venerdì 5 settembre 2014

Icone, nomi e segni dell'orrore. "Spettri di Nietzsche" di Maurizio Ferraris

 



Propedeutica a una riconsiderazione di Nietzsche che voglia prescindere da luoghi comuni, questa storia comincia con una lapide commemorativa datata «15 ottobre 1944», cioè con una anticipazione, relativa agli anni della perdita della rispettabilità, quelli di Torino cui la scritta sulla lapide si riferisce, e dove Nietzsche scrisse Ecce homo, gli anni della follia, della infermità e della morte. Si procede da qui controcorrente al fine di identificare le ragioni di un destino che diventa collettivo in quanto permeato di una tragica e unanime «volontà del nulla» quale stigma di un’epoca che ebbe in sorte l’assistere all’attualizzarsi del nome «dionisiaco». In seguito al cedimento della promessa di Dio, l’immotivazione a una vita priva di nuove fondazioni diviene generalizzata: «non solo – Ferraris scrive – un senso qualsiasi è meglio dell’assenza di senso, ma la stessa catastrofe è, letteralmente, meglio che niente. L’umanità europea procede inesorabilmente verso il peggio, moltitudini in cerca di distruzione si scaraventano verso il nulla come lemming». È l’alternativa alla noia, leopardiana e baudelairiana, alla chandra degli uomini superflui o del sottosuolo, alla melancolia di Freud, è l’orrore autodistruttivo che aleggia in Lenzerheide da Nietzsche impresso nel Nichilismo europeo, «una sorta di apocalisse senza redenzione, la rottura di qualsiasi messianismo o anche più modestamente di qualsiasi speranza».
Spettri di Nietzsche (Guanda 2014) è una anamnesi individuale e storica sulla quale regna una suspense reatroattiva che coinvolge sia Ferraris che il suo lettore: sulle acque plumbee del Congo di Cuore di tenebra che metaforizzano la vita di Nietzsche, e sulle tracce di Kurtz – di Nietzsche omologo, son semblable, son frère – si consuma la diffrazione dell’orrore nietzschiano. Il soggetto di questo libro è allora plurale: l’autore, che ricorda o ripete le vie percorse dal filosofo di Zarathustra, il suo oggetto (un uomo dapprima caduto al rango di un discriminato, poi salito a quello di profeta o precursore, il suo sogno inappagato di gloria e l’intempestivo e sconfinato riconoscimento), il pensiero dell’essere, la storia, e noi che viviamo ancora nella sua eco.
La forza dei luoghi (il libro è scandito da capitoli che assumono ognuno una città come riferimento, e il dramma lì depositato misto ai temi filosofici che vi si generarono) interferisce con la direzione degli avvenimenti. Geografia, biografia, biologia e storia vengono fatti interagire non soltanto per rendere l’intreccio o l’incontro tra privato e avvenimenti pubblici, visto che i dati biografici e quelli storici, malgrado il pressoché costante sfalsamento degli strati temporali, a un certo punto si divaricano, e più ci si inoltra retrospettivamente nella vita di Nietzsche più recenti sono le testimonianze addotte, puntualissime, indiscrete, compassionevoli, sconcertanti. Su tutte, la drammatica descrizione di Nietzsche da parte di Franz Overbeck nella lettera a Peter Gast. Se gli anacronismi possono anche rispondere a una strategia narrativa che si proponga di istituire intermezzi di racconto nel racconto ‒ una mise en abîme che renda tangibilmente la profondità di questa riscrittura di Nietzsche ‒, la loro funzione primaria resta quella di procurare un complesso di coreferenze volte a illuminare le ombre e le implicazioni tragiche di una esperienza individuale marcata da un coefficiente di orrore ancora riecheggiante nella storia in corso, in esiti meno drammaticamente clamorosi, ma in misura maggiore onnipervasivi: in due parole, il postmoderno filosofico con le sue conseguenze.
Conosciamo a grandi linee la biografia di Nietzsche, ma ci sorprende come nella trama di Ferraris appaia talora significativamente diversa – ad esempio, si chiarisce nel dettaglio come Elisabeth Förster non potesse nazificare proprio nulla dell’opera del fratello, contrariamente a quanto dicono non soltanto i manuali. Seguiamo l’avvicendarsi dei fatti e delle loro connessioni essenziali con i più capillari aspetti della cultura del tempo, parafrasati dall’esubero calcolatissimo delle testimonianze, dall’analisi focale e disincantata degli argomenti nodali della filosofia di Nietzsche riscontrati con le confessioni tratte dal suo epistolario. Ma sul momento non siamo troppo inclini a soffermarci sulle riflessioni di carattere strettamente filosofico, tanto questo inseguimento di un orrore e di un abisso via via sempre più definiti ci coinvolge con i suoi revenants e le sue sottoscritture, con l’inserzione dei numerosissimi appelli ai referti storici, all’arte, al cinema, alla musica, alle scienze della natura, ai corrispettivi lirici ogni volta delegati ad attestare – d’Annunzio su tutti – o a documentare una peculiare Stimmung. Sappiamo di dover tornare sulle pagine lucidissime relative al nichilismo, alla volontà di potenza, all’eterno ritorno, al dionisiaco, scoprendo che in fondo sono concetti coessenziali e aventi una origine comune, nel nome di una volontà che ha smarrito il suo spessore. Come il celebre frammento «non ci sono fatti, solo interpretazioni», il «progetto di Zarathustra – Ferraris osserva – rientra pienamente in questo clima: una religione per il mondo secolarizzato, un mito qualunque, quasi un pretesto per predicare, di certo un gesto per scacciare l’orrore un po’ più in là».
Anche per questa loro prossimità Ferraris contestualizza i grandi temi della filosofia nietzschiana in una struttura, per così dire, ritmica, espansiva, recuperandoli in successive riprese, dove variano di natura e quindi di tono, pervenendo a un livello secondo o terzo o ulteriore di visione e di incidenza, come in un climax che con progressione inversa ci trascini verso il fondo del fiume a soddisfare «una voglia di naufragio e di nulla», per poi affondare in un abisso («disperdersi, negarsi, annegarsi») infine sgravato nel compimento del «vieni, dolce morte» come nel corale di Bach, e ricomparire nel profilo spettrale in larga parte già distribuito lungo i capitoli del libro. Tutto si gioca in uno sfondo che sembra avere assorbito il potenziale sovversivo dell’eredità ideologica di Nietzsche, quasi la rovina fosse l’incarnazione della sua sensibilità malata che gli aveva ispirato l’iperbole: «io sono tutti i nomi della storia». «C’è chi è nato postumo», Nietzsche aveva scritto nella prefazione a L’anticristo. Tuttavia, se in quella sede la percezione della sua inattualità assumeva gli indeterminati contorni di un destino, di una fatalità, nelle successive contingenze storiche quel destino finì per dimostrarsi vero, a partire dalla ricezione e dalla decodifica alterna delle sue opere. Ma Nietzsche è responsabile degli esiti fattuali dell’enfasi insita in certi suoi aforismi o apologhi? E per quale motivo la sua dottrina è stata strumentalizzata ‒ assunta o biffata all’occorrenza ‒ sia dalla destra che dalla sinistra? Unicamente per la sua duttilità? Vale allora la pena di ritornare su alcune parti del libro (la suspense resta comunque, il perché ce lo ha spiegato Carola Barbero nel recente suo Filosofia della letteratura, benché Spettri di Nietzsche sia un libro di filosofia, ma non per canonem), di questa rifigurazione dalla struttura accumulatoria e oscillante tra un tempo senza fedi e scenari desolanti.
Una precisazione, fatta da Ferraris al termine di una presentazione di Spettri di Nietzsche: ciò che di Nietzsche ci affascina e ci appassiona è proprio questo tratto di anomalia, l’idea di un’esistenza fuori dell’ordinario e una dottrina talora inconclusiva che sfida il metodo della trattazione sistematica, l’extrametodica vocazione alla iperbole inesauribile e verbosa (una saturazione compensatoria delle mancanze di una vita possibile che Nietzsche ha visto solo tramontare? Ferraris non banalmente si chiede), l’aspirazione all’eclatante e insieme alla marginalità e al silenzio.
Enunciato e motivato nella postilla «L’imitazione dell’Anticristo», il modus operandi di Ferraris risponde alla sua disposizione a non deviare dalla historia, dal «contingente», dal «particolare», anziché tentarne una rielaborazione mitizzante. Interviene anche qui il realismo che trasferisce ad altro segno una mitologia esistenziale fin troppo lungamente esposta a simbolizzazioni, quel Nuovo Realismo che preliminarmente predica la letteralità e la partecipabilità di ogni argomentare. E volendo chiamare in causa una circolarità quasi necessaria che da Ecce homo ci riporta agli esordi (a uno spostamento circolare che investe anche i luoghi si fa riferimento nel paragrafo «Torino, 1888» dell’ultimo capitolo del libro, «Röcken, 1884-1900. Geologia della morale»), essa potrebbe inoltre risolversi in questa ostinata volontà di senso. Se «filologo», è stato detto, vuol dire «amico della parola portatrice di senso», e se filologici furono i primi studi nietzschiani (cui presto seguirono il distacco e una critica articolata), anche in questi termini la fine potrebbe saldarsi a un inizio già diffuso di fine. Come in queste parole di Jim Morrison, nelle quali Ferraris intercetta la zarathustriana «volontà di tramontare»: «This is the end, beautiful friend / this is the end my only friend...».


Elisabetta Brizio



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