sabato 13 aprile 2013

Per un nuovo Baudelaire

Ha visto la luce, dopo una lunga gestazione, una nuova traduzione dei Fiori del Male, nata da un assiduo, pluriennale lavoro di analisi e di raffronto delle diverse traduzioni italiane preesistenti. Mai come in questo caso, dunque, la traduzione (in specie la traduzione poetica) rivela e conferma la sua natura di atto essenzialmente critico, riflessivo ed autorifessivo, dato che non può non fondarsi su una consapevole analisi non solo del testo di partenza, ma anche dei testi d'arrivo ‒ dei metatesti ‒ cui esso ha dato adito ed occasione, e che hanno finito, sul piano della ricezione, per fondersi con esso, fino a divenirne inscindibili. Faccio riferimento all'opera di Francesca Del Moro, edita da Le Càriti (http://www.ibs.it/code/9788887657562/baudelaire-charles/fiori-del-male.html).
Qui non ci sono le "compensazioni" di cui parlava Fortini, i necessari e forzati compromessi fra la resa del senso e quella della forma (essendo del resto, la poesia, come insegna Valéry, una perpetua esitazione fra il suono e il senso). 

Qui c'è davvero, direbbe Quasimodo, una resa "equilirica", una corrispondenza pressoché perfetta, che arieggia addirittura le fluide oscillazioni prosodiche - giocate sulle sineresi, le sinalefi, la presenza-assenza delle vocali mute - dell'alessandrino, quella tensione interna che dal cuore e dall'anima del verso tradizionale (si pensi a Pascoli) sprigionerà poi il "nodo ritmico", i "movimenti lirici dell'anima", che pervadono il verso libero. La poesia, dice Dante, essendo "per legame musaico armonizzata", non si può infrangere, scomporre e ricomporre, come avviene nella traduzione, senza venirne snaturata. In casi - rarissimi - come questo, invece, quel legame musaico si trasfonde e rivive, come reincarnato, nel testo d'arrivo. La traduzione non è, qui, "metapoesia analogica", né "metapoesia mimetica" (per citare una dicotomia introdotta da alcuni traduttologi), non riecheggia o rispecchia, variamente alterandoli, i contorni dell'originale, né pretende di ricalcarli esattamente, in nome del feticcio della "fedeltà »: essa è, semplicemente, poesia, ed è metapoetica ed autoriflessiva nella stessa misura, esplicita o implicita, in cui lo è il testo originale - in cui lo è forse, inevitabilmente, ogni discorso letterario o filosofico, che sempre ripensa e ridiscute se stesso, i propri mezzi e domini, i propri intenti e riverberi.
Dal volume riproduco, per gentile concessione, la traduzione di un testo straordinario, tipico esempio, sul versante poetico, di quella critique poétique, di quel poème critique, insomma di quella compenetrazione e di quella fusione fra coscienza critica e intuizione lirica, fra sensibilità e riflessione, esperienza esistenziale e consapevolezza culturale, che costituì una delle note dominanti del simbolismo europeo, fin dai suoi albori e dalla sua essenza, e che sembra invece, oggi, essere andata smarrita, in una realtà in cui la creazione letteraria pare essere nuovamente regredita al mito o al feticcio della spontaneità e della naturalezza, e la coscienza critica sembra confinata nello specialismo e nel tecnicismo accademici, o viceversa dissolta nella frivolezza effimera delle cronache cultural-mondane, senza alcuna mediazione possibile.
I Phares condensano l'impressione visiva, e insieme la caratterizzazione tematica e psicologica e lo scandaglio  simbolico e semantico, tratti dalla contemplazione dei quadri, in metafore, analogie e suggestioni che spesso non trovano un esatto corrispettivo iconografico, una precisa rispondenza figurativa, ma nascono piuttosto dalla fusione, dalla sovrapposizione e dalla trasfigurazione operate dall'occhio interiore, dalla pura visione ricondotti alla loro sostanza profonda. La poetica dell'analogia agisce sul piano della critica creatrice non meno che su quello della creazione poetica, guidata da un surnaturalisme che trasfigura il dato naturale ora in preziosità e in artificio, ora in allucinazione e straniamento. 
Il «grido ripetuto», l'«ardente singhiozzo» trasmessi e riecheggiati di epoca in epoca, di generazione in generazione, fino a morire e spegnersi, come in olocausto, a piedi della Divinità, indicano la perpetuità, la rivificazione assidua della creazione, della tradizione, del pensiero, e insieme, forse, la loro ultima ed estrema vanità, il loro venir meno alle soglie dell'abisso, ale frontiere dell'indicibile.
Ma nell'atto stesso della traduzione quella corrente vitale e creatrice, quell'anelito consapevole e disperato, trovano uno dei loro mille echi, delle loro innumeri metamorfosi e trasfigurazioni. Il silenzio in cui le voci e i colori dell'arte vanno infine a spegnersi tornerà a risuonare e a parlare, indefinitamente, fino a che il testo verrà riletto, reinterpretato, ritradotto. La morta vita, la voce silenziosa dell'arte persistono, per questa via, proprio grazie al lavorio dell'interpretazione e della riscrittura. (M. V.) 



I FARI

Rubens, fiume d’oblio e giardino indolente,
letto di carne fresca dove non si può amare,
ma in cui la vita s’agita, fluisce eternamente,
come l’aria nel cielo ed il mare nel mare;

Leonardo da Vinci, specchio oscuro e profondo,
dove angeli incantevoli dal sorriso cortese
e misterioso appaiono in ombra sullo sfondo
dei ghiacciai e dei pini che chiudono il paese;

Rembrandt, pieno di murmuri, desolato ospedale,
d’un grande crocifisso adorno solamente,
dove prece di pianto dall’immondizia sale,
da un bagliore d’inverno trafitta bruscamente;

Michelangelo, luogo incerto dove schiere
miste d’Ercoli e Cristi vedi, e ritti levati
i fantasmi potenti che sul far delle sere
protendono le dita dai sudari strappati;

Tu che di ogni cafone la bellezza raccogli,
e la rabbia dei pugili, l’impudenza dei satiri,
uomo debole e giallo, cuore gonfio d’orgoglio,
o Puget malinconico, sovrano dei forzati;

Watteau, tu, carnevale, dove i più rinomati
cuori come farfalle, delle fiamme in balia
errano; lievi e fragili scenari illuminati
da luci che riversano sul ballo la follia;

Goya incubo pieno di cose mai sentite
e in mezzo ai sabba feti cotti nei calderoni
e vegliarde allo specchio, e bambine svestite,
che aggiustano le calze per tentare i demòni;

Delacroix, lago infesto di diavoli e di sangue,
da una selva d’abeti sempreverdi ombreggiato
dove fanfare strane sotto un cielo che langue
vanno come un sospiro di Wéber soffocato;

Queste maledizioni e lamenti di vinti, 
estasi, osanna, grida, pianti, Te Deum corali,
sono echi ripetuti da mille labirinti
sono l’oppio divino per i cuori mortali!

È un grido ripetuto da mille sentinelle,
l’ordine rinviato tra mille portavoce
un faro illuminato su mille cittadelle,
dei cacciatori spersi nelle selve è la voce.

Veramente, Signore, è la testimonianza
di dignità migliore che ti possiamo offrire
quest’ardente singhiozzo che nei secoli avanza
e viene sulle sponde tue immortali a morire.



(traduzione di Francesca Del Moro)

LES PHARES

Rubens, fleuve d’oubli, jardin de la paresse,
Oreiller de chair fraîche où l’on ne peut aimer,
Mais où la vie afflue et s’agite sans cesse,
Comme l’air dans le ciel et la mer dans la mer;

Léonard de Vinci, miroir profond et sombre,
Où des anges charmants, avec un doux souris
Tout chargé de mystère, apparaissent à l’ombre
Des glaciers et des pins qui ferment leur pays;

Rembrandt, triste hôpital tout rempli de murmures,
Et d’un grand crucifix décoré seulement,
Où la prière en pleurs s’exhale des ordures,
Et d’un rayon d’hiver traversé brusquement;

Michel-Ange, lieu vague où l’on voit des Hercules
Se mêler à des Christs, et se lever tout droits
Des fantômes puissants qui dans les crépuscules
Déchirent leur suaire en étirant leurs doigts;

Colères de boxeur, impudences de faune,
Toi qui sus ramasser la beauté des goujats,
Grand coeur gonflé d’orgueil, homme débile et jaune,
Puget, mélancolique empereur des forçats;

Watteau, ce carnaval où bien des coeurs illustres,
Comme des papillons, errent en flamboyant,
Décors frais et légers éclairés par des lustres
Qui versent la folie à ce bal tournoyant;

Goya, cauchemar plein de choses inconnues,
De foetus qu’on fait cuire au milieu des sabbats,
De vieilles au miroir et d’enfants toutes nues,
Pour tenter les démons ajustant bien leurs bas;

Delacroix, lac de sang hanté des mauvais anges,
Ombragé par un bois de sapins toujours vert,
Où, sous un ciel chagrin, des fanfares étranges
Passent, comme un soupir étouffé de Weber;

Ces malédictions, ces blasphèmes, ces plaintes,
Ces extases, ces cris, ces pleurs, ces Te Deum,
Sont un écho redit par mille labyrinthes;
C’est pour les coeurs mortels un divin opium!

C’est un cri répété par mille sentinelles,
Un ordre renvoyé par mille porte-voix;
C’est un phare allumé sur mille citadelles,
Un appel de chasseurs perdus dans les grands bois!

Car c’est vraiment, Seigneur, le meilleur témoignage
Que nous puissions donner de notre dignité
Que cet ardent sanglot qui roule d’âge en âge
Et vient mourir au bord de votre éternité!