto e – invece di riempire quaderni di genialità – finisco per leggere rovinandomi la vista, e dopo mezz’ora crollo: un sonno greve m’attanaglia fino al fatale istante della sveglia che trilla. Ma torniamo a noi: dicevo che alzarsi alle 5 testimonia di uno spirito sedizioso. Vero: lo scrittore delle 5 produce opere taglienti, condite di una dose di politically uncorrect; è uno che attacca e colpisce. A quell’ora sovvengono ai giallisti le scene omicide; i finali, invece, pare sovvengano a stomaco pieno, quando l’ispirazione è grassa.

Non è finita: c’è chi si alza alle 8 e si tratta di un’alzata bastarda, né zuppa né pan bagnato: è l’ora buona per combinare qualcosa, ma è anche un po’ tardino per avere la calma necessaria. E chi si alza alle 9 o alle 10? E chi poi non si alza nemmeno alle 10? Beh, questi neppure si alzano, tanto la mattina è persa. Sono tutti coloro che, certo, possono fare gli scrittori, ma solo in maniera anticonformista, tornando ad assaggiare la notte come i maledetti dell’oppio.

Ma se questa è l’ora, che ne è del luogo? Lo studiolo in cui lo scrittore opera è quanto di più insulso e ordinario si possa dare: c’è il piano di lavoro (ingombro di libri e carte), c’è la seggiola (dotata, se non è poltroncina, di cuscino per glutei), c’è lo strumento di scrittura (il computer, che tutti dicono di detestare, ma è lì), c’è la lampada a paralume (i postmoderni hanno quella col braccio snodato), ci sono gli scaffali in sottofondo (quelli a portata di mano reggono dizionari e garzantine: di wikipedia non ci si può fidare). Coglie un senso d’umana pietà a guardare le foto degli scrittori con l’immancabile libreria alle spalle; ma diventa pena se si scorge, ben ripiegata, la coperta a quadroni per coprire le gambe d’inverno o, peggio ancora, il poggiapiedi per le caviglie gonfie.

Quali che siano le abitudini e i luoghi d’azione, la pratica della scrittura deforma il corpo. Riduce miopi e, da quando c’è il videoterminale, accelera la cataratta; produce una gobba sagomata e riduce la lordosi lombare, con l’inevitabile ernia discale; impigrisce l’intestino (e si fa necessario lo yogurth ai fermenti): ai più nervosi fa ingoiare ansiosamente l’aria – e possiamo sospettarne gli spiacevoli effetti.

La prevedibile esistenza dello scrittore e la dozzinale ovvietà del suo posto di lavoro sono avvilenti; dovrebbero essere condizioni umilianti, e invece egli sembra orgoglioso di avere alle spalle le enciclopedie comperate in edicola. È proprio vero che ci si piega a tutto.
Riconosco tuttavia che scrivere è doveroso. Come enunciò un saggio orientale (appartengo alla generazione che affidò al buddhismo le proprie emozioni; non peggio dei creduloni odierni) per conseguire il Nirvana bisogna nella vita fare un figlio, scrivere un libro e piantare un albero. Alzi la mano chi non ha fatto un figlio. Ora alzi la mano chi non ha scritto un libro. E ora alzi la mano chi non ha piantato un albero.

Troppi, siete in troppi a non aver piantato un albero. Vi manca proprio qualcosa. E allora mettete da parte la penna, mettete a riposo i genitali riproduttori e comperatevi una vanga. Per piantare un albero non ci vogliono tante regole, basta solo la forza delle braccia. E poi vangare è gradevole, e fa scordare la meschinità di chi scrive soltanto. E semmai rinuncia stoltamente a interrare un alberello.

Antonio Castronuovo