domenica 28 febbraio 2016

"Perché tu mi dici: poeta?" Nota per "Intendyo" di Massimo Sannelli




Questa non è una recensione, ma una storia. Facciamo preliminarmente un’ipotesi fantastica, la meno italianistica e filosofica di tutte le ipotesi possibili. Immaginiamo un uomo, europeo, nato tra il 1890 e il 1910. Potrebbe anche essere orientale, ad esempio un giapponese, ma pratico dell’Europa.
Immaginiamo che questo autore, molto borghese e molto colto, passi i primi anni della sua vita oscillando tra collegi e grandi viaggi, tra biblioteche e sport. Naturalmente veste bene e altrettanto bene parla, scrive molto, forse, ma non pubblica, o pubblica poco e distrattamente. In politica è ambiguo: detesta la normalità piccolo-borghese ma trova impraticabile il popolo; se è fascista è un fascista mistico; se invece è comunista, lo è con grandi sfumature mistiche, come Cesare Pavese.
Il nostro ipotetico autore naufraga in tutti i sensi, poniamo, intorno al 1944. Per l’epoca non è giovanissimo, tuttavia muore irrealizzato, come uno che non ha completato il suo percorso, e se ne pente alla fine – una specie di Buonconte da Montefeltro. Mentre il suo aereo precipita, o mentre guarda la lesione permanente, o mentre è davanti al plotone di esecuzione, questo autore decide una cosa assurda: sopravvivere al franamento, continuare. Un po’ di commozione e via, e così potrebbe finire la storia.
E invece la storia non è finita, il tempo non è ancora scaduto. Immaginiamo che questo autore riappaia trent’anni dopo. Nasce nel 1973, con la solita ‘fatica’ e il solito ‘rischio di morte’, e si fa notare subito. Non solo perché «la prestazione intellettuale è nettamente superiore alla media», come dice la sua pagella scolastica, quanto perché ha un marchio fisico. È evidente che non è come i suoi coetanei: non gioca, non urla, odia mangiare in gruppo e adora i libri; non gesticola e in piena infanzia trova volgari le cose infantili; ama la solitudine in un modo troppo consapevole per essere semplicemente un bambino disadattato. Socialmente la sua situazione è cambiata: non è più un alto-borghese e non può frequentare le grandi scuole di una volta, né fare la grande vita di prima. Vive in Italia, che è particolarmente aspra nei confronti di quelli come lui.
Tutta questa immaginazione non deve essere presa alla lettera, ovviamente, ma forse serve a dare l’idea del libro al quale mi sto avvicinando. L’autore è Massimo Sannelli e il libro è Intendyo (La Camera Verde, Roma 2016, pp. 170). Mi è sembrato il libro di un veterano precoce e sopravvissuto a se stesso, da una identità all’altra. Perché è un libro violentemente classico, che parla la lingua nervosa, sentimentale e intellettuale degli anni Trenta-Quaranta del secolo scorso. Inoltre ha delle caratteristiche lontanissime dal 2016: anzitutto non è la solita sterile plaquette, ma un libro esteso; non è una raccolta di testi poetici eterogenei, ma un solo poema lirico, in 159 doppie quartine (quindi, mezzi sonetti, sonetti dimidiati), spesso in endecasillabi, quasi sempre rimati e/o assonanzati. L’idea del poema – un poema in cui ogni elemento ha la stessa facies degli altri elementi, e quindi un poema coerente – oggi è irreale. E ancora: il titolo arcaico allude all’abitudine socializzata dell’amore platonico, cioè del servizio amoroso. L’intendyo, a Genova, dove Sannelli vive, è stato soprattutto il legame intenso e castissimo tra la bella Tommasina Spinola e il re Luigi XII di Francia. Nel 1502 re Luigi visita Genova, conosce Tommasina, stabilisce l’intendyo con lei, e poi riparte. Nel 1503 le giunge la falsa notizia della morte di Luigi, e Tommasina decide subito di morire.
E Sannelli che c’entra con l’intendyo di Tommasina? Forse ha vissuto lui stesso qualche devozione impossibile e dolorosa; e forse, dopo averla vissuta, ha deciso di liberarsene, per sopravvivere. E da libero e reduce ha voluto far capire che l’intendyo, per lui, è solo l’intendyo con quella che non esita a chiamare ‘vocazione’ e perfino bushidō, come un samurai. E anche queste parole fanno parte di un patrimonio e di un repertorio fuori tempo, da reincarnato oltre il tempo, per usare la metafora di partenza.
Nel luglio 2011 Sannelli (lo racconta in Digesto, uscito nel 2014) ha avuto un incidente abbastanza serio, che per circa un anno ha lasciato segni evidenti sul suo viso: il viso – non dimentichiamolo – di un artista che ha sempre fatto molta vita pubblica ed è anche attore di cinema. Per molti mesi Sannelli è stato senza denti come Pierre Clementi in Bella di giorno di Buñuel. La parola intendyo contiene i denti; e lo yo finale è – come in spagnolo – l’io. Io, i denti, intendyo; il re, la donna, la morte; il rapporto e la crisi finale. Morire o non morire, oppure sopravvivere, in qualche forma almeno intellettuale, e con una tensione stilistica che dimezza il sonetto perché la vita stessa è dimezzata: come senza il suo re, Tommasina è lacerata; e chi non si sente adeguato a questo tempo – ad esempio il classico bambino che non gioca e trova volgare l’infanzia, perché è stato adulto ed è già adulto – è spaccato letteralmente in due. Ecco i percorsi del poema di Sannelli.
Allora si comincia a capire qualcosa dell’andamento interiore di chi l’ha scritto, lampo per lampo: amare, degradarsi nell’infelicità, ferirsi o lasciarsi ferire nella lucta amoris, sfigurarsi e risorgere, ma senza il primo grado dell’andamento, amare. E il libro è pieno di rimandi al femminile, in cui si intravedono almeno due figure di donne, per lo meno di funzioni vitali di cui queste donne sono il simbolo, chiaro e puro o impuro, così come la relazione amorosa e sessuale può essere chiara, incorrotta o impura. Insieme, Intendyo, libro amoroso, è un libro duramente militare: spesso appaiono accenni alla violenza, una violenza non ben definita, eppure non astratta. Come la violenza sognata in un sogno che non si può più ricostruire. «Io non sono una guerra» è la frase-simbolo del libro, detta in apertura, e più avanti ripetuta. Come dire: ‘io faccio la guerra, la subisco, forse la perdo, ma non sono questa guerra’. Credo sia questa la tensione del libro. Se evito le citazioni dirette è perché qui, come non mai, la separazione del testo dal contesto è davvero fuori luogo. Questo libro ingoia tutto e lo si prende come è, a costo di accettare l’inquietudine che attraversa ogni pagina sotto lo strato virtuosistico del suono e del ritmo.
Infine, due parole sul titolo corazziniano di questo mio testo. Sannelli dice spesso di non essere un poeta, ma è consapevole di esserlo, e di fatto lo è: tuttavia senza inganno, che – lui sa benissimo anche questo – sarebbe autoinganno.


                                                                       
                                                                            Elisabetta Brizio

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