giovedì 7 marzo 2013

I sognatori diurni. Su "La grazia sufficiente" di Giancarlo Micheli

 


A distanza di anni dalla lettura di un celebre libro di Roland Barthes, La grazia sufficiente di Giancarlo Micheli (Campanotto, Udine, 2010) è romanzo rivelato, venuto come qualcosa che accade. Anzi riaccade come «impero dei segni», riaccade non già come mera narrazione sul Giappone, ma senza interferenze con l’idea formale dell’essai barthesiano riaccade come narrazione sospesa (sospeso è quest’haiku narrativo di Micheli) tra due realtà geoculturali, l’Occidente e (con atto d’amore e intelligenza) l’Oriente nipponico.
Più che per ideale sovrapposizione romanzesca all’Impero di Barthes, La grazia sufficiente, autenticando un déjà–vu critico–memoriale (che è dato puramente confinato nella volontarietà del memorabile), è saliente esemplare nell’identificarsi come romanzo di montaggio. La Grazia è un film narrativo a sequenze alternate ed interepocali, valga a confermarlo l’incipit primo–novecentesco del lavoro d’usciere di Taisho presso il Nagasaki Medical College (dove si tiene un convegno di linguistica) ovvero l’età della civiltà moderna, e l’affondo, della Nagasaki di Taisho vera e propria analessi all’imbocco del moderno, nella stupenda sequenza del naufrago del Tweede Liefde, Baruch Dekker, personaggio collettore tra l’Occidente olandese e l’Oriente, un europeo del Seicento cui l’orizzonte destinale è l’approdo nipponico.
Ma La grazia sufficiente, nei tre secoli aperti tra le vite di Taisho e Baruch espone un centro, espone l’idea del romanzo. Qui Micheli rivela – per rimanere dalle parti di Barthes – il senso obtusus, ciò che è apertura e disvelamento, ciò che spalanca l’infinito del pensiero. Al riguardo, è utile una premessa. Anzi, di più. È il riferimento ad un centro della letteratura mitteleuropea, al mito abbagliante dell’Azione Parallela, resa celebre da Robert Musil nell’Uomo senza qualità. La grazia sufficiente sembra collocarsi nel novero di quelle opere in cui il progresso della civiltà, la mitologia secolarizzata del Regno Millenario, l’ideale del mondo nuovo e la grandeur, espressa ad esempio dal colonnello Ishiwara nel prodigioso attacco del suo discorso («Il compito di civiltà che spetta alla nostra nazione…»), di per sé esprimono la condizione esemplare dell’idea, idea che nella Grazia è calibrata come mito personale di Taisho e Baruch. Sembra di udire l’eco di parole note ai fanatici dell’Uomo musiliano, parole che potrebbero affiorare dalle labbra del conte Leinsdorf o balenare come credi iperuranî dall’apostolo dell’Azione Parallela, Diotima.
Un romanzo dell’idea è quindi La grazia sufficiente, un’idea ancipite, poiché alternata tra Taisho e l’ingresso nel «reggimento di fanteria Shimamoto», e Baruch, naufrago, amante della pittura e del teatro, ostaggio a Deshima, idea quindi che si fa Storia maior (Taisho) e storia minor (Baruch), idea che costruisce un universale di pensiero, la Storia di Taisho e la storia di Baruch come modelli riflessi in un’ideale camera a specchi, la verità della vita vissuta. La vita di Baruch, la sua storia di nipponizzazione ontologica passa dalla cultura (e dal lavoro), poiché il capitano olandese si trapianta in Giappone, mentre Taisho vive nella Storia nipponica. Ma Taisho e Baruch, tra la Storia come azione bellica e la storia talvolta edulcorata (pittura, teatro), veicolano entrambi una spiccata inclinazione memoriale. Anzi, il ricordo o la féerie adempie una funzione di schiusura del tempo, vale a dire che la Storia di Taisho (la guerra) è abitata dalla storia (le «visionarie fantasticherie», la madre, il padre…) mentre la storia di Baruch (che è soprattutto la vita con Netsuki e Aikyo) è abitata dalla Storia (il glorioso passato del Liefde).
Se i tasselli memoriali della Grazia non segnalano presenze di proustismo nel narratore (Micheli narra in terza persona), d’indole proustiana è dunque il personaggio, non già per la mania di memorialità, ma per un certo modo di apparire della memoria come via che rigenera, così in Taisho come in Baruch, via che si rigenera nel memorabile. Ma la storia (maior e minor) e la memoria, il memorabile della vita, nella Grazia sembrano salire a un’acme, poiché condizione inderogabile della sua identità, a un saliente inatteso della narrazione: la violenza. Che è come dire che la Storia (maior e minor) si rivela quel che è: violenza dell’uomo all’uomo. La memoria è quindi un antidoto alla violenza, una droga necessaria a neutralizzare il reale per il sogno, il vero per l’ideale, l’immanente per l’idea trascendente.
Non a caso, appena il memorabile scava nella memoria di una recherche autobiografica (in Taisho e in Baruch), la violenza si fa nome della storia. Non vi è quindi confine tra l’orizzonte multiculturale di Baruch e le res gestae di Taisho, la violenza (la faida religiosa nelle visioni, la vita a Deshima per Baruch, la morte del compagno Taro sul campo di battaglia, la morte della madre per Taisho) satura la scena, brutalmente scardinando la tentazione del rivissuto memorabile, e così inchiodando il destino (anche del romanzesco), al vissuto tragico dell’esperienza.
La grazia sufficiente vira dunque altrove: il memorabile della memoria si fa immemorabilità nella violenza. Ma il destino di vita violenta, di storia violenta per il militare Taisho o per il “forzato” Baruch, tra la libera volontà di combattere con l’esercito giapponese (Taisho) o di esserne prigioniero (Baruch a Deshima), tra la guerra e la «vita in cattività», nella sintesi morale di Baruch matura in un’epopea del rifiuto. All’amico Cornelisz van Nejenroode e al dolore manifestato per la vita di Deshima (intesa irreversibile), Baruch oppone non già la speranza della redenzione, oppone semmai scetticismo riguardo alla «dottrina della predestinazione o della grazia sufficiente», un empito di scetticismo autenticato dall’epica fuga notturna dall’isola dopo avere ritrovato il proprio amore perduto, Netsuki.
Se Baruch sovverte l’idea di predestinazione (guadagnando alla storia l’aureola perduta della felicità), Taisho prova a sovvertire il destino, «incrollabile nella sua risoluzione di vedere la madre», benché al suo ritorno dalla guerra, Araki (un vicino di casa) confessi al giovane l’avvenuta morte della donna. Ricomporre la tela infranta della vita, per Baruch culmina nella riconquista del tempo perduto (il tempo ritrovato di Netsuki), nella cancellazione della storia come violenza, per Taisho nello sprofondamento al nulla, o meglio in una caduta apocalittica (la coscienza della morte materna) vissuta quale condizione preliminare e unica per ricollocare sé nel mondo, sia anche attraverso la più remota possibilità – che è parsa un’indimenticabile quanto involontaria citazione dell’Atalante di Jean Vigo –, l’esercizio dell’immaginario, rivedere come in sogno una figura di giovane donna (déjà–vu e desiderio), rivedere, nella potenza di un’epifania mentale, di un’ennesima razos visionaria, l’oggetto creaturale di un’allegoria, unica via per ricondurre al tempo dell’essere ciò che ormai non è più: la madre perduta, la vita sognata. 



                          Neil Novello 
 

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