martedì 25 marzo 2014

Elisabetta Brizio, "Ruffilli traduttore di Kavafis"





   Il sole del pomeriggio era la frazione del giorno preferita da Kavafis. Da un lato, abbiamo una luce che poteva essere goduta sotto il cielo, girovagando, com’era sua abitudine, per il centro storico di Alessandria dopo le ore di lavoro. La stessa luce, incidente e non riflessa, diviene implacabile se penetra negli interni, dove, per la sua inclinazione, nulla assorbe o lascia in ombra, mette-a-fuoco (incendia) fino i minimi contorni nel chiuso e nel profondo delle stanze. Il sole del pomeriggio (il cui declinare viene effigiato nello sfumare dei caratteri nel titolo di copertina) è la memoria che procura ricordi riafferrati come presenze nette («l’emozione d’amore ancora intatta»), di specie amorosa in particolare, con tutti i loro dettagli più o meno significativi. Dall’altro, il declinare della luce del pomeriggio favorisce l’irrompere della nostalgia sia per «le candele spente» del tempo che per le voci che «ci parlano nei sogni», voci che intercettano e restituiscono il ricordo insieme alla mancanza del suo oggetto nella solitudine della sfatta luminosità della sera.
Il sole del pomeriggio presenta un florilegio da Costantino Kavafis introdotto da Paolo Ruffilli, e da lui tradotto con Tino Sangiglio, dedicatario del volume insieme a Filippo Maria Pontani, già interprete e traduttore del poeta greco per i tipi della Mondadori. Nella sua introduzione Ruffilli focalizza alcuni punti fondamentali per una rilettura della poesia di Kavafis. Riconsidera anzitutto «il mito dell’ellenismo» come capitolo decisivo della modernità, canone-anticanone di una poesia caratterizzata da un mutamento di grado e ormai non più finalizzata alla celebrazione o alla valorizzazione di istanze etiche e civili. Una poesia che da tempo ha assunto un’accezione meditativa e riflessa, che ha spostato quasi esclusivamente all’interno la propria indagine, e che qui si avvale di toni epigrammatici ed elegiaci.
«La genialità di Kavafis – Montale osservava – consiste nell’essersi accorto che l’Elleno di allora corrispondeva all’homo Europaeus di oggi; e nell’essere riuscito ad immergerci in quel mondo come se fosse il nostro» – e sarebbe interessante far reagire, giustapporre e mettere a confronto e a contrasto la luce più sfumata e intrisa d’ombre del meriggio di Kavafis con quella nietzschiana dei meriggi montaliani, che invade e penetra il paesaggio immobilizzandolo, calcinandolo fin quasi a dissolverlo.
L’ellenismo è ricostituito da Kavafis fondendo eloquio comune e tradizionale purezza del linguaggio poetico. Una scelta che attenua le intense emozioni di cui la sua poesia si nutre, smorza la tensione sentimentale e la sua effusione, gli affetti d’amore per proibiti corpi efebici, per figure remotissime, perlopiù d’invenzione «nel vagheggiamento di una Storia superiore (Eurione, Lanis, Endimione)», Ruffilli dice, inquadrate entro una sonorità contratta, contenuta nei margini di un alessandrinismo versale circoscritto ma non cristallizzato.
La lingua greca, usata ormai marginalmente (percepita, paradossalmente, quasi come lingua minore, mentre in origine fu, com’è evidente, teatro espressivo del maggiore codice culturale dell’identità europea, grande crogiolo e filtro del carattere mediterraneo, tra matrice afrosemitica e fantasma indoeuropeo), diviene lo strumento per tutelare quell’esigenza di separatezza e di riservatezza che Kavafis perseguiva. Inoltre, quella greca si offriva come lingua ignara di censure. Logos, allora, congeniale al fine di «cedere ai Desideri» senza che «alcuna virtù ti dissuada», di dare libero sfogo anche al dato tangibile di una sensualità che rivive nella memoria («la memoria dei corpi», Ruffilli la chiama) e che si ricrea nell’attenzione del lettore. Perché il corpo d’amore passa, Kavafis dice, «per le sublimi contrade di Poesia», non soltanto quando l’amante è anzitempo rapito dalla morte.
Attraverso la ripetizione il tempo subisce un arresto, e la sospensione, Ruffilli osserva, è una strategia estetica che promuove una «trasposizione romanzesca», ottenuta anche con l’intercalarsi di prima e terza persona, dunque nella unificazione dell’elemento biografico e di quello dei motivi unanimi. Ruffilli dà insomma l’impressione di cogliere meglio di altri l’essenza del sempre asserito, più che documentato, ellenismo di Kavafis: la rilettura del microcosmo della lirica e dell’epigramma greci nell’ottica di un tempo sospeso, in chiave sì, appunto, epigrammatica, lirica, idillica, ma anche con risvolti orfici e iniziatici. Sotto questo riguardo, più che a Penna e a certe cose dell’ultimo Saba, cui verrebbe spontaneo accostarlo, Kavafis può apparire più vicino di quanto non sembri alla linea simbolista ed ermetica (che in fondo segnò, attraverso l’influsso, del resto più olimpico che alessandrino, più solenne che intimistico, del grande e oggi quasi dimenticato Sikelianós, i suoi esordi, come quelli di un Seferis).


                                                Elisabetta Brizio


Costantino Kavafis, Il sole del pomeriggio, trad. di Tino Sangiglio e Paolo Ruffilli  (Biblioteca dei Leoni, Castelfranco Veneto 2014)







domenica 16 marzo 2014

Gabriele Marchetti, "Carducci e noi: la metrica tradizionale e il verso libero"



Sarei curioso di domandare ad un qualunque studente di liceo cosa ne pensa di Giosuè Carducci; sa sa, almeno, chi sia stato. E lo chiederei anche a coloro che si sono lasciati da un pezzo gli anni della scuola dietro le spalle, nella speranza di non sentirmi rispondere che è il nome di una piazza, o di una via.
Ma soprattutto vorrei chiederlo ai poeti di oggi, ai tanti fautori sfegatati di quella libertà espressiva che ormai è diventata anarchia, degna figlia di questa epoca: mi rivolgerei, insomma, a chi usa il verso libero e finisce per abusarne per pochezza tecnica.
Se avessi il coraggio di porre la domanda, se davvero avessi tutto questo tempo da perdere, molto probabilmente scoprirei che non ne conosce le origini, o non gli interessano: perché non gli servirebbe a nulla, nei festival cui partecipa, sapere che Carducci ha aperto le porte, assieme a Baudelaire e a Whitman, all'unico tipo di versificazione che sa adoperare.
Ma mentre Baudelaire e Whitman tendevano verso una prosa poetica già slacciata dagli ingombri della metrica, Carducci applicò questa libertà ancora in nuce ad una poesia curatissima e regolare, nei suoi metri; il che dovrebbe apparirci come un paradosso.
Rinnovatore il Carducci lo fu sempre, fin dalle prime raccolte. A lui si deve il recupero di forme strofiche della letteratura delle origini ormai cadute in disuso. In questo lo aiutava certamente il suo attaccamento ai classici, che lo avrebbe portato a farsi editore di moltissimi testi della nostra tradizione per i tipi del Barbera e in seguito a reggere la cattedra di Letteratura Italiana a Bologna. L'uso sapiente e vario della metrica, se è già evidente nei testi di Juvenilia e Levia Gravia (dal sonetto al sonetto caudato, all'endecasillabo sciolto, alle strofe asclepiadee e saffiche) in Giambi ed Epodi giunge a far combaciare in uno il metro e le tematiche: l'attacco all'establishment italiano, degno di un Solone, sfrutta appieno le capacità polemiche della prosodia antica. Qui sta la dimostrazione dell'uso che il Carducci sapeva fare dei vari metri, che non si devono mai ad una scelta casuale, ma sempre ponderata, per far rendere al meglio la materia cantata.
Ma è nelle Odi barbare, che fin dal loro apparire suscitarono un clamoroso caso letterario, che Carducci porta a compimento il cammino già intrapreso da alcuni predecessori, più o meno illustri, per utilizzare nella poesia italiana i grandi metri classici.
Prima di lui, già fin dall'Umanesimo, c'erano stati tentativi di piegare la metrica latina alle regole di una prosodia affatto diversa: penso all'Alberti e al Dati che nel Certame Coronario del 1441 adoperavano esametri e strofe saffiche rimate (tre endecasillabi e un quinario); al Tolomei, che nei Versi et regole de la nuova poesia toscana usa anch'egli strofe saffiche; al Chiabrera delle odi anacreontiche e pindariche, al Fantoni, al Rolli (cui dobbiamo l'endecasillabo rolliano, che rende l'endecasillabo falecio con un quinario sdrucciolo e uno piano). A questi predecessori, il Carducci volle fare l'onore di riunirne i tentativi nel volume La poesia barbara nei secoli XV e XVI, dimostrando in ciò una grande onestà intellettuale, invece che prendersi tutto il merito.
Sono però le Odi barbare a rappresentare il tentativo meglio riuscito di rendere in versi accentuativi italiani i versi quantitativi latini. I metri strani, barbari (anzi, doppiamente barbari perché se lo sono per il lettore italiano, ancora di più lo sarebbero stati per il lettore latino o greco), a un semplice sguardo assomigliano, posti sulla carta, a lunghe frasi molto vicine alla prosa. Facciamo un esempio:

''tu sali e baci, o dea, col roseo fiato le nubi,
baci de' marmorei templi le fosche cime'',

che sono i versi iniziali di All'aurora. Sono entrambi più lunghi di un endecasillabo, pur mantenendo la grazia e la basilare musicalità del metro più famoso; ma hanno in sé una dose maggiore di libertà, permettono insomma al poeta una distribuzione migliore della sua materia, meno costretta dalle tre, quattro sillabe che andrebbero perse. Dovrebbero invece italianizzare l'esametro latino, che è un metro molto duttile e che Carducci rende di norma con un settenario e un novenario, e meno spesso con un senario o un ottonario e un novenario, accentuato quest'ultimo sulle sillabe 2 - 5 - 8 (e anche 3 - 5 - 8); e il pentametro latino, reso con due settenari, o un quinario  e un settenario.
Usati assieme, dovrebbero riprodurre il distico elegiaco, come in:

''quando a le nostre case la diva severa discende
da lungi il rombo de la volante s'ode''.

L'intento del Carducci, naturalmente, non poteva essere quello di sfociare alla bell'e meglio in una prosa che, per quanto artistica, per quanto lirica, avrebbe avvilito ai suoi occhi la divinità della poesia. Era piuttosto il desiderio di fornire alla poesia italiana nuovi strumenti per nuove sfide, perché fosse capace di suonare una musica adatta ad ogni soggetto. Ecco spiegata la varietà dei metri impiegati, tra cui:
la strofa saffica (di cui abbiamo già detto), senza rima, adoperata in Dinanzi alle terme di Caracalla:

''corron tra 'l Celio fosche e l'Aventino
le nubi: il vento dal pian triste move
umido: in fondo stanno i monti albani
bianchi di neve'';

la strofa alcaica (anticipata da Chiabrera), resa con un quinario doppio (piano e sdrucciolo), un quinario doppio (piano e sdrucciolo), un novenario, un decasillabo, come in Per la morte di Napoleone Eugenio:

''questo la inconscia zagaglia barbara
prostrò, spegnendo li occhi di fulgida
vita sorrisi da i fantasmi
futtuanti ne l'azzurro immenso'';

la strofa asclepiadea, resa con l'endecasillabo sdrucciolo (o un doppio quinario sdrucciolo), un settenario sdrucciolo e un settenario piano. Questi elementi possono comporsi diversamente, alternando tre endecasillabi sdruccioli e un settenario sdrucciolo, o due endecasillabi sdruccioli, un settenario piano e un settenario sdrucciolo, o anche due settenari sdruccioli nei versi dispari e due endecasillabi sdruccioli in quelli pari, o ancora quattro endecasillabi sdruccioli. Come si vede, una sorta di invito all'irregolarità;
l'archilochio, formato da due versi che possono essere raddoppiati a formare strofe di quattro versi, con una certa varietà di metri, come un esametro più un settanario piano o un senario sdrucciolo, o un esametro e un ottonario piano più un settenario piano, o ancora un endecasillabo sdrucciolo e un settenario piano più uno sdrucciolo:

''molosso ringhia, o antichi versi italici,
ch'io col batter del dito segno o richiamo i numeri

vostri dispersi, come api che al rauco
suon del percosso rame ronzando si raccolgono'';

il sistema giambico, formato di norma da endecasillabi (piani o sdruccioli) e da settenari (piani o sdruccioli) alternati tra loro, forma già usata da Fantoni e dallo stesso Carducci nei Giambi ed epodi;
il pitiambico, reso con un esametro e un settenario sdrucciolo:

''ecco, la verde Sirmio nel lucido lago sorride
fiore delle penisole''.

Anche in questo esiguo numero di esempi sembra di leggere i versi immortali degli antichi, per politezza, precisione, spirito di grandezza, anelito di bellezza.
Proprio questa ricerca (o meglio, si tratta qui nuovamente di una riscoperta) della bellezza sepolta dai secoli non avrebbe tratto giovamento dall'abbassamento della poesia a prosa. Carducci non l'avrebbe permesso, e per primo a sé stesso. Le sue Odi volevano essere sia la riproposizione di metri classici, ma anche, e in fondamentale accompagnamento ad essi (per non svilirli con la totale dedizione alla pochezza della modernità), la riaccensione dell'antica sensibilità dell'uomo davanti alla natura (sfiorando una sorta di paganesimo) e alla sua grandiosità. Il connubio non riuscì sgradito nemmeno a uomini come il Mommsen e il Wilamowitz, cultori e difensori dei valori antichi; tant'è che il primo, giunto nel 1879 a Firenze dalla Svizzera dove aveva fatto ricerche epigrafiche, inviò al genero un'edizione delle Odi Barbare. Il Wilamowitz tradusse in tedesco la famosa ode Alle fonti del Clitumno, presentata poi a Greifswald nel 1885 in una breve relazione nella quale parlava dell'autore in termini quasi entusiastici.
Non serve ricordare quanti, dopo le prime edizioni delle Odi, si scoprirono carducciani: basti l'esempio eclatante del giovane D'Annunzio, incline fin dagli anni del liceo ad imbeversi di ogni novità per riproporla di suo; o quello del Pascoli, che riprende molte delle soluzioni metriche del maestro, come le strofe saffiche di tre endecasillabi e un quinario, e ne migliora altre.
Di pari passo con l'emulazione, anche tematica, dannunziana (ma fu la malattia di una generazione: si vedano il Ferrari, il Panzacchi, il Marradi, si veda il Poema dell'adolescenza di Enrico Thovez, lo stesso che poi attaccherà molto violentemente il poeta di Valdicastello) e quella solo esteriore del Pascoli, all'inizio del '900 scattava in Italia una reazione al genere di poesia propugnato dal Carducci e dai suoi ''allievi''. Essa fu duplice, e antitetica nei modi e nei mezzi. Se i crepuscolari ripudiavano D'Annunzio e si ritiravano nelle loro stanze da ammalati o in vecchi giardini polverosi senza rinunciare alla metrica (ma rinunciando a quello slancio vitale che aveva guidato il Carducci anche in ambito politico), il futurismo era agitato da una furia giacobina che imponeva urlando una versificazione libera; ma lo faceva con la coscienza di ciò che stava chiedendo: non accadde perché sarebbe risultato più semplice fare poesia (e d'altronde, che poesia si poteva fare se anch'essa, come sistema di autori, stili, metri, tradizioni, etc., era il bersaglio del movimento?), quanto perché i partecipanti, Marinetti in testa, davvero volevano qualcos'altro. Gian Pietro Lucini, che teorizzò la natura del verso libero (anticipato dal Thovez che sosteneva ci si dovesse sbarazzare dei vecchi metri e della divisione in strofe per favorire l'uso di ritmi diversi a seconda del soggetto, come i poeti greci; e già nel 1887 il Fraccaroli, nel suo libro D'una teoria razionale di metrica italiana, suggeriva allo stesso modo l'idea del ritmo come elemento guida), nella prefazione alle sue Revolverate fu definito da Marinetti ''il più strano avversario (del futurismo), ma anche, involontariamente, il più strenuo difensore''. I futuristi lo tenevano quasi per nemico, alla solita maniera loro, rumorosa e in fondo innocua; ma dovevano a lui la base teorica del movimento, anche se Capuana con i Semiritmi (1888) rivendicò la propria parte di merito. Il verso libero, comunque lo si voglia considerare, è l'evoluzione naturale di tutta una tradizione; ma senza le Odi Barbare del Carducci sarebbe mancato l'anello di (dis)giunzione col passato. Una strofa come quella alcaica, ad esempio, poteva sembrare un caso di anisosillabismo, quindi quasi un invito a far pratica di irregolarità. Si pensi a certi versi di Montale e del Pasolini de Le ceneri di Gramsci, dove l'endecasillabo è la base a cui avvicinarsi o allontanarsi per numero di sillabe. 
Nel bene e nel male, il poeta maremmano fu il punto di partenza per la versificazione libera moderna e oggi ce ne siamo dimenticati. Lo abbiamo relegato, come tutte le letture liceali, in quel vasto gruppo di opere ed autori che non rileggeremo mai perché su di essi grava sempre, non ancora sbiadita, l'ombra lunga dell'imposizione scolastica.
Potremmo quasi dire, parafrasando il titolo di queste brevi note, che la questione si risolve a Carducci o noi: intendendo con Carducci la tradizione, le sue forme, le sue soluzioni, e con noi la stragrande maggioranza dei poeti odierni, che guardano lontano, sì, ma non riconoscono l'errore madornale che hanno sotto al naso: sono tutti prigionieri di una stessa palude dove li hanno precipitati la faciloneria, la scarsa cultura poetica, la furbizia nell'usare un metro che non è un metro, ma è prosa, come sosteneva Pierre Guiraud in un saggio del 1970. E quindi, almeno dal punto di vista tecnico, non scrivono nemmeno poesia, e non meriterebbero il nome di poeti.
Ma è quella particella disgiuntiva, quell'o, che mi fa paura. È  il foro d'apertura che precipita nel nulla della supponenza e dell'ignoranza, impedendo una risalita. Il passato è diventato il nostro nemico, il babau da evitare. La poesia deve smuovere le coscienze, deve agire, deve portare le persone a chissà quali fini. Deve essere actio, questo sostengono i poeti odierni, e non si accorgono che purtroppo non può più essere che lectio.
Una poesia fatta per riempitivo dei vuoti dell'esistenza, scritta per gioco, per vanteria, per farsi invitare ai festival, per guadagnarsi lodi ed applausi, non è nemmeno poesia perché non ha delle basi solide su cui poggiare. Se alla poesia si vuole affidare uno scopo che non sia quello di fissare per sempre la bellezza fugace con gli strumenti forgiati da una lunga tradizione, allora non serve che esista; ogni scopo materiale svilisce il canto, è solo propaganda.
E se proprio si vuole fare propaganda, si segua almeno la lezione del Carducci, che fu il più grande scuotitore di coscienze della sua età: ma con strumenti e regole, non giocando a fare i poeti col trucchetto di andare a capo ogni tanto.