lunedì 23 marzo 2015

Chiara De Luca, Poesie per Ferrara


 
Come scrisse splendidamente, tempo addietro (nel n. 9, ottobre-dicembre 2003, di «Cartapesta», piccola e preziosa rivista imolese oggi defunta), Andrea Pagani,  «sarebbe stato difficile trovare una città più adatta di Ferrara – dannunziana “città del silenzio”, con le sue ampie strade deserte, con la sua sospesa solitudine, col senso di attesa e di mistero che trasuda dai suoi monumenti –» ad ospitare e sollecitare la genesi della pittura metafisica. Città, proseguiva, tale da ispirare «la suggestione per un punto di vista surreale del mondo; le pieghe del mistero che si nascondono sotto i contorni della realtà; immagini di sospensione, attesa, presagio; una sorta di occhio veggente e di accostamenti improbabili fra le cose».
Lo stesso vale per questi versi di Chiara De Luca, che ho l’onore di presentare. Testi in cui vi è, certo – ma remota, privata di qualsiasi compiacimento decadente, di qualsiasi svenevolezza ed estenuazione estetizzante –, l’eco della città del silenzio dannunziana (o di quella «Ferrara la morta» di cui Corrado Govoni, ad emulazione della Bruges di Rodenbach, cercò, a inizio Novecento, di plasmare l’immagine e il mito); ma nei quali prevale un ritrovato respiro, una rinnovata ariosità, discorsività e umanità del canto, oltre, e non al di qua, di ogni tentazione di formalismo o d’intellettualismo chiusi in se stessi.
Il che non indebolisce, ma semmai rafforza, la portata simbolica, la correlatività esistenziale dei luoghi, degli ambienti, dei nomi, e dei ricordi che essi, quasi proustianamente, richiamano e ridestano.

domenica 8 marzo 2015

Antonio Castronuovo, "Elogio dell’editore a pagamento"


C’è un fenomeno che mi preoccupa: le intemperanti censure nei riguardi degli editori a pagamento. Da qualche tempo un biasimo bellicoso affiora dal mondo immateriale di Internet: l’autore – povero credulone – non sarebbe altro che la vittima di scaltri animali da preda, che avrebbero buon gioco su di lui. Mi preoccupa il crescente fronte critico perché sono convinto che la funzione che questi editori svolgono sia invece benefica. Ragion per cui mi dispongo a individuare le ragioni della loro utilità e a stenderne un convinto elogio.
Faccio innanzitutto notare come gli editori a pagamento abbiano considerevolmente ampliato la platea degli scrittori, rendendola più folta di quella dei lettori. Come non elogiarne la pedagogica funzione? Chiediamoci onestamente: è più difficile e istruttivo leggere o scrivere? Ovvio: è più difficile e istruttivo scrivere. Dunque gli editori a pagamento, stimolando la pratica della scrittura (che per sua intima natura mira allo sbocco pubblico), hanno concorso al programma educativo nazionale più e meglio della Scuola Privata (e anche di quella Pubblica, per quanto assai meno autorevole).
L’editore a pagamento è poi figura premurosa: risponde infatti sempre e subito. Basta spedirgli un dattiloscritto che tratti di qualunque argomento, che perfino ricada nell’esiziale categoria poetica ed egli, pochi giorni dopo la ricezione, reagisce con una letterina nella quale annuncia che il prodotto è pubblicabile. In parole povere: l’editore a pagamento facilita il rapporto scrittore-editore. Vuoi mettere l’ansiosa attesa di anni imposta dai cosiddetti editori “veri”?
L’editore a pagamento è un critico affabile, non di quelli idrofobici che ce l’hanno a morte con qualche scrittore o con un certo genere di scrittura. Oltre a rispondere rapidamente, egli prodiga un giudizio critico di trama solidale e umanissima, del tutto soddisfacente per l’autore: comunica infatti quasi sempre che l’opera ricevuta – oltre a essere pubblicabile – è anche originale e seducente.
Ricordo con una certa trepidazione quando pubblicai il mio primo libro presso un editore a pagamento; ne ricordo la lunga lettera che mi spedì su carta intestata (all’epoca non esisteva ancora la posta elettronica); ricordo il garbo cordiale con cui mi annunciava la singolarità dell’opera, la rara capacità con cui avevo toccato temi di «diffuso interesse», la strutturazione organica del lavoro, insomma – terminava la lettera – «una vera novità». Tale da averlo indotto a pubblicare il lavoro e, per non aggravare i costi, a uscire con una tiratura minima, tutta a mio carico. Ma beninteso: l’eventuale ristampa sarebbe stata totalmente a sue spese.
Grande fu la mia gioia, anche se poi – per il mancato successo dell’opera, che non vinse alcun premio letterario, non godette di nessuna recensione e non vendette neanche una copia – non si giunse alla ristampa. Ma che importa? Nel definirla opera singolare, l’editore a pagamento era stato molto acuto: non fu colpa sua se la mia illusione si trasformò, più tardi, in disinganno. Anzi, anche questo è tema di elogio.
L’editore a pagamento apparecchia infatti per l’autore una bella illusione, senza omettere di donargli poi la capitale esperienza della disillusione, proprio come accade per l’amore (radicalmente erroneo il concetto di amore infinito espresso dal Sonetto 116 di Shakespeare). Ozioso ripetere quanto ciò sia essenziale alla maturazione: delusione su delusione, la vita si snoda nel tempo, mostrando il suo vero volto di illusione deludente. L’editoria a pagamento non fa che profilare una delle tante delusioni della vita, in ciò palesando il proprio ufficio sapiente.
Grazie all’editore a pagamento, inoltre, chi non ha la stoffa dello scrittore – che consiste nel perseverare – si arrende. Allestendo lo smacco editoriale, egli opera come un setaccio che seleziona il buon grano e trattiene la pula. Dopo l’insuccesso, infatti, quasi tutti gli scrittori entrano nella folta categoria degli “autori di un solo libro”. Solo una testarda minoranza s’incaponisce e produce un secondo titolo, anch’esso pubblicato dall’editore a pagamento. Per colui che non s’è arreso i giochi si compiono dal terzo libro: c’è chi continua a pubblicare presso l’editore a pagamento, c’è chi trova sbocco editoriale “vero”. Ma si tratta di una minoranza.
Insomma, gli elogi verso l’editore a pagamento si sprecano ed è cosa turpe lamentarsi di lui. A farlo, con più alto strepito, sono gli scrittori esordienti, proprio quelli che nessuno leggerebbe mai, neppure se costretto. Invece l’editore a pagamento ha gettato l’occhio su qualche loro frase, ha compreso almeno di cosa l’esordiente stia parlando. Certo, lo abbiamo già detto: non che l’editore a pagamento sia così ottuso da leggersi tutti i dattiloscritti che riceve. Se leggesse non avrebbe certo il tempo di creare reddito, ulteriore motivo di elogio nei suoi confronti.
Agli esordienti, poi, va rammentato che molte grandi opere della storia letteraria furono pubblicate dagli autori a proprie spese presso un qualche tipografo (saltano in mente i casi della Stagione all’inferno di Rimbaud, del Porto sepolto di Ungaretti, dei Canti orfici di Campana). Auspico che l’esordiente sia più illuminato e valuti ogni aspetto del problema; solo così potrà convincersi della bontà dell’editore a pagamento e – come me – sollevarne un encomio.
Approdati alla stampa, altri motivi di plauso affiorano. Non sarà passato inosservato che i libri dell’editore a pagamento sono artatamente farciti di refusi, sia quelli d’autore sia alcuni di apposita istituzione (fenomeno notissimo: trovare che una propria frase sia stata corretta chissà da chi, producendo un errore che non c’era). Chi, in un empito di stravaganza, leggesse una pagina prodotta da un editore a pagamento, noterebbe agevolmente la quantità dei refusi. Ma quella pagina – futile e monotona come solo gli esordienti sanno fare – diventa di colpo, per il lettore severo, un campo di ricreazione culturale.
Va poi considerato che la lamentela sui costi è del tutto fuori luogo, trattandosi di valori accessibili. Un’edizione a pagamento (che so: una plaquette di poesie, un romanzetto, una raccolta di articoletti) viaggia oggi attorno ai mille euro, grazie anche all’editoria digitale che ha morigerato i costi. Cifra non elevata, se si pensa che equivale a ciò che serve per acquistare un piccì portatile, una mefitica settimana di villeggiatura per due persone, 60 pizze quattro stagioni con birra e tiramisù. Forse che un vero scrittore non rinuncerebbe a 60 pizze pur di vedere pubblicato il proprio libro?
Quei mille euro non sono affatto troppi; incomprensibile dunque l’irosa idea che chi cade nella rete dell’editore a pagamento sia uno stupido che merita di essere dilapidato. Anche in questo caso non vengono stimati i vantaggi. È noto che la miseria aguzza l’ingegno, e dunque lo scrittore dilapidato ha migliori possibilità di emergere rispetto a quello benestante.
Infine, un elogio che sorge dalla mia personale esperienza. Ho già narrato la trepidazione per il primo libro pubblicato a pagamento; giunsero poi anni in cui un paio di “veri” editori vollero scommettere su di me. Trascorsa quell’epoca di fiducia, nessuno oggi mi pubblica più, e sto pian piano tornando verso gli editori a pagamento. Che mi prendono per mano lungo la mesta rotta dell’autore anziano e in ombra.
Logoro e stremato, nulla più ho da dire, nulla più di originale da mostrare. Ed ecco che l’editore a pagamento mi accoglie a braccia aperte, e mi concede ancora una rasserenante illusione. Grazie, editore a pagamento, per il servizio che fai alla gioventù esordiente e alle vane fantasticherie degli autori sfiancati. Grazie.

(«Il Caffè illustrato», n. 76-78, gennaio-giugno 2014, pp. 8-9)



venerdì 6 marzo 2015

Pietro Pancamo, "Gli intercalari del silenzio"

Offro ai lettori, da una raccolta inedita di Pietro Pancamo, questo prezioso esempio di poesia silenziaria che, del silenzio, esplora le varie dimensioni: tanto il lirismo quanto l'amarezza, sia la crepuscolare perplessità sentimentale che il pianto e il grido trattenuti a fatica, così il raccoglimento interiore come il sorriso, o la risata, beffardi e disgreganti.

L'ironia, spesso amara, o addirittura tragica, ghignante, ferale, è (come in Laforgue, o in certo Lucini) l'altra faccia del lirismo; vi è, in questo mondo poetico, una sottile dinamica esistenziale e semantica la quale lega i due elementi, i quali non possono non coesistere ed interagire.

Il simbolismo europeo, a prima ancora il romanticismo, ben sapeva che la musica è nelle pause dei suoni forse ancor più che nei suoni stessi, e che le melodie non udite, le unheard melodies, proprio perché solo immaginate o sognate, impossibili da incarnare e far risuonare per gli strumenti umani, sono più dolci di quelle udite.

Qui, però, è il silenzio stesso, indipendentemente dai suoni di cui è negazione (ma che nel contempo rende possibili, separandoli, modellandoli, scindendoli dall'indistinto), a parlare, a pronunciare il vuoto. I suoni turbano la perfezione del silenzio; l'essere, si potrebbe dire con Valéry, non è che un vizio nella purezza del non essere.

Ma l'altra faccia del silenzio è un tripudio di suoni; la poesia stessa è, come fu detto, “un silenzio rovesciato”. Tutti i suoni, tutte le voci le forme le espressioni che il silenzio racchiude in sé, fagocita, pareggia ed annulla (il rumore bianco, somma di tutti i suoni, è un soffio o un fruscio lievissimo, appena al di sopra del silenzio), esplodono in un tripudio caotico, quasi surreale, con transizioni imprevedibili e contrappunti stridenti, non appena si lacera il velo del silenzio, e ne viene schiuso lo scrigno celato.

Eppure, voci suoni forme sono sempre insidiati da quello stesso silenzio da cui nascono, e dovranno ad esso tornare, come in un ciclo apocalittico d'Alfa ed Omega. La poesia è appunto questo assiduo esorcismo del silenzio, questa sorta di creazione continua che al silenzio strappa ogni parola pronunciata e ogni istante vissuto.

(M. V.)

 

Filosofia

Parole e frasi sono gli intercalari del silenzio

che smette, ogni tanto,

di pronunciare il vuoto.

Allora qualche indizio di materia

deforma l’aria,

descrivendo le pause del nulla

prima che il silenzio

si richiuda.

(Le mani s’infrangono

contro un gesto incompiuto)


Verande d’azzurro

I

Un laghetto di fumo nel cuore… Processioni di frasi lasciano calzature d’intelligenza

prima di entrare nella moschea delle bocche.

II

I profumi sorridono tra le maschere di foglie. E lettere serpentine

indossano pastrani di luce.

III

Un gregge di bagliori

alle pendici dei versi

nasconde l’Ulisse della mia ispirazione…

Canicola di gioia, tanfo d’allegria

negli sguardi ciclopici del solo occhio giornaliero. Spranghe di felicità

negli acuti del sole

e, fra verande d’azzurro, spaventapasseri di poesia…

IV

Tachicardia di vento nei vestiti: il vento, cuore del cielo…

Le nuvole sembrano covoni di luce, capanne di fieno

intorno al pagliaio del sole. Nel raspo degli alberi

festoni d’aria, e gli occhi sono brandelli di nostalgia tra festuche di tempo allegro.

Stelle filanti d’erba, pendii agitati fra la bonaccia della pianura…

V

Terra diroccata e baracche di collina. Villaggi di sole.

Dal lievito nullo di rocce azzime,

paesini salgono

pioli di luce.



Poeti

Noi che visitiamo carmi di sole

brindiamo con versi e parole.

Scriviamo sorrisi

e sentimenti in codice;

insonni di vita

andiamo sposi

ai nostri occhi.



Se la tua voce

 

Se la tua voce desidera cullarsi

nel mio cuore,

troverò i sorrisi

con la mano di un giocoliere

e i miei minuti saranno il volto di acrobazie

che, da una mano all’altra,

volano fra una mano e l’altra.

Il destinorizzonte

Stracci di sonno coprono,

masticano il corpo della notte

diafano di tenerezza;

lo avvinghiano

sinuoso di buio

– flessuoso di membra stellate –

e lo attraversano d’amore.

Poi, fosforescente,

lo sguardo della nebbia,

scosso di stanchezza,

si espande lento nel cuore

come un gas di desideri

volatilizzati.

Mentre il mio destino,

guantato dalla notte,

scende nei sobborghi dell’anima:

strade oscure di pensiero

e siepi d’amore

s’intersecano nel mio nome.

Il destinorizzonte

s’attorciglia

a questa landa di tempo.

«Chi» – si domanda –

«striscerà nella roccia del canto

la gioia, turgida

come i seni di un fiore incantato?».



Parole dal silenzio


Ricorda il mistero

che fioriva in un sospiro,

dove la morte ha tessuto il nido

come una spiaggia

di parole taciute;

come un barbaglio di sogni trasparenti,

orchestra di anime perdute.


La fuga mancata

La voce trasuda parole d’accento piagato

ma è tiepido il grido del tuo respiro,

le piaghe troppo soffocanti

perché tu abbia il fiato d’urlare.

Morire da te

è una fuga troppo leggera

per avere il sollievo.

Così

un pantano di figure

nel cuore

e il giorno s’increspa

a raccogliere il tuo soffio.


Nausea


Morbido silenzio, soffice

come una preghiera del sonno.

Il buio che adora fruscii e parole:

il buio, affannato dal mio respiro,

può solo accarezzare la

nausea di questa vita.

Nel giorno,

sputo della notte,

fiori freddi

come steli di pioggia.

Un’orma di luce

imbavaglia lo spazio.