mercoledì 28 maggio 2014

Giselda Pontesillli, "Adriano Olivetti, Editore"



Ripercorrendo il progetto editoriale attuato da Adriano Olivetti tra il '46 e il '60 con le sue edizioni di "Comunità", non si può non avvertire tra i libri da lui pubblicati un singolare collegamento, un'inconfondibile, anche se dapprima indefinibile, unità di intenti, pur se gli autori proposti, i temi affrontati, le rispettive discipline di appartenenza sono molti e diversi.
E' come se in questi libri parli variamente una sola voce; come se siano stati scelti per qualcosa che tutti, a loro modo, hanno e che li rende, in fondo, analoghi, unanimi.
Sappiamo da autorevoli testimonianze ( Zorzi, Ferrarotti ) che Olivetti sceglieva personalmente i libri da pubblicare e del resto lui stesso in un'intervista al quotidiano "La Stampa (maggio '59) dichiara: "La scelta dei titoli è esclusivamente mia".
Ma in base a quali criteri, li sceglieva?

Sia dalla Dichiarazione politica del Movimento Comunità (genn. 1953), sia dai vari scritti e discorsi di Olivetti (oggi in ristampa nelle riapparse edizioni di "Comunità"), sia in primo luogo dal suo inedito, straordinario modo di fare l'imprenditore, emerge chiaramente, a mio avviso, che egli esattamente nel senso illuminato, proprio in quegli stessi anni, dall'allora sconosciuto Jan Patočka non aveva un'ideologia ma una vita nell'Idea, o, sempre citando Patočka, non era un intellettuale, ma un uomo spirituale ( cfr. "L' idéologie et la vie dans l'idée" e "L'homme spirituel et l'intellectuel" in Jan Patočka, Liberté et sacrifice -Ecrits politiques- J. Millon, Grenoble 1990, p.41-50 e p.243-257).
Credo che questa fondamentale differenza sia presente, sia pure implicitamente, a tutti gli studiosi e testimoni dell'opera di Olivetti, i quali, dovendo sottolinearne, a un certo punto dei loro discorsi, la posizione meta-politica, morale, religiosa, culturale, fondata su valori spirituali, mostrano di avvertire, anche se non lo focalizzano speculativamente, che i suoi criteri di fondo erano ontologici, non ideologici.
In un suo scritto, al riguardo esemplare, Olivetti richiama tutti, "gli uomini, le ideologie, gli Stati" a liberarsi, cioè a sottomettersi nuovamente a ciò che -lui dice- "rimane eterno nel tempo e immutabile nello spazio: amore, verità, giustizia, bellezza": le Idee, le "autentiche e creatrici forze spirituali" -lui le chiama.

"Noi tutti crediamo nel potere illimitato delle forze spirituali e crediamo che la sola soluzione alla presente crisi politica e sociale del mondo occidentale consista nel dare alle forze spirituali la possibilità di sviluppare il loro genio creativo.
Parlando di forze spirituali, cerco di essere chiaro con me stesso e di riassumere con una semplice formula le quattro forze essenziali dello spirito: Verità, Giustizia, Bellezza e, soprattutto, Amore".
(da "Le forze spirituali" p.39-40, in A. Olivetti, Il mondo che nasce, Comunità Editrice, Roma/Ivrea, 2013).

In questi pensieri non c'è, a ben vedere, alcuna ideologia, perché Idee e "forze spirituali" non vengono definite, rappresentate, ridotte in contenuti positivi, bensì solo nominate e intuite nella loro indefinibile -eppure evidente- assoluta realtà, nella loro differenza ontologica da tutto ciò che è oggetto, o concetto.
Proprio per questo esse coincidono, per Olivetti, con la libertà: perché non sono imposizioni, categorie, precetti; ma puri appelli della trascendenza e quindi "motori immobili" della nostra liberazione, ricerca di libertà, pluralità.
Ma come si può concretamente rispondere a questo loro appello?
Tra gli altri studiosi di Olivetti, Beniamino de' Liguori (nuovo direttore delle edizioni di "Comunità") ha il merito di aver valorizzato in lui, la prioritaria dimensione dell'agire, risolutiva per comprenderne al meglio il pratico e niente affatto utopistico messaggio (cfr. Beniamino de' Liguori Carino, Adriano Olivetti e le Edizioni di Comunità (1946-1960), Quaderni della Fondazione Olivetti n.57, Roma 2008 ).
In Olivetti, "agire" significa innanzitutto, secondo me, confortare con il fare, col proprio impegno di uomo e imprenditore, la verità, la credibilità di ciò che pensa e dice, coerentemente con l'insegnamento paterno che gli è sempre presente:

"La luce della verità, usava dirmi mio padre, risplende soltanto negli atti, non nelle parole".
(da "Prime esperienze in fabbrica" p.30, in A. Olivetti, Il mondo che nasce, Comunità Editrice, Roma/Ivrea, 2013).

Ma poi, "l'agire" è per lui, come per Hannah Arendt, diverso sia dal lavorare che dal produrre opere: l'agire, che la modernità ha di fatto totalitariamente abolito, è la forma più alta e libera dell'attività umana, quella che rende pienamente umano l'uomo, quella in cui il lavoro, necessario per garantire la vita biologica, è gratificato e giustificato.
Chi lavora (l'operaio, che Olivetti aveva in fabbrica, come qualsiasi altro uomo) non deve, non può farlo solo per la riproduzione materiale dell'esistenza, per la vita biologica, ma anche per realizzare la propria vita umana più specifica, per poter agire.
L'agire è il prendere (o il seguire) un'iniziativa libera, rivolta alla Verità, al Bene, è mettere in movimento qualcosa di degno, di nuovo, di non prevedibile, di non meccanico, è pronunciare (o ascoltare) grandi parole, è decidere o anche solo riflettere con gli altri non strumentalmente, bensì disinteressatamente, è vivere nell'Idea -direbbe Patočka, "dare alle forze spirituali la possibilità di sviluppare il loro genio creativo".
L'agire è fondamentale non solo per dare senso al lavoro, ma anche per far comparire artefatti, opere: architettura, arte, poesia non ci sarebbero, non ci sono, senza coloro che, gli uni con gli altri, ricordano, tramandano, commissionano, incoraggiano la nascita.
L'agire -dice Hannah Arendt- è "la sola attività che metta in rapporto diretto gli uomini senza la mediazione di cose materiali": esso è dunque possibile soltanto con gli altri.
Soltanto in comunità -dice Olivetti; quella comunità che coincida spazialmente con una grandezza e una misura umane, ossia tali da non estraniare, non isolare gli uomini, bensì da permettere tra loro incontri confortanti, consueti, personali; quella comunità, cioè, a sua volta totalitariamente abolita, come ben spiega Nisbet in "La comunità e lo Stato" (Edizioni di Comunità, Milano 1957), dalla moderna società, dallo Stato.

"La gioia nel lavoro, oggi negata al più gran numero di lavoratori dell'industria moderna, potrà finalmente tornare a scaturire quando il lavoratore comprenderà che il suo sforzo, la sua fatica, il suo sacrificio -che pur sempre sarà sacrificio- è materialmente e spiritualmente legato a una entità nobile e umana che egli è in grado di percepire, misurare, controllare, poiché il suo lavoro servirà a potenziare quella Comunità, reale, tangibile, laddove egli e i suoi figli hanno vita, legami, interessi" (da "L'industria nell'ordine delle Comunità" p.45, in A. Olivetti, Le fabbriche di bene, Comunità Editrice, Roma/Ivrea, 2014).
[ Vorrei osservare in questo brano la centralità dell'inciso "-che pur sempre sarà sacrificio-" che conferisce al tutto un significato, un orizzonte non storicistico, né materialistico, bensì, direi, axiologico, autofinalistico ].

Possiamo dunque dire, in definitiva, che la terza via, di cui, riguardo a Olivetti, talvolta si parla non era una terza ideologia, alternativa a marxismo e capitalismo (che sarebbe come dire una terza "idolatria" -direbbe Olivetti con Simone Weil), bensì, propriamente, il richiamo, non parlato ma innanzitutto attuato col proprio agire e vivere, all' agire, come superamento concreto di ogni ideologia.
E' questo fondamento, questo rinnovato e rivoluzionario sentire ontologico, che guida l'Editore Olivetti nella scelta di chi pubblicare: chi, cioè, proprio in vario modo riconoscendolo, avvertendolo -in qualità di economista, filosofo, architetto, scienziato, sociologo, urbanista, sindacalista, religioso, poeta, si mostri libero, creativo, altamente competente e sapiente nella propria disciplina, determinato nell'opporsi alla desertificazione umana dei nostri tempi.
Con la sua casa editrice, Olivetti diceva di voler

"recare alla comprensione del tempo e del mondo in cui viviamo la voce [cioè la voce collegata, concorde] delle coscienze e delle menti ["coscienze" prima, e poi, in unità, "menti"]
più alte di ogni paese in un dialogo senza frontiere che al di là delle contingenze e delle polemiche [cioè al di là delle ideologie, dei partiti, delle divisioni] parlasse agli uomini delle loro mete, della loro vocazione e responsabilità.
(da Documento senza titolo, ASO, fondo Adriano Olivetti, sez. Ed. di Comunità, 22.620/2).


Il Catalogo, che su questi criteri Olivetti compone, è un'opera necessaria, mirabile, in cui tutti gli elementi (tutti i libri) collaborano, con la loro particolarità, alla ricerca dell'unità, sollevandoci, indicandoci un orizzonte, una meta.
Con questa sua libera, creativa opera editoriale, egli ci mostra compiutamente chi sia, chi debba essere l'Editore, in che consista il suo compito, il suo metodo, la sua insostituibile figura.
-"Editore": autore originale al pari del filosofo, dell'architetto, del poeta;
Autore degli autori: colui che li comprende, li collega, li rivela simili, o, proprio in quanto diversi, necessari gli uni agli altri, complementari; colui, dunque, che forma civiltà, cultura, comunità.
Così, in Olivetti, la composizione, la fondata architettura editoriale, illumina, include, valorizza reciprocamente, allude a connessioni, interazioni, soluzioni ulteriori.
Unità nella pluralità, unità nella libertà: Nisbet e Simone Weil, Schubart e Marlin, Berdiaev, De Rougemont, Forster, Dawson, Mumford, Gutkind, Gropius, Le Corbusier, Huizinga, Schumpeter, Kelsen, Lippmann, Soloviev, Assunto.
-Ancora oggi, ci sono, ci devono essere persone che possano comprendersi, collegarsi: agire.
Ma, come dice Olivetti,
"questo dare, questo conferire a un gruppo di uomini l'energia vitale capace di uno sforzo creativo al di sopra dello sforzo comune, appartiene al Mistero, è istanza segreta che la Provvidenza soltanto può, quando vuole, concedere" (da A.Olivetti, Democrazia senza partiti p.69, Comunità Editrice, Roma/Ivrea, 2013).


                                                                       Giselda Pontesilli

mercoledì 21 maggio 2014

Gabriele Marchetti, "La lezione di Mallarmé"





(Paul Gauguin, ritratto di Mallarmé per la traduzione francese del Corvo di Poe)

Mi sono chiesto spesso se fosse possibile imparare qualcosa da un poeta così particolare, così ostico, come Stéphane Mallarmé; se questo annoiato professore di inglese, che si era messo in testa di fornire il Livre definitivo, ci avesse lasciato una lezione ancora valida, qualcosa di applicabile anche oggi che la poesia ha sostanzialmente fallito nel raggiungere il pubblico, rispetto ad altre forme più popolari di arte (la musica, il cinema).
Il compito della poesia, secondo Mallarmé, era indicare, indagare e infine dipanare il mistero dell'Essere. Una missione da portare avanti con l'unico strumento a disposizione del poeta, e cioè le parole, senza ricorrere al tramite di sistemi filosofici, idee politiche o religiose; semplicemente usando le parole, a cui veniva donato un senso nuovo che mai avevano avuto, come se fossero adoperate per la prima volta. Da qui la frammentarietà dell'opera di Mallarmé, cui è toccato il compito impossibile di ricostruire dal nulla, o quasi, un'arte e il suo intero linguaggio; da qui la difficoltà nel leggerlo e comprenderlo. Perché con il rinnovamento del linguaggio è andato di pari passo il rinnovamento delle immagini che formano l'universo poetico di Mallarmé, e con esse il rinnovamento delle modalità di ricezione della realtà, almeno da parte del poeta.
Prendiamo un testo come Tristesse d'été (1864), giustamente uno dei suoi componimenti più celebrati. Si tratta di un sonetto, quindi siamo di fronte ad una forma in qualche maniera classica di poesia. Questo è vero a prima vista (e del resto, lo stesso Rimbaud scriverà sonetti); ma l'incastro delle immagini una sull'altra, quasi una dentro l'altra, dimostra una perizia tecnica altissima. Le soleil che splende sur la sable è il punto d'inizio, l'attimo bloccato per l'occhio del poeta in un'epifania sfuggente ma eternabile; e l'oro del sole richiama l'oro dei capelli nel cui incavo flessuoso si prepara un calore che brucia l'incenso delle guance. Il filo conduttore è la luce, il suo calore; che aprono anche la seconda quartina (ce blanc flamboiement), dove l'orizzonte si allarga fino a comprendere altri scenari, esotici, immensamente lontani (nous ne serons jamais une seule momie / sous l'antique désert et les palmiers heureux!, vv. 7-8, accenno ad un fantomatico Egitto); e Mallarmé, nella prima delle terzine, batte ancora l'accento sul calore, parlando di rivière tiède, ma subito dopo ecco irrompere il mistero, ce Néant que tu ne connais pas. E il ponte con gli ultimi tre versi scaturisce dall'idea della fluidità: le fard pleuré richiama, nel gocciolare, l'immagine del fiume che scorre. I due versi finali,

pour voir s'il sait donner au coeur que tu frappas
l'insensibilité de l'azur et des pierres
(vv. 13-4),

sono la metafora della Poesia intesa come arte del disvelamento dell'Essere: le lacrime piante sono le parole che (e qui Mallarmé si chiede sinceramente, spaventato com'era dalla propria missione, se la lingua, una qualsiasi lingua sarà mai sufficiente a portarla a termine) dovrebbero essere all'altezza del loro compito immane; il cuore spaccato è la menomata sensibilità dell'uomo moderno, ormai assordata dal mondo e resa cieca dal progresso materiale al quale non si è accompagnato ancora quello spirituale. L'azzurro e le pietre rappresentano la natura, il fondo contro cui le ombre delle cose, come nel mito della caverna di Platone, si muovono lasciandoci intuire le cose stesse. E da quel fondo, meno costretto che gli uomini del racconto platonico, il poeta deve saper strappare la verità senza farsi ingannare dal velo sottile dei simulacri; deve capire e far capire l'Essere che si agita e agisce sotto la superficie quieta come la forza vitale sotto la pelle, e che assume la forma del mistero. Termine, questo, su cui Mallarmé avrà meditato a lungo prima di adoperarlo, pur nelle pagine giovanili de L'Art pour tous. Possiamo intenderlo nel senso di una verità segreta, nascosta, da scoprire; una sorta di viaggio di conoscenza e nella conoscenza, e anche più largamente un rito di iniziazione a verità e sapienze negate per sempre ai più. Il poeta è, come il sacerdote, l'intermediario (l'unico? Mi piacerebbe rispondere di sì) tra il lettore e la verità, che per il lettore sarebbe forse troppo intensa, troppo pura per colpirlo e lasciarlo così com'era prima di conoscerla. Il poeta agisce come la voce prestata alla Poesia, la quale esiste già prima, in modo assoluto e cioè sciolta dal mondo, dalle cose; perché esisterebbe pur sempre la Poesia, anche senza i poeti, ma mai il contrario. Anche se oggi, abbassando lo sguardo sulla marmaglia pullulante dei poeti autoproclamati, vediamo gente che con la Poesia non c'entrerà mai nulla.
Ma (tralasciando questi innumerevoli incidenti di percorso) la parola può davvero ridarci la realtà pura? Ha in sé questa forza, questo dono? Prendiamo un altro famoso testo di Mallarmé, quell'Aprés-midi d'un faune a cui egli lavorò fin dal 1865, e che fu poi musicato da Debussy nel 1894. E', forse, la summa della sua arte, se è possibile che la frammentarietà abbia mai una riconciliazione artistica definitiva, una qualche ricostruzione possibile. Per chi ha ascoltato almeno una volta l'accompagnamento musicale creato apposta per coronare e introdurre questo testo, il richiamo ad atmosfere di sogno, poco o niente terrene, dovrebbe essere familiare. Quella frase suggerita dal flauto, che ritorna ondeggiando come un leit-motiv, contiene già tutta la bellezza latente di un meriggio dorato, il canto smorzato dei rari uccelli, la luce (di nuovo) e il silenzio delle acque.
Ma restiamo, più umilmente, alle parole. L'atmosfera evocativa che avvolge il lettore ci presenta subito le protagoniste mute del poemetto, le ninfe, che il fauno vuole eternare. Quel verbo, perpétuer, indica fin dall'incipit la missione del poeta: tramandare, rendere eterna, intoccabile, fissata per sempre e in un continuo ritorno la bellezza cosicché non ne vada sprecata o persa un stilla. Ed ecco la prima immagine estasiante, che ci cala lentamente in un'altra, dimenticata dimensione:

                                                       Si clair
leur incarnat léger, qu'il voltige dans l'air
assoupi de sommeils touffus
(vv 1-3).

Abbiamo già tutto un paesaggio, concentrato in pochi versi, in leggerissimi accenni: l'aria assopita rende l'idea del pomeriggio, il tempo del riposo, quando il sole scalda più forte; i sogni sono touffus perché fatti all'ombra di qualche albero. C'è insomma uno spostamento delle caratteristiche fisiche che causa lo smarrimento della materialità ordinaria. E siamo solo all'inizio. Nel prosieguo immediato, dopo essersi domandato se abbia solo sognato l'incontro con le ninfe, il Fauno s'aggira pigramente lungo bords siciliens d'un calme marécage, impegnato in un monologo che si trasforma ogni tanto in canto, in cui egli parla della propria perizia come suonatore di flauto. C'è, da parte di Mallarmé, un accenno nemmeno tanto velato alla propria poesia,

les creux roseaux domptés
par le talent
(vv. 26-27),

capace di cantare, e sembra impossibile per chiunque,

                                  quand, sur l'or glauque de lointaines
verdures dédiant leur vigne à des fontaines,
                                  ondoie une blancheur animale au repos:
et qu'au prélude lent où naissent les pipeaux
ce vol de cygnes, non!, de naiades se sauve
                                   ou plonge...
(vv.27-32).

Segue l'interruzione improvvisa del canto del fauno, come se fosse già stato raggiunto un qualche limite della conoscenza umana, come se la paura di scoprire troppo, o una verità troppo grande, gli frenasse la lingua ancora impastata di sonno.
La distanza dal mondo presente aumenta (alors m'éveillerai-je à la ferveur première, / droit et seul, sous un flot antique de lumière, vv. 35-36), mentre ne svaniscono già i contorni noti; ed eccoci in atmosfere da fiaba, da idillio teocriteo (vedi l'accenno alla Sicilia), con venature simboliche che indagano il mistero, la sua bellezza (ce doux rien, v. 37; une morsure / mystérieuse, vv. 39-40). Pare di essere lì, tra i giunchi, nel silenzio, a guardare un sole di bronzo (l'heure fauve, v. 32) che illumina il vero aspetto delle cose e allo stesso tempo ci rende ciechi a tutto il resto. E un'immagine spicca su tutte,

         arcane tel élut pour confident
le jonc vaste et jumeau dont sous l'azur on joue
(vv. 41-42),

dove la natura è indicata come depositaria della verità, e del mistero che la traveste. La bellezza è ovunque (la beauté d'alentour, v. 44), ma è impedita dalla nostra pochezza ricettiva (par des confusions / fausses entre elle-meme et notre chant crédule, vv. 44-45), aiutata solamente dal sogno, che però è fugace apparizione e più fugace sostanza (évanoir du songe ordinaire de dos / ou de flanc pur suivis avec mes regards clos, / une sonore, vaine et monotone ligne, vv. 47-49).
Segue un'immagine vertiginosa, dove abbiamo la metafora del disvelamento dell'Essere, del suo infinito mistero:

ainsi, quand des raisins j'ai sucé la clarté,
                                    pour bannir un regret par ma feinte écarté,
                                   rieur, j'élève au ciel d'été la grappe vide
    et, soufflant dans ses peaux lumineuses, avide
                  d'ivresse, jusq'au soir je regarde au travers
(vv. 55-59),

dove la clarté richiama l'idea di ciò che sta sotto la superficie (ses peaux lumineuses), come luce imprigionata dalle tenebre; e il semplice involucro che nasconde la verità è appunto il mistero (la grappe vide), che usando della bellezza come un' esca attrae l'uomo e lo spinge a cercare qualcos'altro, ciò che può soddisfare la sua ivresse.
Ed ecco la ripresa del canto. Il fauno si rivolge alle ninfe, richiamando alla loro memoria l'assalto sessuale di cui le ha fatte oggetto; ed è di nuovo una metafora, molto larga, sulla missione del poeta che deve attaccare il velo della realtà, strapparlo di dosso alla natura per vedere cosa c'è sotto:

mon oeil, trouant les joncs, dardait chaque encolure
                              immortelle
(vv. 61-2).

Ma la visione scompare velocemente, inafferrabile se non per un attimo:

et le splendide bain de cheveux disparait (v. 64);

e quell'attimo è bastato, forse, per sciogliere il mistero:

mon crime, c'est avoir, gai de vaincre ces peurs
                                 traitresses, divisé la touffe échevelée
                 de baisers que les dieux gardaient si bien mélée
(vv. 80-82);

ma è solo illusione, la parola non basta a trattenere la bellezza, il tempo non si ferma e la visione non è mai più fissabile:

de mes bras, défaits par de vagues trépas,
                                     cette proie, à jamais ingrate se délivre
                   sans pitié du sanglot dont j'étais encore ivre
(vv. 88-90).

E anche se, nel finale del poemetto, si fa strada la folle speranza di ritrovare altrove, in altre occasioni, sotto altri cieli, la stessa bellezza per ora tornata nell'alone del mistero:

vers le bonheur d'autres m'entraineront (v. 91),

la certezza del poeta è che

sans plus il faut dormir en l'oubli du blasphème (v. 105)

dove blasphème rappresenta la vita quotidiana, la noia dell'esistenza che non incoccia mai nello svelamento del mistero, perché la normalità è il regno delle vecchie parole che non sanno, e non possono, ricercare e ricreare l'essenza del reale.
Nel poemetto emergono, in perfetta luce, due delle caratteristiche principali dell'arte di Mallarmé: un'immaginazione folgorante e la perfezione tecnica. A cui, splendido corollario, andrà aggiunta la scomparsa del poeta dal suo stesso testo.
Il poeta qui si ritrae: chi parla? Mallarmé? O piuttosto il Fauno, cui Mallarmé presta, come un megafono, la sua bocca? E quel susseguirsi di immagini concatenate ci inabissa in uno stupore che ha del primordiale, dell'edenico; siamo noi e il mistero, faccia a faccia, senza più veli. Le parole sono solo i segni dell'essere, mai l'essere stesso; ma con Mallarmé arriviamo così vicini a quell'essenza che pare di sentirne l'odore.
E in fondo è lo stesso Mallarmé che si chiede, invertendo le parti e usando la voce del fauno, ho amato un sogno?, per intendere da subito che lo svelamento del mistero non è possibile con i mezzi comuni, con la sensibilità comune. Serviranno parole nuove, al poeta che vorrà penetrare l'Essere fino al cuore mai toccato. E', insomma, la sofferta ammissione di una sconfitta già annunciata? Vedendo quanto poco la lezione di Mallarmé echeggi nei poeti di oggi, direi di sì.
Guardiamo alla lirica italiana del '900. In Montale e Quasimodo abbiamo una certa sopravvivenza della poetica del mistero di Mallarmé: questo essenzialmente perché in loro l'attenzione al mondo naturale è ancora vivissima.
Ossi di seppia di Montale non bisogna di presentazioni; forse, sarà necessario segnalare qualche traccia, ancorché evidente, di una poetica tendente alla scoperta del mistero, come per Mallarmé. Penso ai famosissimi versi de I limoni:

        in questi silenzi in cui le cose
s'abbandonano e sembrano vicine
a tradire il loro ultimo segreto,
talora ci si aspetta
di scoprire uno sbaglio di Natura,
il punto morto del mondo, l'anello che non tiene,
il filo da disbrogliare che finalmente ci metta
nel mezzo di una verità
(vv. 22-29),

dove il mistero è visto in una luce negativa, come l'errore che svela la verità, e non come la verità stessa. La raccolta è attraversata da questi tentativi di scoprire il pertugio in cui sbirciare, ma sempre come se fosse il caso a decidere, e mai la volontà del poeta, come testimoniano certe scelte lessicali:

                                       tutto divaga
dal suo solco, dirupa, spare in bruma

(Il canneto rispunta i suoi cimelli, vv. 11-12),

vedrò compirsi il miracolo
(Forse un mattino andando in un'aria di vetro, v. 2),

accosto il volto a evanescenti labbri
(Cigola la carrucola del pozzo, v. 5),

ti ridona all'atro fondo,
visione, una distanza ci divide

(ibid., vv. 9-10),

in lei l'asilo, in lei
l'estatico affisare; ella il portento
cui non sognava, o a pena, di raggiungere
l'anima nostra confusa

(Fine dell'infanzia, vv. 75-78),

le molli parvenze s'infransero
(Vasca, v. 8),

è il segno d'un'altra orbita
(Arsenio, v. 12),

uno sterile segreto,
un prodigio fallito

(Crisalide, vv. 39-40),

e non vedremo sorgere per via
la libertà, il miracolo,
il fatto che non era necessario!

(ibid., vv. 65-67),

la vita che si rompe nei travasi
segreti a te ho legata:
quella che si dibatte in sé e par quasi
non ti sappia, presenza soffocata

(Delta, vv. 1-4).

E' quasi come se Montale rifacesse in negativo, ribaltando le parti, quello che suggeriva Mallarmé: qui c'è un'arrendevolezza al reale, lo si subisce, rassegnati al proprio ruolo, incapaci di agire titanicamente verso di esso. La scoperta, qui, è casuale; mai cercata, mai davvero voluta (ci si aspetta), perfino passiva (ci metta), come una lunga attesa che non si può sapere se sarà mai appagata davvero. In Mallarmé era il poeta / fauno a provocare la natura per farla aprire. E poi in Montale la scoperta sembra riservare quasi un dolore, uno spavento, se compiuta sul serio; come se la sicurezza dell'uomo moderno potesse essere scossa (e siamo tra le due guerre) da qualcosa di troppo più grande di lui.
Nel primo Quasimodo sparisce questa passività, e manca pure il terrore di ciò che c'è dietro il velo della natura. L'aspetto divino del reale (il mistero, in fin dei conti) contiene in sé la salvezza. Il poeta stesso appartiene in pieno alla natura, ne fa parte senza intermediari: sono molti i casi di versi in cui la costruzione sintattica ci mostra il poeta sullo stesso piano della natura che sta cantando, anzi dentro di essa, anzi è essa stessa. Questo sentimento di totale appartenenza va forse oltre la soglia tracciata da Mallarmé, che manteneva al poeta un ruolo distinto dall'oggetto del suo poetare; in Quasimodo non c'è un confine, non c'è una distanza a separare soggetto e oggetto del disvelamento, un po' come nei lirici greci da lui tradotti: il sentimento è il medesimo. Il poeta è la natura, la natura ha in sé il mistero, dunque il poeta sa già il mistero. Nei versi di Ed è subito sera e di Oboe sommerso mancano infatti quelle connotazioni negative della scoperta che invece erano ben presenti in Montale; come se la cancellazione della soglia fosse inevitabile, e senza alcuna conseguenza:

e ricompone le sepolte voci
                                                  dei greti, dei fossati,
dei giorni di grazia favolosi

(Ariete, vv. 6-8),

dormono selve
       di verde serene, di vento,
pianure dove lo zolfo
era l'estate dei miti
immobile

(Dormono selve, vv. 4-8),

a me
fossile emerso da uno stanco flutto

(Dammi il mio giorno, vv. 10-11),

mi cerco negli oscuri accordi
di profondi risvegli

(Convalescenza, vv. 5-6),

dove abbiamo anzi una pacificazione, un riconquistare mondi e vite perduti, che sembravano cancellati per sempre;

mi parve s'aprissero voci,
                                                che labbra cercassero acque,
che mani s'alzassero a cieli

(I morti, vv. 1-3),

io tento una vita:
ognuno si scalza e vacilla
in ricerca

(Curva minore, vv. 12-14)

e qui si può notare l'uso dei verbi, che appartengono all'area semantica della scoperta (s'aprissero, e quindi con un moto spontaneo, non imposto, non violento; cercassero, che denota il desiderio della scoperta);

e tutto mi sa di miracolo
(Specchio, v. 7),

affermazione che tradisce un'apertura fiduciosa del poeta alla natura, al mondo, che ha del mistico; e addirittura

in me un albero oscilla
da assonnata riva,
alata aria
amare fronde esala

(L'Eucalyptus, vv. 6-9),

scena che ricorda qualche passaggio, o almeno l'atmosfera generale, del Faune; e ancora

fatta ramo
fiorisce sul tuo fianco
la mia mano

(Senza memoria di morte, vv. 10-12),

dove l'antropomorfizzazione è al contrario.
La natura mantiene in Quasimodo una presenza fortissima, come appunto nel Montale degli Ossi; ma qui, come detto, c'è la totale sovrapposizione di natura e poeta, di immagine e voce che la racconta. La lezione di Mallarmé è insomma vivissima: l'io del poeta non pesa sul testo, non usurpa nessun ruolo, nessuno spazio, perché anche dicendo io si intende quasi automaticamente (e si vede, leggendo) la natura.
Ma c'è un'altra presenza importante, nel '900 poetico italiano, che vorrei esaminare, e cioè Pier Paolo Pasolini, uno dei nomi più duraturi, influenti e forse (non per causa sua, ma dei suoi odierni imitatori incapaci) deleteri della nostra poesia. La sua figura è andata oltre quella del poeta; è stata, per molti e in tempi difficili, la coscienza che mancava, una guida nelle tenebre di ogni giorno. Il che esula dai compiti di un poeta, è un di più pericoloso.
La prima prova poetica di Pasolini, giovanissimo, è quel libricino intitolato Poesie a Casarsa che, onore raro, ricevette una positiva recensione da parte di un transfugo Gianfranco Contini, riparato in Svizzera durante gli anni feroci della guerra. La breve raccolta inanella scene di vita di paese, quasi totalmente simboliche, che in alcuni passaggi richiamano forse, anziché la polita levigatura di Mallarmé, lo stile del più cantabile Verlaine. La natura è, come per il Montale degli Ossi, lo specchio in cui il poeta vede riflesso se stesso; e i suoi ritmi, le sue cerimonie, le sue vittime (quanti morti, in questi pochi versi) disegnano una parabola personalissima che trova anche nella scelta della lingua, il dialetto friulano, una cifra nuova, diversa. Si potrebbe vedere in questa scelta la necessità di un nuovo sistema di parole da adoperare per descrivere quel mistero che ancora tormentava i poeti, così come Mallarmé voleva ridefinire la lingua poetica dalla base. La musicalità dei versi in friulano è innegabile; così come è innegabile che le sonorità un po' aspre del dialetto diano una maggiore ampiezza alle immagini descritte: o almeno, le ricoprono di un alone di mistero che agisce già sulla parola, prima che sul concetto espresso. Questa misteriosità di suoni rende speciali anche le immagini più semplici (e questa prima raccolta pasoliniana non ha l'ardire delle seguenti, ma si muove proprio tra piccole cose, tra paesaggi familiari descritti con pochi tocchi leggeri):

serena
la sera a tens la ombrena
tai vecius murs: tal sèil
la lus a imbarlumìs

(O me donzel, vv. 12-15),

la siala a clama l'unvièr
-quant ch'a cianta la siala
dut tal mont a è clar e fer

(Li letanis dal biel fì, I, vv. 1-3),

i vardi il soreli
di muartis estàs,
i vuardi la ploja
li fuèjs, i gris

(ibid., III, vv. 17-20),

co la sera a si pièrt ta li fontanis
il me paìs al è colòur smarìt

(Ciant da li ciampanis, vv. 1-2),

blanc per i pras
scur par il sèil,
il bot da l'Ave
a no'l à pas

(Fiestis di me mari, vv. 1-4).

Sono scene dove appare una natura dalla forte presenza umana, e potremmo quasi definirle quadretti di paese. Ma ecco il mistero, improvviso:

i soj tornàt di estàt.
E, in miès da la ciampagna,
se misteri di fuèjs!

(Fevràr, vv. 9-11),

sai ben jo se ch'a trima
tal paìs sensa pas.
Me mari a era fruta
e chistu muàrt sunsùr
al passava pal còur
sidìn dai vecius murs

(La domènia uliva, vv. 45-50).

Da queste immagini, che paiono e sono sogni di un adolescente dal cuore pieno di poesia, Pasolini passerà ad altre, totalmente diverse, mosso da un impeto che del poetico ha ormai poco.
Questa vera e propria rottura, già iniziata dal Quasimodo impegnato del bienno tragico 1943-45, parte da un allontanamento dalla natura. La poesia tenta la partecipazione alla vita, alla guerra, ma fallisce perché le sue forme, le forme che dovrebbero bastarle a decifrare il mistero naturale, che è eterno, vanno in corto circuito se adoperate per il presente transeunte: e diventano forme di altro genere, della narrativa, del giornale, della canzone popolare, della propaganda. Il clima saturato di politica, nato per reazione a vent'anni di silenzio imposto dal regime, finisce per subissare di impoetiche annotazioni la poesia. Non sfugge a nessuno che Quasimodo, come poeta, abbia accusato un calo vistoso in Giorno dopo giorno, con risultati scarsi se messi a confronto con quelli raggiunti nelle prime raccolte (si sarebbe ripreso in seguito, senza però mai tornare ai livelli prebellici); e su questa china che scende e porta ad un imbastardimento della poesia lo ha seguito Pasolini. Dopo lo sfolgorante esordio di Poesie a Casarsa, ha preso anch'egli la via della poesia impegnata dove mantiene sì un certo tono, ma forse solo ne Le ceneri di Gramsci (vero capolavoro di poeticità), per perderlo poi definitivamente nelle raccolte successive dove non è più la Poesia a dargli da parlare, ma qualcosa di troppo terreno perché ne escano frutti degni. E lo stesso Montale, il grande vecchio della nostra poesia, aveva già perduto lo smalto che, dagli Ossi sino alla Bufera, aveva mantenuto la sua voce ben al di sopra di tutte le altre. Ora quella voce appariva bolsa, senza più fiato.
L'allontanamento dalla natura, operato, scelto, subìto da questi tre autori, da Pasolini in poi ha aperto la via ad una poetica che ha messo al centro dell'opera il quotidiano, anche quello più becero e schifoso; sembra quasi, se si ha lo stomaco abbastanza forte da reggere più di due testi, che i poeti di oggi facciano a gara a chi scrive delle cose più stupide, inutili, minime, luride. Credono che la loro vita, con il suo solito tran tran, i suoi vuoti insensati rituali, abbia un qualche valore per qualcuno che non siano essi stessi. E' sfuggito alla loro attenzione che il quotidiano, in quanto abitudine, è irreale; è il falso mondo in cui si è condannati a vivere, o dove ci si rifugia per comodità esistenziale. L'abitudine al conosciuto è bugia, l'innaturalezza di questo modo di vivere è semplice costruzione. Dicono e scrivono bugie e non capiscono che illudono se stessi, assieme agli altri. Aprirsi al mistero, all'ignoto, al lato nascosto della natura è invece l'unica verità.
A questo uso sociale della poesia si è accompagnato una ostinata, ostentatantetata presenza dell'autore nei testi. Mallarmé chiedeva invece precisamente la sparizione del poeta dalla poesia: l'oeuvre pure implique la disparition élocutoire du poete, qui cède l'initiative aux mots (Crise de vers).
La poesia è per pochi, pochissimi. L'idea che aveva Mallarmé del poeta era quella di un ricercatore dell'Essere distaccato e, davanti al mistero, sempre solitario; il lettore arriva a raccogliere i resti del divino banchetto in un secondo tempo. Il limite, il divario tra i due non sono mai colmabili, né eliminabili. La bellezza è dispersa nel mondo, inconcepibile nella sua interezza; ma c'é. 

Perché dunque è sparita, dalla poesia odierna, come un rapido sogno che non si lascia dietro niente? Dov'è finita quella bellezza che non scompare mai del tutto? I poeti hanno dimenticato la natura, il reale e il suo mistero, per diventare quello che non dovrebbero mai diventare: lettori tra lettori ‒ dimentichi del fatto che la Poesia esiste anche senza di loro, e anche senza lettori.

                                                                        Gabriele Marchetti